Se fatta con cautela, la storia analizzata dal punto di vista di chi ha perso può essere molto utile: è ciò che ha fatto Catherine Nixey nel suo “Nel nome della croce”, non senza suscitare polemiche. Nell’epoca del “trionfo del cristianesimo” (il IV secolo d.C.), l’autrice decide infatti di dare la parola ai “pagani”, all’ultima generazione di uomini eruditi del mondo antico

La storia la scrivono i vincitori. Per questo, talvolta, gli storici la rovesciano e provano a vedere che aspetto poteva avere un certo avvenimento visto dall’altra parte, dalla parte di chi ha perso. È comunque un’operazione delicata, perché si rischia di esagerare in senso opposto, e soprattutto si rischia di far dire ai perdenti quello che noi vorremmo sentire oggi, non allora, in base a interpretazioni anacronistiche che sarebbero state del tutto estranee alla cultura e alla società dell’epoca presa in considerazione.

Tuttavia, se fatta con cautela, la storia analizzata dal punto di vista di chi ha perso può essere molto utile, sia perché illumina con un’angolatura insolita avvenimenti che nell’immaginario collettivo si sono cristallizzati e sono divenuti immutabili, sia perché ci dice come noi, noi vincitori, abbiamo deciso di raccontare un determinato episodio del nostro passato. Ci mette in discussione.

La scenografia teatrale, così realistica la sera della prima, così sapientemente illuminata dalle luci di scena studiate a uso e consumo del pubblico in sala, rivela inevitabilmente le impalcature posticce di cartone di cui è fatta se viene illuminata dalle luci di servizio dietro le quinte, quelle che si usano durante le prove.

Dunque si può, anzi è salutare, analizzare un accadimento storico dall’«altro» punto di vista, da quello dei vinti, ed è ciò che ha fatto Catherine Nixey nel suo Nel nome della croce, non senza suscitare polemiche, ma anche ammirazione.

Siamo nel IV secolo d.C., il secolo del «trionfo del cristianesimo». Siamo nel periodo dei molti martiri, dei cristiani perseguitati, sbranati dalle belve nel Colosseo o costretti a nascondersi nelle catacombe, allontanati dalle città e spinti verso il deserto, unico luogo nel quale gli uomini pii possono vivere la vita di ascesi e povertà alla quale ambiscono. La decadenza dell’Impero romano è tutt’intorno a loro, nell’ostentazione del lusso, nelle orge e nella dissolutezza dei costumi, mentre i cristiani rinnovano l’umanità con il loro messaggio.

Cioè, sono i cristiani a parlare in questi termini. E siccome sono loro quelli che alla fine vincono, questa è la versione della storia che si è affermata nei secoli, fino a noi.

Nixey decide di dare la parola ai perdenti, ai «pagani», all’ultima generazione di uomini eruditi del mondo antico. Morti loro, non resterà che il Dio cristiano. Loro se ne rendono tragicamente conto e disapprovano impotenti. Minacciati da un cristianesimo sempre più vicino al potere imperiale, per lo più tacciono, o vengono fatti tacere. L’estinzione della cultura antica è radicale: in breve non sopravvive più nessuno per fare offerte di primizie a Giove o ad Atena. Nessuno, nel giro di un paio di generazioni. Il cristianesimo ottiene una vittoria eclatante, assoluta e definitiva, e naturalmente scrive la propria storia a futura memoria.

Eppure non c’è dubbio che bisognerà aspettare le cattedrali gotiche di dieci secoli dopo prima di vedere costruzioni paragonabili per bellezza ai templi pagani dell’Antichità. E se Archimede era arrivato a un soffio dal calcolo differenziale, bisognerà aspettare Newton per tornare a un livello paragonabile di conoscenze matematiche: quindici secoli buttati via. Si dovrà aspettare il Rinascimento per tornare a vedere statue perfette come quelle – divelte dai cristiani – della scuola greca. Solo nel XVIII secolo si (ri)tornerà a pensare all’uso cinetico dei gas, già noto ai filosofi mediterranei.

Possibile che il cristianesimo sia il solo responsabile di questa immane regressione culturale dell’umanità? Forse no, come sempre le cose sono complesse e bisogna guardarsi dall’esagerare, ma con questo libro le luci dietro alle quinte tornano ad accendersi, almeno un po’, illuminando puntelli, travi e corde che tengono in piedi una scena che ora appare meno brillante di prima, più problematica, più inquieta e, perciò, più reale.

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