Abbiamo visto “Bestie di scena”, il nuovo spettacolo di Emma Dante, fino al 19 marzo al Piccolo Teatro Strehler di Milano

L’atto-RE è nudo. Lo spazio (o)scenico è ada-mitico. Le bestie che si agitano sulla scena spoglia del de(re)litto (nera gessata di sbarre, come una pista d’atletica o l’uniforme del gangster) non si ri-velano animali da palcoscenico, istrionici esibizionisti scostumati.

Al contrario i corpi ginnici, prenatatori, militareschi che troviamo immersi a esercitarsi in gruppo (a schiere dantesche, di Emma) sul palco mentre prendiamo posto in platea somigliano piuttosto a un corpo di ballo post-bauschiano (ma di Pina hanno forse i colori, non certo il pathos né la poesia) che, dismessi l’abito, la trama e il sentimento, si ritrovano nudi e crudi, naufraghi, sulle tavole del palco, per offrirsi, con qualche ricercata e buffa reticenza, all’esercizio di uno sguardo più entomologico che empatico, più ludico che lurido (quasi niente del discorso lubrico o dell’esposizione al pubblico ludibrio).

E se inizialmente sentiamo il sudore, intuiamo la fatica, ci specchiamo inevitabilmente nell’imbarazzo, molto presto l’abit-udine riveste velocemente il tutto, e la forza della carne viva (di ribaltamento carne-valesco en déshabillé) lascia il posto a povere figure spoglie, come se una vocazione tragicomica da lemmings (i roditori che si suiciderebbero in massa protagonisti dell’omonimo videogioco) o un destino grottesco da tamagotchi (le creaturine di sola vita digitale), una dimensione virtuale e virale (ma non contagiosa), prevalessero sulla potenza dissidente, generatrice e identitaria del corpo, non a caso tacitata nelle sue espressioni/declinazioni più perturbanti e intimamente rivoluzionarie (il corpo erotico e sessuale, il corpo eccitato, l’andare di corpo, il diavolo in corpo, il corpo a corpo, il corpo ferito e malato, e infine il corpse, il corpo morto, la salma). Tutto invece rimane come accennato, mimato, re-citato (dal cibo alla lotta, dalla danza al pericolo), innescato dai trigger pirotecnici (a tratti letteralmente) di un demiurgico dispettoso e sperimentale, eppure mai veramente sadico o amorevole, che getta attrezzi di scena – spesso per tramite di corde e catene – a questi quattordici corpi in gabbia, personaggi in cerca di att(ivat)ore, per vedere, sembra quasi soltanto, l’effetto che fa.

In questa oscura casa di bambole, trionfo del ballo e della bêtise, il gioco per adulti del teatro rischia in diversi tratti di rasentare l’esercizio circense e di stile, per quanto fine, fine a se stesso, e quand’anche vivace, un tantino sterile.

Da queste “ronde silenziose” (dalle note di scena di Emma Dante, dove si legge quello che lo spettacolo vi darà solo in piccola parte) di svergognati, in questa breve (meno dei 75 minuti previsti da programma) e caotica odissea nello vuoto dello spazio scenico, scopriamo al fondo la fiera unicità (only you) della scimmia nuda che (tra)balla, schierata frontalmente e, infine spudoratamente, sul proscenio. Per questo ribalta(mem)ento forse potevamo contentarci di Gabbani, senz’altro ci sentiamo un filo gabbati. Abist iniuria verbis, ma questo giro-girotondo del corpo attoriale forse attira, per compensazione, il gioco delle parole, la presa in giro(ne) del corpus autoriale. È dunque l’auto-RE a essere (o non essere) nudo?

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