Antropologa americana e docente alla Pennsylvania State University, Nina Jablonski è l’autrice di “Colore Vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle”, un saggio che ripercorre la storia dell’evoluzione umana e come questa ha influito sulla pigmentazione e la colorazione della pelle, tracciando le conseguenze biologiche, sulla salute umana, e sociali, sui pregiudizi e il razzismo… – Su ilLibraio.it un estratto dal volume

“Ogni essere umano rappresenta un campionario vivente di soluzioni di compromesso trovate dall’evoluzione nella storia della nostra specie. La pelle è la nostra più estesa interfaccia con il mondo, e la sua struttura e il suo colore illustrano meravigliosamente il modo di risolvere i problemi tipico dell’evoluzione biologica”, scrive Nina Jablonski (1953), antropologa americana specializzata nello studio del colore della pelle, nell’Introduzione al suo saggio Colore Vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle (Bollati Boringhieri, traduzione di Alberto Agliotti).

Nina Jablonski Colore Vivo

La studiosa, docente alla Pennsylvania State University e impegnata nella sensibilizzazione sull’evoluzione, la diversità e il razzismo, è autrice di diversi libri dedicati al colore della pelle e alle sue conseguenze tanto biologiche quanto sociali. Colore vivo, il suo primo saggio tradotto in italiano, studia l’evoluzione la pigmentazione della pelle attraverso la storia, dalla preistoria a oggi, seguendo le migrazioni e i conseguenti adattamenti dei popoli all’esposizione al sole in diverse latitudini e il modo in cui la pelle umana si è modificata per meglio adattarsi ai raggi cui veniva esposta.

Nina Jablonski Colore vivo

Jablonski, autrice anche di Skin: a Natural History, articola il saggio in due parti principali, intitolate Biologia e Società, la prima dedicata all’indagine del rapporto tra la pigmentazione della pelle e la salute dell’essere umano, la seconda al modo in cui il colore della pelle ha condizionato la società e i comportamenti tra diverse popolazioni. Sul piano biologico, la pigmentazione e quindi il colore della pelle si è evoluto nel corso dei secoli a seconda della necessità, modificandosi secondo l’esposizione solare, processo che ha importanti conseguenze sulla salute umana: dai raggi del sole dipendono diverse malattie della pelle e l’assorbimento della vitamina D, reso possibile dall’esposizione ai raggi solari. Dal punto di vista sociale, il colore della pelle è stato spesso usato nel corso della storia per costruire pregiudizi e discriminazioni privi di qualsiasi validità o fondamento scientifico, andando a generare diverse forme di razzismo tutt’oggi presenti nella gran parte delle società del mondo.

In Colore Vivo, Jablonski ripercorre storicamente le migrazioni dei popoli e le conseguenze che queste hanno avuto sul colore della pelle, andando a dimostrare l’insensatezza dei pregiudizi razziali attraverso un linguaggio divulgativo che rende il testo accessibile ai non addetti ai lavori, dimostrando che “l’interfaccia del corpo con l’ambiente fisico, chimico e biologico” non è altro che il risultato di un’evoluzione millenaria, il cui significato sociale è una costruzione umana, priva di fondamento.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto dal saggio: 

Attribuire significato al colore della pelle

I bambini iniziano a dare un significato al colore della pelle a circa tre anni. Ma non sviluppano idee razziali basate su ciò che vedono. Riconoscono il colore della pelle, ma l’impressione da sola non diventa parte dell’etichetta di un gruppo finché non percepiscono quanto il gruppo sia diverso sulla base di informazioni verbali. Il messaggio verbale è molto efficace nell’instillare pregiudizi contro un membro di un altro gruppo, anche in assenza di esperienza visiva, specialmente quando l’informazione arriva da qualcuno di rispettato, come un genitore, un insegnante o un anziano. Il sapere si acquisisce dagli altri soprattutto attraverso i discorsi, specialmente quando riguarda idee astratte su identità e valori di gruppo.

All’età di sei anni, i bambini sembrano avere sviluppato atteggiamenti percettibili e intrinseci ai gruppi sociali. Lo sviluppo di quello che viene chiamato «pensiero categoriale» legato alle razze nei bambini è importante perché il costrutto mentale del concetto di razza guida l’elaborazione di informazioni rilevanti sulle persone che incontreranno in futuro e influenza profondamente la natura dei loro ricordi e delle loro aspettative. Quando gli adulti vedono fotografie o raffigurazioni storiche di persone di altre razze, consultano la loro biblioteca mentale di riferimento sulle categorie razziali per giudicare la persona rappresentata, anche se non la conoscono personalmente. Spesso, se sanno poco di un gruppo esterno, faticano a distinguere gli individui che ne fanno parte. Questo problema è noto come «difetto di riconoscimento cross-razziale», a volte parafrasato come: «Sembrano tutti uguali». Allo stesso modo, quando creiamo raffigurazioni – caricature, disegni o sculture – di persone appartenenti ad altre etnie, assegniamo a queste raffigurazioni connotati su natura e personalità degli individui rappresentati basati sulla conoscenza sociale delle caratteristiche razziali del gruppo. Anche per questo le raffigurazioni storiche infarcite di pregiudizi e stereotipi possono tramandarsi da una generazione all’altra. Simili immagini non rappresentano come appaiono davvero gli altri, ma sono raffigurazioni di ciò che pensano i loro autori.

Raffigurazioni o descrizioni poco lusinghiere o negative degli altri gruppi possono influenzare profondamente il destino individuale. Considerate il grande e mutevole bagaglio di immagini, ricordi e storie di gruppi di appartenenza e gruppi esterni che un giurato si porta in tribunale, o i modi in cui la descrizione di un criminale o di un sospetto da parte di un testimone possono influenzare le percezioni di un giurato. In questi casi, rappresentazioni o aggettivi negativi – a volte irrilevanti ai fini del tema dibattuto – possono influenzare le reazioni emotive e il giudizio di chi deve prendere decisioni importanti sul destino di una persona. Le etichette razziali associate a rappresentazioni e narrazioni negative possono avere un potere notevole sui membri di un gruppo esterno, e anche effetti notevoli sui gruppi di appartenenza instillando nella mente delle persone l’idea che il loro gruppo è superiore, inferiore, più intelligente, più stupido, più forte o più debole di altri. La stessa etichetta di razza quindi diventa un fattore determinante nella personalità e nell’esperienza individuale. Nell’ultimo decennio, sono stati condotti molti studi per capire come il cervello reagisce alle foto che raffigurano i volti di persone con la pelle di colore diverso. Questi studi si basano sul fatto che il nostro cervello è abile nell’interpretare i volti. La rete corticale che esamina un volto comprende diverse aree nel cervello e ci dota della capacità di trarre istantaneamente conclusioni su età, salute, grado di relazione, umore, intenzioni, bellezza di una persona. Reagiamo più intensamente ai volti noti e a quelli di coloro con i quali abbiamo un forte legame emotivo, ma reagiamo comunque di fronte a tutti i volti. Siamo così pronti a interpretare le informazioni attraverso i volti che un semplice schizzo attiva la rete di riconoscimento facciale. Inoltre, un volto neutro può acquistare valore sociale negativo se dopo averlo visto viene associato a un pettegolezzo negativo.

Le reazioni ai volti dei membri dei gruppi esterni sono state studiate soprattutto negli Stati Uniti, dove le due categorie esaminate sono state «bianco» e «nero». L’attivazione dell’amigdala avviene nella maggior parte di noi quando vediamo qualcuno con il colore della pelle diverso dal nostro, ma c’è grande variabilità tra le reazioni individuali. La risposta più intensa si ha in chi ha ottenuto i punteggi più alti nei test sui pregiudizi razziali, tra cui il test sull’associazione implicita. Le reazioni di paura che durano più a lungo – dovute al condizionamento dell’amigdala per la paura – sono state registrate di fronte ai volti di membri dell’altro gruppo. Quando i volti erano accoppiati a stimoli sgradevoli, i «bianchi» mostravano una paura condizionata più duratura di fronte a foto di volti «neri» rispetto a quelle di volti «bianchi». Per i «bianchi» accadeva l’opposto. Quindi, gli individui di un gruppo diverso erano più facilmente associati a stimoli sgradevoli che non quelli del proprio.

La scoperta non implica che siamo neurologicamente predestinati ad avere pregiudizi verso particolari individui. Il nostro atteggiamento è costantemente soggetto a cambiare attraverso l’esperienza e, fattore importante, la scelta consapevole. I pregiudizi si possono modificare ed eradicare sulla base di esperienza e motivazione. Gli stereotipi sono pratici perché permettono di cavarsela senza pensare troppo agli altri e prestare attenzione, come nel «riflesso del ginocchio», a una persona o una situazione. Gli stereotipi però possono cambiare quando si è motivati a considerare qualcuno, anche momentaneamente, come membro del proprio gruppo. Anche una breve esposizione a un’immagine positiva e controstereotipata può ridurre il pregiudizio intrinseco dovuto allo stereotipo negativo, come dimostrato negli studi sull’«effetto Obama» sui livelli di pregiudizio. Gli esseri umani sono suggestionabili, e i loro assunti su chi è buono o cattivo possono essere modificati facilmente, specialmente attraverso il contatto con persone degli altri gruppi prima percepiti come negativi. Come ha sottolineato un ricercatore: «L’attivazione [della classificazione in categorie] è facile quando si incontrano etichette verbali, più difficile di fronte a fotografie, difficilissima quando si incontrano persone reali».

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