Deborah Gambetta torna in libreria con un romanzo conturbante, “L’argine” – Un capitolo

Sandro è ossessionato dallo scorrere del tempo. E il tempo – che sente battere dentro la testa metodico come le lancette di un orologio – è quello dei ritmi della fabbrica in cui lavora. Il tempo frammentato dentro la sua testa è specchio della sua esistenza: anche la sua vita è andata in frantumi. Se lavora dentro quella fabbrica è perché sua moglie, dopo tredici anni di matrimonio, sei mesi prima l’ha lasciato e ora non ha più niente. La vita di Sandro è piena di rabbia.
Questa vita scandita dai turni di lavoro, che lo costringono a svegliarsi alle tre di notte o andare a dormire alle cinque del mattino, è una vita capovolta. Quando lui è sveglio, tutto il mondo là fuori dorme. Questa gente che vive all’incontrario rispetto a lui, lo fa apposta. Lo fa apposta perché lo odia.
Sandro vive in un bilocale in affitto, e quando non lavora guarda fuori dalla finestra. Di notte conta i lampioni, i cassonetti dei rifiuti, le auto parcheggiate. Osserva anche, attraverso le finestre illuminate delle case di fronte, la vita dei vicini.
Ha anche un fucile, Sandro, che era di suo padre e che ha trovato per caso nel garage di casa della madre. Quando comincia ad appostarsi alla finestra tenendo sotto tiro chiunque passi, il primo, piccolo smottamento verso la follia, è cominciato.
Sandro tranne il figlio tredicenne che gli viene affidato dalla moglie un fine settimana ogni tanto – e con il quale non è mai stato in grado di stabilire alcun rapporto – non ha altri legami. C’è solo una persona che lo incuriosisce: un vecchio che ogni sera porta a spasso il cane e con il quale comincerà ad incontrarsi.
La vita di Sandro è un fallimento. L’origine di questo fallimento si perde in un punto impreciso del passato, e forse riguarda la sua famiglia di origine, forse il suo matrimonio, o forse se stesso. Quando in fabbrica conosce una ragazza – molto giovane e molto diversa da lui e da tutto ciò che è stato – le cose sembrano cambiare. Per un po’, e nonostante le sue resistenze, la sua vita subisce uno scarto. Ma l’illusione dura poco. Perché la paura torna, e con lei le ossessioni. La morte improvvisa di un collega della fabbrica è un ulteriore tassello che si aggiunge.
La discesa nella follia è dietro l’angolo, e avviene per piccoli crolli. E l’ultimo e decisivo, sarà quando suo suocero verrà ad aspettarlo fuori dalla fabbrica per saldare un conto in sospeso.
Se la traccia delle nostre esistenze e del nostro fallimento sono le persone che abbiamo amato, allora, l’unica cosa che resta da fare è cancellare quelle tracce.

Deborah Gambetta, torinese, torna in libreria con un romanzo conturbante, L’argine (Melville edizioni).

Gambetta

Su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto:

Sul tavolo, perfettamente allineati, ha sistemato il quaderno, la mappa, le fotografie e le chiavi della casa di sua moglie che ha conservato nel cassetto del comodino e che non ha mai restitui­to. Guarda sua moglie e suo figlio, guarda suo padre col fucile a tracolla e apre la mappa. Fa scorrere le dita sulle linee delle strade, dei fiumi, su quelle che ha tracciato a matita, il lungo scaraboc­chio sbilenco che attraversa i campi e le cifre che ha segnato. Gli ritorna in mente quella parola, destino, e pensa che tutto è colle­gato. Ogni cosa, l’elemento essenziale di un disegno.

Apre il quaderno. Le pagine scricchiolano sotto le dita. È la prima volta che rilegge quello che scrive. Si sofferma su una frase, un segmento di discorso, una parola. Salta intere righe e torna indietro. Si rende conto che non c’è nessuna data, nessun riferi­mento. Non c’è alcun criterio. Un lungo discorso senza senso. Un rovello di cui ha dimenticato l’inizio, l’origine. Una specie di nastro che gira ossessivo su se stesso. Pagine scritte e poi di colpo il nulla. Fogli bianchi. Uno, due, tre. A volte quattro o cinque. Assomigliano a voragini questi spazi vuoti. Cosa accade nei momenti in cui non scrive? Dov’è? Cosa fa? E quanto durano questi momenti? Minuti, ore, oppure giorni? Cosa accade dentro quegli spazi muti?

Il ricordo gli esplode netto nella testa. Di colpo vede l’asso­nanza, quella cosa che gli era sfuggita, quella specie di disagio che lo assaliva ogni volta che scriveva nel quaderno. Era una do­menica mattina di qualche anno prima, forse tre, ed era in cu­cina a fare colazione. Il giornale era vecchio di qualche giorno. Scompaginato e ripiegato alla meno peggio, era abbandonato su una sedia. Mentre beveva il caffè aveva cominciato a sfogliar­lo, distrattamente. Dalla stanza da letto di suo figlio sentiva la voce di sua moglie: ti sei lavato i denti? Fa un po’ vedere come ti sei vestito? Dài, che fai tardi a catechismo, il nonno è già sotto che ti aspetta. Sfogliava le pagine, leggeva rapidamente i titoli, si portava la tazza alle labbra. Poi, l’attenzione gli era caduta su quell’articolo. Un uomo, in un paese della provincia di Matera, aveva ucciso la moglie e la figlia nel sonno con una mannaia e poi aveva tentato di suicidarsi. Prima con la stessa arma con cui aveva massacrato i familiari, poi col gas. Ma non ci era riuscito. Allora era salito in soffitta e si era impiccato. A colpirlo mag­giormente, però, era stato un altro dettaglio: l’uomo teneva un diario. Un’autobiografia non della sua vita ma della sua malattia, aveva scritto il giornalista. Un registro metodico, quasi paranoico, del suo “star male”.

Aveva ritagliato l’articolo. Era la prima volta che lo faceva. Non era mai stato una persona morbosa e i casi di cronaca nera non gli erano mai interessati. Ma la vicenda di quell’uomo che prima di sterminare la famiglia aveva tenuto un diario lo aveva colpito. Si era chiesto che cosa. Che cosa avesse scritto. Che cosa potesse davvero scrivere una persona che da lì a poco avrebbe ucciso i suoi familiari, quale il tenore del suo star male, quali le parole. Qualche sera dopo, su internet, aveva provato a cercare altre notizie, altri dettagli, e anche una foto dell’uomo, ma non aveva trovato niente. La sua vita, il suo passato, erano un mi­stero. Tutto quello che sapeva era scritto in quell’articolo. Non c’era altro.

Poi la foto l’aveva trovata. Una foto di una banalità estrema, una fototessera presa probabilmente dalla carta d’identità. Anche la faccia dell’uomo era banale. L’aveva osservata attentamente. Cercava qualcosa che non esisteva. Quel volto avrebbe dovuto raccontare qualcosa e invece non diceva niente. Era un volto qualunque di una persona qualunque. Un uomo come ce n’erano tanti. Uno che potevi incontrare al supermercato, alle poste, al bar, seduto di fianco a te al cinema e nemmeno te ne saresti ac­corto. Una persona normale con una vita normale. Una persona come lui. Solo che un giorno qualcosa dentro la sua testa aveva smesso di funzionare e aveva fatto una strage.

Gli ha dato di volta il cervello, diceva di solito la gente. Ha perso la ragione. Come se la ragione la si potesse perdere così, aveva pensato, per sbadataggine, come si perde un mazzo di chiavi o la tessera del bancomat. Non ci credeva. Alla gente che andava fuori di testa così, di punto in bianco, non ci aveva mai creduto. Non era così che funzionava. Le cose non erano mai così semplici. La gente non impazziva da un giorno all’altro. La gente impazziva nel tempo, piano piano, in silenzio. Forse dovevi esser­ci predisposto, qualcosa di genetico, una specie di piccolo graffio da qualche parte, minimo e invisibile che col tempo si infettava, proprio come una ferita. Oppure era un difetto come su certe stoffe, una tessitura più debole che bastava tirare un po’ più forte perché i fili si allentassero fino a strapparsi. Forse era proprio così che accadeva. Lentamente. Come un fiore che sboccia. Prima l’imperfezione, poi lo strappo e infine la voragine che t’inghiotte e ti porta via.

Di quell’uomo aveva cercato di immaginarsi la sua vita. Il momento esatto in cui la trama della sua esistenza aveva comin­ciato a sfibrarsi e tutto, dentro la sua testa, aveva iniziato a de­ragliare. Una lunga sequenza di giorni senza peso, forse, un ac­cumulo vertiginoso di ore, giorni, mesi, anni, in cui tutto quello che accadeva intorno a un certo punto doveva essergli apparso inafferrabile e senza centro. Le cose di sempre che giravano a un ritmo insostenibile e non avevano più contorni. Deformate e irriconoscibili. Tutto stava lì davanti a lui ma niente era più come prima. Ed era stato allora che aveva avvertito come un’eco, una paurosa somiglianza. Come se quel filo invisibile che legava tutti gli esseri umani in un unico destino si fosse manifestato di colpo. Si era chiesto qual era la differenza e si era reso conto che non c’era.

Resta seduto sulla sedia con il fucile fra le braccia per un tempo incalcolabile. La luce nel frattempo è cambiata, la stanza è diventata più scura, il cielo fuori ha assunto sfumature viola. Tiene gli occhi fissi al pavimento e fa scivolare le dita sul corpo del fucile. Questo fucile ha sparato mille volte. Mille volte più una. Le dita scorrono, inciampano, ritrovano le impronte di suo padre. Serra le dita su quei solchi immaginari e chiude gli occhi, in attesa.

Se la traccia del nostro fallimento sono le persone che abbia­mo amato.

(continua in libreria…)

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