Dopo “Ogni giorno come fossi bambina”, Michela Tilli ci regala “Basta un attimo”, una storia di due donne, due madri, che si riscoprono più simili di quanto vorrebbero credere…

Milano, un freddo sabato di ottobre. Miriam ha intravisto una donna, al supermercato, ed è sicura sia la sua vecchia amica Elena. Sono passati più di quindici anni dal loro ultimo incontro, e Miriam si propone di ricucire un rapporto finito anni prima, per motivi rimasti taciuti per molto tempo. Ma adesso Elena ha deciso di tornare, di rientrare nella vita di Miriam e della sua famiglia. E Miriam fatica a riconoscere quella nuova persona che è diventata Elena.

Quando Miriam si accorge che la sua vecchia amica si sta avvicinando troppo a sua figlia Lucia, che ammalia la ragazza con la promessa di una libertà che sua madre non le ha mai dato, Miriam dovrà difendere la figlia con ogni mezzo, anche confessare quella colpa che si porta nel cuore da tanti anni.

È questa la trama di “Basta un attimo“, l’ultimo romanzo di Michela Tilli, giornalista e scrittrice savonese di nascita, che unisce l’amore di due madri e il dolore che solo chi ha figli può pensare di provare. Per ricordarci che si è pronti a tutto per non perdere ciò che rende significativa la nostra vita. Ha pubblicato Ogni giorno come fossi bambina (Garzanti), Tutti tranne Giulia (Fernandel) e La vita sospesa (Fernandel).

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Si appoggiò a un grosso platano che torreggiava in una delle piccole aiuole tra le macchine e chiuse gli occhi.

Conosceva quello stato, quel modo silenzioso che il suo corpo aveva di gridare. Sotto le dita la corteccia del platano era fresca e liscia. Si sfogliava al tocco, lasciandole piccole squame sulle mani, e nelle spaccature rivelava il legno tenero giallo e pulito. Le venne voglia di farsi tutt’uno con la pianta, sprofondare in un mondo senza coscienza, essere albero e nello stesso tempo terra e cielo attraverso le linee slanciate dei rami. Dalle foglie che resistevano all’autunno, ancora abbarbicate al legno, gocciolava la pioggia appena caduta. Si fece più vicina al tronco, vi appoggiò la guancia per entrare in contatto. Pensò a Elena, con il suo vestito azzurro, come fosse ora, nella casa di campagna, che stendeva la tovaglia bianca sul tavolo sotto al pergolato, le braccia alzate che davano il via all’onda della stoffa leggera, il vestito che ricadeva morbido sui fianchi, i capelli bagnati di sole, e il sorriso largo e luminoso, che la faceva sembrare così sicura di sé e nello stesso tempo così irresistibile. Vedeva anche sé stessa, olivastra e piccolina, quasi insignificante al cospetto dell’amica bella, che distribuiva i piatti e le posate e ridendo a una battuta si voltava a salutare gli uomini con la mano.

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Elio e Guido stavano in piedi vicino al forno di pietra che avevano costruito da soli, in fondo al giardino, a torso nudo, così diversi l’uno dall’altro, Elio biondo ed etereo, simile alla sua compagna al punto che spesso li scambiavano per fratelli, e Guido più basso e scuro, un accenno di pancia sopra la cintura. Rivedeva la scena come fosse accaduta mille volte, il suo ricordo ricostruito come un puzzle a partire da infinite tessere disperse e riflesse l’una nell’altra. C’erano le bambine a giocare in giardino, Matilde fiera del suo vestitino bianco, che non si sedeva nell’erba per non sporcarlo, Lucia dai primi passi goffi, sempre in terra, e loro, le madri, che chiacchieravano e si versavano ancora un bicchiere di vino. Risentiva la fastidiosa e melliflua insistenza infantile di Matilde. Matilde che voleva andare a raccogliere i fiori, Matilde che le aveva sempre tutte vinte, Matilde la principessina, Matilde che non c’era più. Un tuono la riportò accanto all’albero, il freddo pungente che le penetrava nelle ossa attraverso il maglioncino di lana, la pioggia che cominciava a cadere a grosse gocce isolate, poi sempre più vicine, e infine, mentre lei spaventata scappava di nuovo verso l’edificio della scuola, un muro d’acqua compatto si alzò tra il cielo grigio e i profili delle case oltre il cancello. Le auto che aveva visto scorrere sulla via nello scorcio di strada che si apriva dietro al parcheggio sparirono dietro una cortina grigia.

Rientrò e si sforzò di sorridere a una collega che la guardava stralunata. Il malessere era passato, disse, e le aveva lasciato una stanchezza profonda, come l’annunciarsi di una febbre. Parlarono qualche minuto del temporale, lo osservarono calmarsi e sgocciolare, poi Miriam si lasciò convincere ad andare a casa e a farsi sostituire per le ore successive.

Aveva bisogno di riacquistare lucidità e di pensare all’improvvisa ricomparsa di Elena nella sua vita senza farsi confondere. Elena non era stata un’allucinazione. Anche nei momenti peggiori, quando dopo l’incidente era stata davvero male, Miriam non aveva mai dubitato di poter riconoscere ciò che era reale da ciò che era solo frutto dei suoi nervi. Doveva mantenersi presente a sé stessa, non poteva ricadere nel baratro che l’aveva risucchiata tanto tempo prima.

Elena si era limitata a guardarla ed era sparita, e Miriam era certa che si sarebbe fatta viva di nuovo. Ora, mentre tremando apriva la portiera della macchina e si sedeva al posto di guida, lo sapeva con certezza. Ciò che si illudeva di essersi lasciata per sempre alle spalle stava tornando, come un’onda gigantesca dopo che il mare si è lentamente ritirato. Abbassò lo specchietto fino a far apparire il proprio volto. Aveva un aspetto spaventoso. I capelli corti e sfibrati si erano arricciati per l’umidità sulla fronte e sulle tempie. Non s’erano ancora ingrigiti, ma avevano sempre avuto un colore spento, simile alla pelliccia di un animale. Ci passò le dita in mezzo per tirarli indietro. Le sopracciglia troppo folte mettevano in risalto due rughe verticali, come virgolette, che si erano formate al di sopra del naso. Riportò lo specchietto in posizione e mise in moto.

Avrebbe dovuto lasciar fuori suo marito. Guido avrebbe ricominciato con gli interrogatori, sarebbero riemersi tutti i sospetti di una volta, il torbido avrebbe di nuovo insozzato le loro esistenze. «Si tratta solo di stabilire la verità», l’avrebbe di nuovo ammonita con il suo piglio autoritario. La verità! Come se fosse tanto facile stabilire la verità! Confrontando le testimonianze, ascoltando i pareri, ricostruendo i fatti secondo una ragionevole teoria, come diceva lui, l’avvocato. Ma cosa voleva saperne, lui, della sua verità? Di quella verità che forse solo Elena aveva intuito, quando si erano guardate negli occhi, l’ultima volta che si erano viste, entrambe travolte dalla morte della piccola Matilde e ormai irreparabilmente lontane? Era con lei che doveva parlare. Solo con lei. Guido doveva restarne fuori. I suoi figli dovevano restarne fuori: Lucia che non ricordava niente di quella tragica giornata, Andrea che ancora non era nato. Elena si sarebbe fatta viva di nuovo, di sicuro, e allora Miriam l’avrebbe affrontata. Avrebbe scoperto che cosa voleva davvero, e perché era tornata come un fantasma a riaprire le sue ferite.

 

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