“Un po’ esercizio di stile, pastiche di generi e di media, dalla commedia all’azione, dal musical al tarantinesco, dal videogame all’ipod…”: su ilLibraio.it la recensione del film di Edgar Wright

Mettete una bella playlist in modalità shuffle, pompate adrenalina e violenza in stile Grand Theft Auto, incastrate il tutto in una geometria che pare fuoriuscita da Tetris o da Candy Crush Saga, shekerate il tutto con pochi e ben delineati cliché narrativi (il cattivo manovratore mandante, un branco variopinto di criminali spietati da fumetto, la pura cameriera che serve nel diner, il ragazzino asso del volante in cerca di elaborazione ed emancipazione) miscelate il tutto, a ritmo pop e postmoderno, con l’adagio della critica che, da John Woo in poi, vuole che nell’action movie inseguimenti e sparatorie siano mostrati come balletti. E avrete Baby Driver. Ascendenti cinematografici palesemente sono Driver l’imprendibile di Walter Hill (1978) e, se proprio vogliamo, Drive di Nicolas Winding Refn, ma il tutto è adattato e ridotto alla baby face di Ansel Eldort (il Baby del titolo), e a un certo sguardo adolescenziale dello spettatore, irrorato di ironia e gioco che gratificano anche il cinefilo più smaliziato, calato in un senso del tempo virtuoso, incalzante, ludico.

Baby Driver

Un po’ esercizio di stile, pastiche di generi e di media, dalla commedia all’azione, dal musical al tarantinesco, dal videogame all’ipod, la pellicola scritta e diretta da Edgar Wright, come già il percorso del giovane e precoce regista, è fatto di estetica del mélange e gusto per il divertissement. Modello insuperato (per la stratificazione culturale e filosofica dei loro giocattolini talvolta perfetti) i fratelli Coen, ma la schematicità di caratteri, funzioni e veicoli di una narratologia elementare, rendono il meccanismo molto stupefacente e piacevole, ma un po’ sterile e senz’anima.

Per cui si ha la sensazione di guardare nella sala buia un ottimo trailer, o un videogioco costruito con grande maestria, realizzati con una dose notevole di consapevolezza dei modelli e delle suggestioni, e la capacità di fondere il tutto in un universo coerente autosufficiente, e tuttavia molto superficiale, tanto che l’operazione, fatti i debiti aggiustamenti e aggiornamenti, sembra una riedizione di certo cinema degli anni Novanta arrivata fuori tempo massimo: un cinema citazionista e senza cuore che, come un ottimo spettacolo di fuochi d’artificio, si risolve nella sua stessa scoppiettante esibizione.

Certo, si potrebbe dire che il nucleo dell’arte, o almeno dell’intrattenimento, in fondo – con tutti i carichi interpretativi e affettivi che continuiamo a investire – non è che questa esplosione della forma, eppure in questa modalità espressiva, pur sapiente e scaltra, si vede troppa testa e poco cuore, troppa forma e poca carne, una messa in scena millimetricamente a ritmo di musica ma, come le cuffie indossate dal protagonista del film, più finalizzata a difendersi dal dolore e dall’impatto traumatico del mondo, che una forma di ascolto.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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