“Chi ama le parole riconosce le buone storie al tatto…” – L’intervento dello scrittore-libraio Alessandro Barbaglia

Ma, in definitiva, noi, questa estate, che cosa leggeremo? Sono un libraio, il mio lavoro è consigliare libri da leggere, ma ogni estate temo come un alluce lo spigolo di un letto quel sorriso luminoso che precede la domanda: “Mi scusi, mi consiglia qualcosa da leggere sotto l’ombrellone?”

A farmi paura è la domanda, s’intende, mica il sorriso.

La domanda sì che mi fa paura, perché se esistesse una risposta, a una domanda così, allora dovremmo immaginare che esista anche un libro da leggere vicino al camino, per l’inverno, adatto alle piogge, per l’autunno, e immune agli starnuti allergici per la primavera, o ai reumatismi, da leggere nella vasca da bagno.

Insomma, io non sono proprio certo che esistano libri adatti all’ombrellone. Forse i gialli, che fanno venire i brividi, e così magari tengono freschi. Se per quello, però, anche i libri brutti fan venire i brividi, e a quel punto siamo freschi per davvero…

Sto divagano, è ovvio, ma lo faccio perché da libraio – e da lettore – la domanda me la faccio davvero. E una risposta, clamorosa, ce l’ho davvero.

Ripartiamo: ma in definitiva, noi, questa estate, che cosa leggeremo?

Parole, avrebbe risposto Amleto (anzi, è proprio così che risponde Amleto a Polonio, “Parole, parole, parole” – come nel testo di Mina – quando all’inizio del secondo atto quello lo coglie in biblioteca intento a sfogliare un libro di cui vorrebbe conoscere il titolo).

Parole. Leggiamo parole. Diciamolo forte: quest’estate leggeremo parole. Una risposta così disarmante e banale che se non fosse anche vera farebbe cascare le braccia.

E invece è proprio così. Le storie arrivano dopo. Prima le parole.

Forse la prima cosa da fare con le parole, prima di usarle, prima di scriverle, prima anche di pronunciarle o leggere, sarebbe capirle.

Comprenderle.

E questo se vogliamo è già il primo guaio perché le parole sono spettri. E come gli spettri sono fatte di evocazione.

Tipo la parola “sedia” che in me evoca una sedia (quella di legno scomodissima su cui sono seduto ora mentre scrivo) e che in chi la legge ne evoca un’altra.

Le parole sono spettri, evocazioni. E allora? Come accordarci? Come capirci? Se dico “sedia”, ad esempio, dico per tutti la stessa cosa?

Forse sì. Diciamo che se le parole fossero finestre, anche quando definissimo a perfezione la medesima finestra e ne condividessimo il senso dell’infisso e la forma della maniglia, poi andrebbe a finire che la finestra fissata sarebbe quella, ma il panorama su cui si affaccerebbe resterebbe per ognuno uno diverso.

Parola. La parola parola deriva dal greco e in greco, parola, significa, avvicinamento, paragone. Cioè, alla radice, la parola è un paragone. Una cosa che si avvicina a un’altra. E le parole si avvicinano, soprattutto una all’altra. Le parole, nella loro fluidità è questo che fanno: diventano storie. Sono fantasmi, spettri, evocazioni, finestre aperte (o chiuse ma con i vetri trasparenti) e, io credo, sono soprattutto delle grandi amatrici.

Le parole si amano.

Non possono farne a meno.

La parola “la” ad esempio vuol dir poco. Non ha grande senso. Basta andare “lì” e ce ne siamo liberati.

Anche la parola “casa” però non è gran che. Basta una tenda per farla fuori. E il discorso, in verità, vale per tutte le parole prese nella loro condizione di “single”.

Ma se le parole si amano – e va sempre a finire così – appena si baciano, appena fanno l’amore una con l’altra, appena si intrecciano il legami a cui danno senso, ecco che partoriscono una storia.

Perché se “la” e “casa” da sole sono poco, “la casa”: è già una storia.

E’ la casa da cui siamo scappati, quella in cui ci rifugiamo, quella che sogniamo. E’ una storia. Le storie sono tutte storie d’amore perché sono il frutto dei legami d’amore tra due o più parole (le parole non brillano per monogamia).

Che cosa strana dire che quest’estate leggeremo parole. Eppure è così.

Leggeremo parole. E un buon modo per occuparsi di loro è quello di proteggerle, studiarle, capirle, far sì che si amino tra di loro nel loro atto di generare storie.

Poi, a quel punto, se amerete le parole in questo modo, io credo, quelle che leggerete sotto l’ombrellone o altrove non saranno più un problema. Perché saranno quelle di un buon libro.

Perché chi ama le parole riconosce le buone storie al tatto; come angurie mature, sa riconoscerle subito, al profumo, al suono di risposta del nostro piccolo toc toc.

Amate le parole, leggerete buone storie.

Alessandro Barbaglia

L’AUTORE E IL SUO ROMANZO – Alessandro Barbaglia è un giovane poeta e libraio che vive a Novara. Il romanzo La locanda dell’ultima solitudine (Mondadori) è il suo primo libro pubblicato da un grande editore, ed è arrivato in finale al premio Bancarella: una scrittura lieve e poetica, tra giochi linguistici, pennellate surreali e tenerezza, con cui l’autore ci racconta una storia d’amore. Quella di Libero e Viola, due ragazzi che cercano ognuno il proprio posto nel mondo. E nel farlo si sfiorano, come due isole lontane che per l’istante di un’onda si trovano dentro lo stesso azzurro. 

La locanda dell'ultima solitudine

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