Chiara Barzini, scrittrice e sceneggiatrice, con “Terremoto” racconta un’esperienza che ha vissuto lei stessa: l’adolescenza di un’italiana a Los Angeles. E lo fa con crudezza disarmante, terremoto dopo terremoto, in una storia di sradicamento, che è il “pretesto ideale per confrontarsi con la crescita”. E confessa che ora, da madre, non porterebbe la sua famiglia a vivere nell’America governata Trump. Inoltre racconta il suo rapporto di amore e odio per la metropoli californiana, una città “inospitale, quasi aliena”, che ha ricostruito nel suo romanzo (pubblicato prima negli Usa e poi in Italia) attraverso la memoria, ma anche grazie a “un filone della letteratura” che parte da Joan Didion…

Los Angeles: la città di Hollywood e dei suoi divi, nonché patria, assieme a New York, del sogno americano. Ma anche un luogo in cui è impossibile muoversi se non al volante di un’auto, in cui per entrare a scuola bisogna passare sotto il metal detector e dove certi colori sono proibiti, se non ci si vuole immischiare in una battaglia tra gang.

Chiara Barzini

Los Angeles è anche la città in cui la sceneggiatrice e scrittrice Chiara Barzini si è trasferita da adolescente, negli anni Novanta, a seguito del padre regista. Un trasferimento “coatto” come quello di Eugenia, la quindicenne protagonista di Terremoto (Mondadori, traduzione di Chiara Barzini e Francesco Pacifico), il romanzo che Barzini ha pubblicato negli Usa ad agosto e che è stato poi pubblicato in Italia.

Il terremoto del titolo è uno, ma andrebbe letto al plurale: c’è il sisma reale, storico, che ha fatto tremare Los Angeles nel 1994. Ma anche lo scuotimento nell’adolescenza di Eugenia, il trasferimento da Roma agli Stati Uniti al seguito di una coppia di genitori freak, la perdita della verginità avvenuta con un pellerossa che fuma marjuana con “una spolverata di peyote”. E poi la morte di un “amico con benefici” per mano di una gang, l’infatuazione per una compagna di scuola…

Van Nuys, Los Angeles, California

I terremoti raccontati nel romanzo si succedono uno dopo l’altro, si accavallano pure, in trecento pagine ambientate tra le strade di Van Nuys – il quartiere popolare, o meglio ghetto, in cui si trasferisce la famiglia di Eugenia -, Roma, le Eolie, un cimitero indiano nel Sud Dakota. E raccontano un’adolescenza americana molto meno glamour di quella dei fratelli Walsh di Beverly Hills 90210, i teenager più famosi dei primi anni Novanta.

Quel che si perde in charme però lo si guadagna in grunge, che proprio nei primi anni Novanta da Seattle scende giù per la West Coast fino a Los Angeles, precisamente ai Sound City Studios di Van Nuys, dove i Nirvana hanno registrato Nevermind. E così Eugenia, con la sua curiosità per i props scenici di vecchi film, il nichilismo atteggiato e la sofferenza nascosta sotto una metaforica “tuta di gomma” che indossa durante le sue spasmodiche sperimentazioni sessuali si inserisce in una corrente che fa spazio a chi, come lei, fa del proprio disagio un punto di forza.

I Sound City Studios a Van Nuys

Chiara Barzini, come ha deciso di raccontare una storia di formazione che prende il via da un drammatico sradicamento?
“Lo sradicamento è il pretesto ideale per confrontarsi con la crescita e portare a galla le sfide legate all’identità”.

Lei stessa ha vissuto uno sradicamento: come definirebbe il suo rapporto con Los Angeles, la città in cui si è trasferita la sua famiglia?
“Da adolescente era una relazione conflittuale: per me che arrivavo da Roma e da un contesto europeo era una città poco accogliente, addirittura alienante. Siccome è un luogo in cui ci si sposta in auto, fino a sedici anni è praticamente impossibile uscire senza dover chiedere un passaggio ai genitori. Alla sera non ci sono luoghi in cui andare, visto che i locali sono vietati ai minori di ventuno anni. A Los Angeles, da adolescente, mi mancava una vita sociale. Oggi il mio rapporto con la città è di amore e odio”.

Da madre ripeterebbe la scelta che vent’anni fa hanno fatto i suoi genitori: trasferirebbe la sua famiglia negli Usa?
“No, non in questa America governata da Trump”.

Terremoto è stato scritto in inglese ed è stato pubblicato prima negli Stati Uniti: come è stato accolto oltreoceano?
“Spesso i critici hanno sottolineato come uno sguardo esterno riesca a cogliere sfumature che sfuggono a chi appartiene a quel mondo. In qualche modo è stato curioso, perché è quello che si è detto negli anni Sessanta per The Italians, scritto da mio nonno Luigi Barzini per raccontare la cultura italiana agli americani”.

Ultimamente si parla dell’influenza del cinema e delle serie tv sui romanzi: visto che è anche sceneggiatrice, quale peso hanno avuto le opere audiovisive sul suo libro?
“Il cinema su di me ha avuto una grandissima influenza, soprattutto nella creazione della mia coscienza artistica: sono cresciuta guardando film con mio padre regista. Per questo sono molto legata alla narrazione cinematografica. Tuttavia, nel caso specifico di Terremoto, mi è stata di grande aiuto la letteratura. Ho scritto il romanzo nello stesso periodo in cui sono diventata madre: i libri sulla città mi hanno dato accesso a Los Angeles, nonostante non potessi andarci fisicamente”.

Quali sono questi libri che l’hanno riportata a Los Angeles senza lasciare fisicamente l’Italia?
“Si tratta di un filone della letteratura che racconta la città e più in generale la California: opere di Joan Didion, Aldous Huxley, Nathanael West…”

 

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