“(…) La pietà non va confusa neppure con la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi; accade, infatti, che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli. Quante volte vediamo gente tanto attaccata ai gatti, ai cani, e poi lasciano senza aiutare il vicino, la vicina che ha bisogno… Così non va”. Le recenti parole di Papa Francesco hanno fatto molto discutere. Su ilLibraio.it il punto di vista di frate Alberto Maggi, biblista, che sottolinea: “Gli animali sono doni del Signore e l’uomo è il loro custode, questi non vanno maltrattati ma curati, come il pastore con le sue pecore” – L’intervento

UOMINI, BESTIE E ANIMALI

Nel rivolgersi a Giobbe, il Creatore gli ricorda che non è l’uomo la prima delle sue creature, bensì la bestia, anzi le bestie, (è questo il significato del vocabolo ebraico behēmôt, identificato in antico con l’elefante, poi con l’ippopotamo e ora con il bufalo), “che io ho creato al pari di te… Esso è la prima delle opere di Dio” (Gb 40,15-19).

Infatti, secondo l’ordine della creazione stabilito nel Libro della Genesi, prima sono creati gli animali e solo alla fine l’uomo (Gen 1,20-28). Di fronte all’esito della sua creazione, il Signore ne restò soddisfatto (“Dio vide che era cosa buona”), e benedì gli animali, esattamente come farà per l’uomo e la donna: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gen 1,21-22.28). Poi, sempre secondo la Genesi, il Creatore condusse gli animali all’uomo “per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Gen 2,19).


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Il Signore ha tanta stima nell’uomo da lui creato, che fa un passo indietro, non gli presenta la creazione già bella e fatta, ma gli chiede di collaborare. Non sarà il Creatore a imporre i nomi agli animali da lui creati, bensì l’uomo: “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici” (Gen 2,20). L’azione dell’uomo di mettere un nome agli animali va al di là dell’ovvio chiamare un animale “pecora” e l’altro “leone”, uno “cammello” e l’altro “elefante”.

Il nome nella cultura orientale è l’essenza stessa dell’essere, è quel che lo distingue e lo raffigura, è la sua stessa realtà. Pertanto imporre il nome, non indica solo qualificare il genere, ma l’identità. Ne sanno qualcosa i pastori del medio oriente. Quello che agli occhi di un occidentale appare semplicemente come un gregge, agli occhi del beduino, è invece un prolungamento della sua vita, quel che gli permette di esistere e per il quale ha rispetto e premura. Per questo, al momento della nascita dell’agnellino, il pastore, come Adamo, impone il nome al nascituro, e ognuno è diverso ai suoi occhi.


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L’occidentale vede il gregge, il pastore distingue “bianchino” da “batuffolo”, “furbetto” da “testardo”, “luce” da “malizia”… ogni pecora ha il suo nome che la contraddistingue per il comportamento. Così si comprende meglio l’affermazione di Gesù, il pastore ideale, che “chiama le sue pecore, ciascuna per nome” (Gv 10,3) e che è pronto a dare la sua vita per esse (Gv 10,11). L’intima relazione che si crea tra il pastore e la sua pecora è descritta magistralmente nella Bibbia nella storia che il profeta Natan narrò al re Davide per rimproverarlo del suo delitto (2 Sam 11).

Il profeta racconta di un povero che non aveva nulla “se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia” (2 Sam 12,1-3).  No, non è un amore esagerato. Allevare un animale è imporgli un nome e trattarlo come un figlio. Quando si legge nel Libro della Genesi che il Signore ha affidato il creato all’uomo affinché lo domini (Gen 1,26), il dominio non ha il significato di sfruttamento o di sopraffazione, ma è l’atteggiamento del pastore che si prende cura del suo bestiame, garantendo il benessere di quel che gli è stato affidato, e collabora all’azione creatrice perché divenga quel che il Creatore ha pensato (“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”, Rm 8,19).


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Gli animali sono doni del Signore e l’uomo è il loro custode, questi non vanno maltrattati ma curati, come il pastore con le sue pecore (“fascerò quella ferita e curerò quella malata”, Ez 34,16). Essendo stati creati prima dell’uomo gli animali hanno una storia evolutiva più ricca e per chi ha occhi per vedere, sono maestri di vita e di saggezza (Gesù non esita a invitare i discepoli a imparare dagli “uccelli del cielo”, Mt 6,26), e di fedeltà, come il cane, che insieme all’angelo Raffaele accompagna e segue Tobia nel suo lungo viaggio: “Il giovane partì insieme con l’angelo, e anche il cane li seguì e si avviò con loro; Il cane, che aveva accompagnato lui e Tobia, li seguiva” (Tb 6,1;11,4). L’autore sacro non ha esitato a mettere come fedeli compagni di viaggio di Tobia un angelo e un cane, chiamati entrambi a essere compagni di strada per l’uomo, e Gesù stesso si intenerisce di fronte all’immagine dei “cagnolini che mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15,27).

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

 

 

 

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