“(…) Fu così che decisi di ignorare quella riga del mio passaporto in cui si dice nazionalità: britannica, e di ambientare le mie storie nel posto che più mi entusiasmava, l’America”. Il giovane scrittore Benjamin Wood, autore de “Il caso Bellwether”, racconta la sua passione per gli Usa e le suggestioni di quella terra che abita nelle sue storie. O forse non più…

Mi è stato a lungo impossibile scrivere dell’Inghilterra, il paese in cui sono nato e cresciuto. E non perché nutrissi verso quel luogo una particolare inimicizia, non sapessi evocarne la geografia o ritrarne la gente e le sfumature locali con la credibilità che ritenevo necessaria, ma solo perché non riuscivo a considerare il mio paese un’ambientazione abbastanza romantica per il genere di storie che volevo raccontare. Forse, se fossi cresciuto in mezzo all’energia e all’eccitazione di Londra, invece che in una sonnolenta località turistica della costa nordoccidentale, avrei visto le cose diversamente. Ma ogni volta che mi sedevo al computer per inventare un intreccio, la voce narrante e l’ambientazione erano invariabilmente americane.

Non mi ci è voluto molto per identificare la causa di fondo del problema. I miei gusti letterari erano troppo ristretti. La narrativa di cui mi ero nutrito era quasi interamente americana; gli scrittori che ammiravo erano americani; il luogo di cui scrivevano era, senza eccezione, l’America. Non rimpiango, né provo imbarazzo, per questa fortuita educazione yankee (anzi: tuttora la tengo in gran conto e la rispetto, come dimostrano gli elenchi bibliografici dei miei attuali corsi di narrativa). Non a caso fu il grande autore americano Saul Bellow a dire: “Gli scrittori sono lettori spinti dall’emulazione“. E questo, nel mio caso, è assolutamente vero. I romanzi americani che divoravo da adolescente hanno avuto la conseguenza di instillare in me il desiderio di ideare a mia volta personaggi e drammi; per un autore alle prime armi, solo davanti al suo portatile nella sperduta Inghilterra del nord, rinunciare a quelle opere era difficile quanto emularle.

La città in cui vivevo mi sembrava del tutto priva di grinta e dignità. Dove l’America aveva aree di sosta per i camionisti, campi da baseball e diner al margine della strada, l’Inghilterra del nord aveva botteghe di fish and chips, fattorie dove raccogliere le fragole a peso, stazioni di servizio in autostrada. Poiché aspiravo alla sobrietà e alla profondità, mi era arduo collocare i personaggi nei dintorni che ben conoscevo senza che la scena mi apparisse intrinsecamente comica: i miei primi sforzi sembrano film della serie “Carry On”, ma con la regia di Andrei Tarkovsky.

Mi pareva ingiusto che trovassi elettrizzante la maniera di esprimersi di un investigatore privato a Chicago, con le sue battute pungenti, e mi venisse un attacco di bile se lo stesso personaggio provava a parlare nello stesso modo a Liverpool. Gli epiteti dell’inglese americano – “man”, “guy”, “buddy” fra i più utili – sembravano consentire una fluidità e una varietà nei dialoghi che l’inglese britannico intralciava: e particolarmente risibili, visti nero su bianco, erano “bloke”, “mate”, “chap” e “feller”. Il fatto di poter raggiungere John O’Groats da Land’s End in una quindicina d’ore di automobile era un fastidio che soffocava in me qualunque velleità di scrivere il Grande Romanzo di Viaggio Britannico. Era questo il dilemma che dovevo affrontare ogni volta che tentavo di buttare giù qualcosa. Quanto più provavo il bisogno di scrivere narrativa, tanto più mi sentivo ostacolato dai limiti del mondo che meglio comprendevo.

Fu così che decisi di ignorare quella riga del mio passaporto in cui si dice nazionalità: britannica, e di ambientare le mie storie nel posto che più mi entusiasmava. Ogni parola che scrivevo assumeva un generico accento americano. Tutte le stanze in cui entravano i miei personaggi recavano la luce polverosa dei noir americani. Tutti fumavano Camel e Lucky. Guidavano pick-up, e le loro case avevano verande e porte a zanzariera. Alcuni abitavano in malconci appartamenti in palazzine a canone controllato o in cinema abbandonati. Mangiavano al banco nei diner, nei séparé in pelle di bar poco illuminati. Si parlavano dal capo all’altro del cofano di una Pontiac nel parcheggio di un rivenditore d’auto usate. Andavano in giro armati. A volte indossavano persino stivali da cowboy.

Non potevo evitare che fosse questo il mondo che mi ispirava a scrivere, perciò mi disinteressavo della realtà che stava fuori dalla mia finestra e mi esprimevo senza vergogna o timore di esami minuziosi. Ciò che più mi stava a cuore era l’atto di scrivere. A quello stadio non occorreva che i miei protagonisti fossero autentici (e non lo erano: né un lettore britannico né un lettore americano li avrebbe trovati plausibili). Contava soltanto che esistessero. Fu questo istinto – di scrivere andando contro le mie stesse esperienze – ad aiutarmi a migliorare il mio modo di scrivere e ad aprirlo ad altri temi, altre ambientazioni, altre voci. Se non lo avessi seguito, non avrei mai potuto trovare la concentrazione che è necessaria per evocare personaggi e situazioni di pura fantasia. E non avrei mai acquisito la prospettiva e l’obiettività che occorrono per scrivere del mio paese.

Alcuni anni fa, quando il New York Times diede il triste annuncio della scomparsa di Barry Unsworth, lo scrittore inglese, a colpirmi dell’articolo fu soprattutto un passaggio: “Un sipario di verde di Eudora Welty ha avuto su di me un effetto immenso… eppure i miei primi tentativi di trapiantare le storie del ‘profondo Sud’ nel provincialismo dell’Inghilterra settentrionale non ebbero successo”. Queste parole ebbero un forte impatto su di me. Fu toccante scoprire che anche Unsworth, uno dei migliori scrittori britannici, si era inizialmente ispirato alla narrativa americana, e che anche lui aveva faticato ad ambientare i suoi personaggi nel mondo che meglio comprendeva.

Evidentemente Unsworth trovò il modo di aggirare l’ostacolo. I suoi primi due romanzi si svolgono nell’Inghilterra dei nostri tempi, ma forse è il caso di sottolineare che, quando li scrisse, l’autore viveva in Grecia e in Turchia, quasi avesse bisogno di allontanarsi dal suo ambiente naturale per scriverne in modo appropriato. Col passare degli anni, come osserva l’articolo commemorativo, Unsworth “precipitò nel passato” e diede ai suoi romanzi più apprezzati un’ambientazione storica: Sacred Hunger si svolge nella Liverpool del XVIII secolo, mentre Lo spettacolo della vita racconta di una troupe di attori nello Yorkshire del Trecento. Si direbbe che la soluzione di Unsworth al “provincialismo dell’Inghilterra settentrionale” fosse di ricercare nella storia del paese la drammaticità e il sentimento che aveva scoperto nella scrittura di Eudora Welty. In quel modo aveva trovato un modo spontaneo di commentare il mondo dei nostri giorni tramite le analogie che lo legavano al passato. La critica lodò i paralleli fra le navi schiaviste di Sacred Hunger con la Gran Bretagna della Thatcher negli anni ’80. Unsworth dimostrava che gli scrittori più grandi raccontano le storie che li appassionano, benché questo richieda, certe volte, di inoltrarsi in un mondo che va oltre la loro esperienza.

Non sono certo che la mia narrativa abbia completamente perso il suo accento americano, né sono certo di desiderarlo. Il mio primo romanzo, The Bellwether Revivals, recentemente pubblicato in italiano col titolo Il caso Bellwether, è ambientato a Cambridge, la quintessenza delle città inglesi. E tuttavia coinvolge due personaggi americani, almeno uno dei quali – Herbert Crest – ha un’importanza decisiva nel racconto. Ci sono parti che alludono a fatti avvenuti a Boston, Tampa e San Francisco, e un peso importante hanno gli articoli romanzati del New York Times. In effetti, sullo sfondo di tutto il romanzo fanno capolino le silhouette delle mie ispirazioni americane. Ancora non posso fare a meno di esprimermi in quel familiare accento. E non escludo che sarà sempre così.

*autore de Il caso Bellwether (Ponte alle Grazie). Il protagonista del romanzo, il giovane Oscar si incammina verso casa al termine di una giornata come tante. Passando accanto alla cappella del King’s College, viene attratto dal suono dell’organo e decide di entrare. Mentre si abbandona all’ascolto, incrocia lo sguardo di Iris Bellwether, studentessa di Medicina, violoncellista ed esuberante figlia della ricca borghesia di Cambridge. Oscar si innamora di lei all’istante e, poco a poco, viene accolto dalla sua cerchia di amici, un piccolo gruppo esclusivo che ha origini ben diverse dalla sua. Tra loro c’è anche Eden, il fratello di Iris, un personaggio misterioso, dal fascino ambiguo, convinto di poter curare le malattie attraverso la musica e l’ipnosi…

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