Edward Wilson-Lee racconta Fernando Colombo, figlio dell’esploratore Cristoforo Colombo, viaggiatore umanista ossessionato dal principio di catalogazione di ogni libro che sia mai stato stampato, e del suo sogno di una biblioteca universale in grado di contenere tutto il sapere umano – Su ilLibraio.it un capitolo

Fernando Colombo è il figlio di Cristoforo Colombo. Come il padre era un esploratore del mondo, così lui lo è di tutto quello che riguarda i libri stampati, risultato di un’invenzione che lo affascina e che rivoluzionò il mondo, proprio come le scoperte geografiche paterne.

Fernando è un lettore onnivoro e vorace, classificatore di ogni libro che sia mai stato stampato, raccoglitore di ogni foglio mai prodotto da un torchio. Viaggiatore umanista ossessionato dal principio di catalogazione, alla ricerca costante delle migliori e ultime novità: i libri più belli, curati al meglio, stampati coi caratteri più chiari e puliti, sulla carta più durevole, e nella confezione più raffinata.

Edward Wilson-Lee, esperto di Shakespeare e insegnante al Sidney Sussex College, nel suo libro Il catalogo dei libri naufragati, il primo tradotto in italiano (Bollati Boringhieri, con la traduzione di Susanna Bourlot), racconta un Fernando compilatore di liste, inventore della prima biblioteca universale, in grado, nelle sue intenzioni, di contenere tutto il sapere umano, concepita come una macchina viva, che respira, si ammala, perde i pezzi, guarisce e sopravvive.

Racconta Fernando Colombo e la sua biblioteca, monumento del Rinascimento europeo; Fernando e i suoi libri che sono andati perduti, trafugati, bruciati, che sono persino naufragati, eppure hanno resistito e sono sopravvissuti fino a oggi.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Dopo essere partito da Worms, Fernando seguì le principali arterie del commercio librario rinascimentale: risalì il Reno passando per le città di Spira, Strasburgo e Sélestat fino a Basilea, un’altra città-Stato la cui posizione strategica – incuneata tra la Svizzera, la Francia e la Germania ma relativamente indipendente dai tre paesi – garantiva un’influenza smisurata nel commercio, confermata dalla velocità inaudita con cui i libri di Erasmo che venivano stampati lì si diffondevano per l’Europa. Da Basilea, sembra che Fernando non abbia preso la via più semplice, che andava a est verso Innsbruck e poi a sud verso il Veneto, optando invece per il passo del Sempione sulle Alpi bernesi e scavallando in Lombardia, facendo dunque il percorso inverso rispetto ai bibliofili italiani che setacciavano le biblioteche dei monasteri della Svizzera e della Germania meridionale alla ricerca di manoscritti di testi classici. Secondo quanto avrebbe scritto anni dopo, Fernando compì la maggior parte dei suoi viaggi a cavallo, e negli anni passati in sella si abituò sia alle scomodità dei lunghi tragitti che alle miserande taverne dell’Europa centrale, a cui Erasmo dedicò una satira feroce, definendole terribilmente soffocanti e invase dal fango degli stivali dei mercanti di passaggio. In Lombardia, Fernando fece tappa a Milano, Pavia e Cremona, poi andò a Genova, fermandosi solo brevemente in ognuno di questi posti prima di raggiungere la sua destinazione finale, Venezia. Proprio quando arrivò Fernando, nella città lagunare giunse anche la voce che l’appello di Lutero a Carlo era stato respinto e che l’eretico era ormai ricercato oltre che scomunicato, e che era stato rapito, forse assassinato, dopo aver lasciato Worms. Forse Fernando avrà sentito dire che Carlo aveva finalmente reagito con la gravità richiesta dalla situazione e scartato con disprezzo l’idea che «un solo monaco, fidandosi del suo personale giudizio, si sia opposto alla fede che appartiene ai tutti i cristiani da più di mille anni», giurando «di difendere questa causa santa con tutte le mie terre, i miei amici, il mio corpo e il mio sangue, la mia vita e la mia anima». Malgrado la messa al bando di Lutero, Fernando continuò a comprare molti testi luterani e antiluterani a Venezia, dove la loro massiccia presenza tradiva il pericoloso connubio di stampa e protesta in quella città; ma nella patria spirituale del libro stampato, la mente di Fernando stava iniziando a passare dai singoli volumi all’idea di un universo dei libri.

Fernando arrivò a Venezia giusto in tempo per la Sensa, la tradizionale festa veneziana per l’Ascensione in cui il doge, seduto a bordo del Bucintoro con un funzionario che gli portava la spada, «sposava» la città di san Marco con la laguna, ribadendo con questo rito il dominio della Repubblica sul mare Adriatico. Quell’anno la cerimonia sarà forse sembrata un po’ arrogante, dato che a lanciare il tradizionale anello nuziale in acqua fu un ottuagenario sempre più fragile e malato, il doge Leonardo Loredan. Sotto la sua guida la Repubblica di Venezia aveva subito diverse batoste militari, in particolare contro i francesi nella battaglia di Agnadello del 1509, quando i veneziani persero tutte le terre che avevano sottratto a Roma alcuni anni prima e Loredan si era dimostrato agli occhi di molti un codardo rifiutando di andare al fronte. Fernando aveva seguito gran parte di questa faida dal punto di vista di Roma e dei suoi due papi guerrieri (Giulio e Leone), che erano determinati a contrastare l’influenza della Serenissima. Le manovre diplomatiche e militari contro Venezia erano invece considerate dalla città la prova del tradimento anticristiano dei papi: quelle guerre peninsulari distraevano Venezia dal suo compito più importante, ovvero fermare l’avanzata dell’impero ottomano a ovest nel Mediterraneo. L’opuscolo che Fernando aveva letto mentre si preparava ad accompagnare Carlo a nord, secondo cui gli ottomani stavano volgendo la loro attenzione a est, verso la Persia, era dunque una falsa speranza. Alcuni giorni dopo l’arrivo di Fernando a Venezia, un’ambasciata a lungo rimandata venne inviata alla corte ottomana con le congratulazioni ufficiali al nuovo sultano, Solimano (non ancora «il Magnifico»), che era succeduto a Selīm I alla sua morte l’anno precedente. Secondo la relazione dell’ambasciatore incaricato della missione diplomatica, Solimano, un giovane sui venticinque anni dall’incarnato pallido e i capelli scuri, la cui aria misteriosa era accresciuta dal turbante che portava basso sulla fronte, era più bellicoso del padre e un nemico peggiore per i cristiani e gli ebrei chevivevano sotto di lui; ma l’ambasciatore stava solo riferendo ciò che, a quel punto, tutti sapevano già. Belgrado era stata conquistata da Solimano quattro mesi dopo l’arrivo di Fernando, dando all’Impero Ottomano un accesso all’Alto Danubio e minacciando i territori veneziani in Dalmazia. Era l’ennesima disgrazia per la Serenissima, il cui predominio mercantile aveva affrontato diversi problemi nei decenni precedenti, dalla rotta marittima portoghese a est all’espansione genovese a ovest.

Il catalogo dei libri naufragati Edward Wilson Lee

Quando era caduta Belgrado, ad agosto, il doge Loredan era ormai morto e Fernando assistette forse a uno dei processi più bizantini e straordinariamente politici di tutta Europa. La notizia della morte di Loredan era già trapelata in città prima che venisse annunciata pubblicamente il 22 giugno, anche se la segretezza veniva difesa non con intenti cospiratori, ma per dar tempo alla famiglia di lasciare il Palazzo Ducale, così che i funerali di stato potessero mantenere una giusta distanza tra il doge quale personalità politica e l’uomo in carne e ossa, con i suoi rapporti famigliari e beni personali. Separare il doge dalla famiglia era importante perché, a differenza di quasi qualunque altro paese europeo, a Venezia la carica del governante era elettiva e non ereditaria e la Serenissima aveva escogitato una macchina tremendamente complessa per salvaguardare questo sistema, impedendo a una certa famiglia o fazione di trasformare la repubblica in una specie di monarchia. La salma del doge venne esposta nella camera ardente allestita nella Sala del Piovego per tre giorni, in quanto padre della repubblica piuttosto che patriarca della famiglia Loredan, poi la putrefazione accelerata dal cima caldo e la paurosa deformazione del volto imposero di traslare il corpo alla basilica dei santi Giovanni e Paolo (o di San Zanipolo nel tipico dialetto veneziano).

Dopodiché poteva avere inizio l’elezione del nuovo doge – anche se forse «selezione» sarebbe un termine più appropriato per la lunga serie di lotterie e votazioni messe in atto per salvaguardare il processo da eventuali irregolarità. Venezia era una repubblica, eppure il suo processo elettorale era tutt’altro che democratico: potevano partecipare solo i membri del Maggior Consiglio, composto dai circa 2500 rappresentanti maschili delle antiche famiglie veneziane elencati nel cosiddetto Libro d’Oro. Da questo elenco venivano estratti a sorte trenta nomi, che non potevano essere imparentati tra loro, e poi questi trenta venivano ridotti per sorteggio a un Comitato di Nove; i Nove ne eleggevano altri quaranta, che venivano ridotti per estrazione a un Comitato di Dodici, che a loro volta potevano eleggerne altri venticinque; questi venticinque venivano ridotti per estrazione a nove, che ne eleggevano quarantacinque, ridotti per sorteggio a un Comitato di Undici. Gli Undici ne sceglievano quarantuno, che non dovevano essere stati in nessuno dei precedenti Comitati (i Nove, i Dodici e gli Undici) e che, finalmente, eleggevano il doge. A ognuna di queste fasi ciascuno dei candidati doveva passare con una forte maggioranza di voti. Il meccanismo rendeva il sistema pressoché a prova di manipolazione, per via dei sorteggi e delle regole volte a impedire a chiunque di partecipare a più fasi del processo, e anche perché era così complesso che sarebbe stato difficile sapere da dove cominciare. Nonostante ciò, durante l’elezione a cui assistette Fernando nel 1521 venne presentata la mozione per raddoppiare il numero di passaggi elettorali, tanto per stare tranquilli.

Era questo il modo che Venezia, la repubblica mercantile per eccellenza, aveva sviluppato per vaccinarsi contro la monopolizzazione del potere.

(continua in libreria…)

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