Elisabetta Bucciarelli torna in libreria con il romanzo “La resistenza del maschio”. E qui ci spiega come scrivere lettere (d’amore e non solo…), e quanto sia terapeutico farlo. Nonostante nell’era dei social network e degli smartphone non vada più di moda…

Lettere cifrate

 Una frase, un rigo appena.
Frati, G. Raimondo

Le parole non bastano! Le parole mai sono bastate
ma possono dire il profondo di sé, quindi pure di altri
se dan forma all’ignoto. Alle persone che la vita maltratta:
ritrovare un po’ di posto per le parole vere;
lasciar scorrere via le immagini, troppo equivalenti.
Giancarlo Majorino

Anch’io fin da piccola ho frequentato la lettera. Nel senso che ne scrivevo e ne ricevevo tante. Le tengo ancora custodite in scatole di cartone, legate insieme da nastri, divise per anni. A volte penso che dovrei suddividerle per mittente, altre volte che avrei dovuto ricopiare quelle che ho inviato, trattenere la brutta almeno, sarebbe di gran lunga più interessante possedere le mie. L’ultima che ho scritto credo risalga a un ventennio fa. Da allora anche per me le e-mail hanno in gran parte sostituito la carta. Continuo comunque a scrivere biglietti di ringraziamento, cartoline, brevi note allegate ai libri, dediche. Ma lettere vere e proprie raramente. Non nego che mi piacerebbe riceverne, ancora.

“Ci vedevamo tutti i giorni in ufficio dove […] Fernando veniva in qualità di traduttore e di amico. Tutto cominciò con sguardi, bigliettini, messaggi che mi lasciava di soppiatto sulla scrivania. […] Conservo ancora qualche biglietto,‘Kiss me’…”

Grazie a un lungo e intenso rapporto epistolare Ophélia Queiroz si trovò a vivere il namoro, che in portoghese indica quel vago periodo che precede il fidanzamento ufficiale. Il 1° marzo 1920 Fernando Pessoa prese a scriverle e il brano precedente e tratto proprio da Lettere alla fidanzata.

Le lettere sembrano lo strumento più adatto per parlare di sentimenti forti, addirittura possiamo azzardare che siano il mezzo letteralmente migliore per farlo. Eduard e Ottilie in Le affinità elettive; Emily Dickinson al “mondo” nel carteggio dal 1845 al 1886, Antonio Gramsci nelle Lettere dal carcere, Madame de Sévigné nel carteggio con la figlia, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, nelle Lettere al Castoro, quasi quarant’anni di epistolario tra i due scrittori, quelle di Virginia Woolf a Vita Sackville-West raccolte nel volume ormai introvabile Adorata creatura. Scrivere di sentimenti forti e soprattutto d’amore rivela sempre e comunque il limite della parola. Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, sostiene che “voler scrivere l’amore significa affrontare quel guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo (per l’illimitata espansione dell’Io, per la sommersione emotiva) e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiattito dall’amore)”. Eppure la lettera diviene talvolta l’unico tramite con l’esterno, quando non ci sembra esistere altra via per chiedere tempo e attenzione. Una lettera d’amore, inattesa, che sbuca tra la posta insieme a dépliant e bollette da pagare; “un foglio di carta bianca piegato in modo strano che spuntava tra le buste piatte lì intorno, convesso, irregolare e asimmetrico; una lieve gibbosità, una sconveniente escrescenza cartacea”. Inizia qui il tormento di Helen, raccontato da Cathleen Schine in La lettera d’amore. Helen non sa chi possa averla scritta e non e neppure certa di esserne la destinataria. Ma importante è chi legge, sostiene la psicoanalista Darian Leader, e da qui nasce una storia appassionante fatta di supposizioni e speranze con un finale a sorpresa, in linea peraltro con le teorie della stessa Leader. Risulta paradossale che persino una lettera indirizzata ipoteticamente a un’altra persona, di cui per sbaglio potremmo divenire noi i destinatari, possa scatenare emozioni così forti e così private indipendentemente da chi sia il vero mittente, soltanto per le nostre proiezioni e fantasie, il nostro attribuire le parole a qualcuno presente nel fertile immaginario che possediamo. A ogni modo, pare accertato uno strano comportamento di chi scrive lettere d’amore: non le spedisce neppure, pago del solo fatto di averle scritte. Emily Dickinson, per esempio, componeva continuamente lettere di ogni tipo: d’amore, commenti letterari e poetici, agli amici, ai parenti, a destinatari sconosciuti; poi le nascondeva, legate con un nastro, nel cassetto della scrivania. Dice Roland Barthes: “Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove tu non sei: è l’inizio della scrittura”. La missiva, secondo Darian Leader, riempie un vuoto di per sé. Diviene inoltre la concretizzazione di ciò che si vorrebbe dare in quel momento o che è stato dato. Assume un senso profondo di realtà. Non può avere la presunzione di comunicare le nostre immagini dell’amore ma è in grado, con discreta approssimazione, di trasformare in qualcosa di tangibile ciò che non lo è. Una sorta di messaggio oggetto. Ma la Leader va oltre, sostenendo che vi è una differenza fondamentale tra un soggetto maschile che scrive e legge una lettera e una donna. “Per un uomo il significato di una lettera d’amore ha molta importanza. Quando riceve una lettera d’amore da una donna cerca di comprenderla, di leggervi dentro, di trovare metafore e riferimenti nascosti”. La lettera però è proprietà di chi l’ha composta, più ancora di un romanzo, e solo chi l’ha scritta è in grado di riconoscere nel presente e nel futuro l’emozione che sottende. E nemmeno leggerla all’interlocutore al posto di spedirla ci metterà al riparo dai fraintendimenti. Per questo scrivere lettere diviene interessante anche quando non vengono spedite. È un ragionamento che riguarda l’incompiutezza e l’indeterminazione, circostanze che non siamo abituati a frequentare se non veniamo messi nella condizione di farlo.

Emily Dickinson “è” le sue lettere, nelle sue lettere, in tutte le sue lettere. Mai spedite e mai pubblicate prima della sua scomparsa. Tutte insieme parrebbero formare un mosaico compiuto di cui ognuna è una tessera.

Rileggere le missive che abbiamo scritto ci metterà di fronte a qualcosa che non ha più la medesima intensità di quel momento, pur richiamandone l’essenza, e ci darà esattamente la posizione in cui ci troviamo, la comprensione per quello che eravamo e la consapevolezza di quanto possano essere concreti i sentimenti e le emozioni, a patto che siano stati compiuti tutti gli sforzi per metterci nei panni del nostro interlocutore.

Rileggere de Laclos o Ugo Foscolo, Le relazioni pericolose e Le ultime lettere di Jacopo Ortis, oppure Storia di una capinera di Verga, commuoversi e arrabbiarsi con le Heroides di Ovidio sarà un ottimo viatico prima di cominciare a scrivere lettere. Proprio nelle Heroides, ventuno eroine scrivono lettere struggenti e sagge ai loro amanti crudeli, superficiali e insensibili, e la missiva diventa un tentativo consolatorio per la psiche, una liberazione emotiva, l’unico modo rimasto per riempire il vuoto con riflessioni e ricordi.

Utilizzeremo la lettera come se fosse una sorta di resoconto con noi stessi, l’occasione per celebrare qualcosa d’importante, per rendere storico un evento che ci è capitato, per fare un bilancio e anche, certo, per comunicare un sentimento.

Se la lettera coglierà nel segno, la risposta sarà immediata. Così è stato per Isabel Allende: “Accesi il computer e, senza pensare, scrissi la stessa frase con la quale avevo cominciato il primo quaderno giallo a Madrid: Ascolta, Paula, ti voglio raccontare una storia, così quando ti sveglierai non ti sentirai tanto sperduta. Compresi allora che l’unica cosa che avrei potuto scrivere era quella lettera destinata a mia figlia”. Isabel Allende scrive una lettera che diventerà poi il romanzo Paula e la risposta silenziosa del pubblico fu un’ulteriore pioggia di lettere: “Non erano lettere alle quali potesse rispondere una segretaria con qualche frase fatta, perché erano molto personali” scriverà più tardi la stessa Allende nella prefazione di Per Paula. Lettere dal mondo. La comunanza di un dolore (la morte di Paula) e il personale modo di viverlo e sentirlo della scrittrice cilena divennero i fattori scatenanti che spinsero così tante persone a ricostruire con carta e penna il proprio drammatico stato d’animo. In altre parole, un’epistola mai spedita è diventata l’occasione di scrittura per centinaia di persone.

Un altro esempio di come le emozioni forti e intense possano muovere la mano di artisti e critici e indurli alla scrittura epistolare è il carteggio tra Vittorio Gassman e Giorgio Soavi, Lettere d’amore sulla bellezza, divenuto un libro sulla bellezza della parola e della pittura. Scrive Soavi a Gassman: “Ti parlo di scrittura perché, da quando abbiamo incominciato a scriverci, a raccontarci queste lettere sulla bellezza della pittura, ho scoperto che tu scrivi unicamente a mano; e adesso ti dico che effetto mi fai. Intanto tu scrivi e imbuchi e non ti passa nemmeno per l’anticamera del cervello di farti una copia di quello che scrivi. Ma, e se vanno perse? Quando ricevo una tua lettera, ancor prima di leggerla io faccio una fotocopia per il terrore di perderla. Tu, niente”.

Lettere all’anima

Secondo Jung la psiche lavora essenzialmente per immagini, pertanto ciò che dobbiamo fare è imparare a sognare il mito insieme a essa. Così e anche per James Hillman: “La nostra vita nell’anima è vita nell’immaginazione”. Conoscere la mente profonda è conoscerne le immagini e ascoltarne le storie. Ed è attraverso le parole (della psicoterapia ma anche della scrittura) che l’individuo può rieducarsi alla capacità di immaginare e di stare tra le immagini. Per questo Hillman propone di rivolgersi direttamente all’anima, ricordando che la tradizione di conversare direttamente con lei affonda le sue radici nel popolo egizio per arrivare fino a Jung. Chiunque può cercare di conversare con la propria anima, investendola del significato più adeguato ispirato dalla propria matrice culturale o dal credo professato, anche attraverso una lettera. E siccome le nostre immagini hanno una voce, parlano, si muovono, si esprimono e, come diceva Jung “l’immagine è psiche”, ecco che ancora loro ci possono aiutare a chiarire conflitti e procedere nella narrazione della nostra esistenza. Hillman racconta di un paziente depresso perché incapace di accettare l’età adulta e la fine di un’adolescenza prolungata. L’uomo intraprese una forma di psicoterapia dove la metafora scritta gioco un ruolo centrale. La scrittura epistolare alla propria anima, considerandola un personaggio, interlocutore privilegiato, lo aiuto a porsi le domande giuste e a uscire dalla sua impasse.

Se una lettera scritta per sé può servire per dipanare sensazioni, sentimenti, eventi, chiarire percorsi interiori e renderli noti soprattutto a se stessi, una lettera scritta agli altri o per gli altri ha di solito l’intento di comunicare informazioni, opinioni o sentimenti. In questo secondo caso è evidente il peso dell’interlocutore, che con la sua presenza interferisce sia nella forma che nei contenuti della lettera. Spesso anche in una stessa lettera si possono avere vari gradi di commistione dei due modi di intendere la scrittura epistolare (per sé o per gli altri): la differenza sta nello stato d’animo di chi scrive e nell’importanza che si attribuisce al feedback altrui.

Svolgendo gli esercizi ci troveremo di fronte a lettere scritte con l’intenzione di parlare a se stessi ma che al contrario, a una lettura attenta, si sveleranno indirizzate a qualcuno. Possiamo affermare che la lettera non risulterà mai scritta puramente per sé o puramente per gli altri. È chiaro che l’Altro non va inteso come ente oggettivo, bensì come proiezione dello scrivente, non almeno nella dimensione della scrittura letteraria. Questa osservazione può apparentemente complicare le cose, ma diviene chiara se provo a pensare a una lettera scritta dal mio personaggio a un altro personaggio. Io, inteso come ego, insieme di sensazioni/sentimenti/lavoro che dovrebbero compormi e con cui mi identifico, sono a mia volta un’immagine di me. A mia volta avrò relazioni con altre idee o immagini di cose e persone, piuttosto che con esse come sono ≪davvero≫ in realtà. In pratica può accadere (e spesso è così) che una lettera dai contenuti personali riassuma non tanto una situazione “reale”, quanto la proiezione di un ego sull’immagine di un altro ego. Così nel caso di una lettera scritta a un interlocutore reale l’adattamento che chi scrive metterà automaticamente in atto per comunicare con lui non è frutto del rapporto tra i due (o i molti coinvolti) quanto dell’immagine (ovvero dell’interpretazione) che lo scrivente ha di quella persona, cioè, per estensione, di se stesso. Quasi sempre consideriamo la lettera come un mezzo per amplificare, intensificare, concretizzare una proiezione. Dunque per vedere, osservare, riconoscere, come se fosse una grande lente d’ingrandimento, ogni nostra emozione o stato d’animo. Più di qualunque altra forma letteraria ci permette una direzionalità, un invito esplicito alla condivisione, al contatto.

Durante uno dei miei corsi di scrittura, rimasi colpita da un allievo particolarmente dotato e intelligente. Un tipo stravagante, più stravagante della media di tutti coloro che frequentano la parola scritta. Quel ragazzo, Guido, era depresso, e nonostante questo frequentava il gruppo di scrittura tutte le settimane. Amava molto la scrittura epistolare. Nei periodi in cui la sua difficoltà a tollerare il mondo diventava più forte, non rinunciava a comunicare scrivendo lunghe lettere. Ai giornali, soprattutto. Una fu pubblicata su La Repubblica nella rubrica “Lettere” di Barbara Palombelli, un’altra sul settimanale D. la Repubblica delle donne, nella rubrica “Lettere” di Umberto Galimberti. In seguito alla prima venne anche invitato a partecipare a Moby Dick, il programma di Michele Santoro. L’epistola, nel caso di Guido, ha potuto soddisfare l’istinto/bisogno di relazione. Scrivo, qualcuno mi legge (perché è questo il suo lavoro), dunque sono.

“Quando mi trovo sola davanti al foglio mi sento incapace e al tempo stesso potente” ha detto Anna P., un’altra partecipante. “Incapace perché non so esprimermi come vorrei e potente perché i miei pensieri diventano cose che posso vedere. Sono davanti a me e non solo nella mia testa. Così non mi fanno più paura, se voglio, posso anche cancellarli”. Ecco quindi che esplicitare un pensiero, un’opinione, uno stato d’animo, renderlo sulla carta, dunque tangibile, tattile, gli concede spessore, lo autorizza a nascere, a esserci, a contare, a durare.

Così riflette Arthur Opp, protagonista di Il peso di Liz Moore, Neri Pozza:

Quando ho finito di scrivere ho tenuto la lettera tra le mani davanti agli occhi e ho immaginato di spedirla. Ho immaginato molto chiaramente di ripiegarla con cura in tre parti e di prendere la busta con la mano destra e di inserire la lettera con la sinistra. E poi di sigillarla. E poi di scriverci l’indirizzo di Charlene, che conosco bene quanto il mio. Vigliacco, vigliacco, ho pensato, se valessi qualcosa lo faresti. Mentre scrivevo avevo provato un grandissimo sollievo ad alleggerirmi la coscienza dopo così tanto tempo con qualcuno a cui tenevo così tanto. Era la lettera che avevo sempre sognato di scriverle.

Non siamo più abituati a scrivere lettere, ma continuiamo a scrivere e leggere libri che raccontano storie di rapporti epistolari.

La lettera che cura

Uno sguardo al cinema e a un autore in particolare: François Truffaut. Nel suoi film la lettera che tiene in vita, cura, consola è una costante. Osserva Mauro Marchesini, che a questo tema ha dedicato un libro: “Per la grafomane (Adèle Hugo), non esiste differenza tra le fandonie spedite ai genitori, gli atti unici inviati al tenente e gli assolo affidati alle pagine del journal”. Adèle Hugo è la protagonista di Adèle H. Una storia d’amore, uno struggente film d’amore del 1975 interpretato da Isabelle Adjani. “Adèle H. raggiunge dunque le spiagge della follia proprio perché denuda l’equivoco sotteso a qualunque scrittura rivelandoci che il circuito mittente-ricevente è solo un’illusione”. La figlia di Victor Hugo è innamorata del giovane tenente Pinson, che non la ricambia. La sua forte passione sceglie il canale della missiva come l’unico possibile per comunicare con l’amato, i genitori, il mondo. Il film è liberamente ispirato a Le journal d’Adèle Hugo, i diari ritrovati e ricostruiti (poiché scritti in un codice particolare) da Frances Vernor Guille, che ha partecipato alla stesura della sceneggiatura.

Adèle H. si serve della comunicazione epistolare, a partire dall’acquisto degli strumenti della scrittura, per non trovarsi mai direttamente a contatto con la forza travolgente delle proprie emozioni e di quelle altrui. Eliminando il suono, la voce e il tatto, mette un diaframma tra sé e gli interlocutori, riesce a tenere a distanza e a controllare la propria fragilità. L’unico momento di relazione è con il bibliotecario che le procura i supporti della scrittura, la carta preziosa su cui lei scrive, e che si innamora silenziosamente di lei. Tra le protagoniste dei film di Truffaut le occhialute e grafomani hanno decisamente un posto privilegiato. Marchesini individua un curioso rapporto tra l’utilizzo della scrittura e la necessità degli occhiali: “Il minimo comun denominatore tra mal di cuore e mal di pupille viene sancito dall’esercizio della corrispondenza. […] Detto con maggior chiarezza: più si alza la temperatura della passione e della grafomania, più si abbassa la soglia di salute dello sguardo”. Ciò non significa che scrivere lettere produca necessariamente forme più o meno gravi di miopia, ma sottolinea la doppia distanza, reale (la lettera) e simbolica (gli occhiali), tra sé e il mondo. D’altra parte, l’epistolografia è stata abbondantemente rimpiazzata dalla comunicazione scritta e in tempo reale delle chat, delle varie messaggerie e dall’utilizzo delle e-mail, che hanno quasi annullato il tempo della comunicazione differita, tempo dedicato alla lettura ma soprattutto rilettura, alla composizione meditata e all’attesa che modifica i rapporti e i pesi delle parole, ne amplifica il significato e ne approfondisce e radica il senso.

Proviamo a scrivere una lettera per conversare con un interlocutore immaginario.

Esercizio 1

– Oggetto: richiesta di scuse.

– Occorrente: carta e penna.

– Situazione: abbiamo subito un torto. Qualcuno ci ha offeso, trattato male, ignorato. Se non riusciamo a immaginarci una situazione interpersonale emotiva, possiamo pensare a un credito che qualcuno non intende saldarci, a un licenziamento, alla perdita di un privilegio. Sarebbe interessante partire da un elemento reale, qualcosa che è accaduto a noi o a qualcuno che conosciamo e che non si è ancora risolto.

– Destinatario della lettera: la persona fisica da cui abbiamo subito il torto. Non è quindi l’azienda, il fato, il destino o le circostanze, ma un essere umano con un nome e un cognome. Stiamo parlando a lui/lei e stiamo chiedendo ragione del comportamento e scuse adeguate (morali o economiche a seconda delle circostanze).

– Contenuto della lettera: nella lettera dobbiamo spiegare nel dettaglio come sono andate le cose, inquadrando nel tempo e nello spazio l’accaduto. Forniamo ovviamente il nostro punto di vista argomentandolo. Facciamo riferimento a eventuali testimoni.

Dopo aver scritto questa parte mettiamo via la lettera per qualche ora, forse anche un giorno.

Rileggiamola sottolineando i passaggi che riteniamo più importanti.

Ora cerchiamo di invertire i ruoli immedesimandoci nell’accusato e, aderendo alla sua visione, cerchiamo di difenderci. Scriveremo una risposta alla lettera precedente portando tutte le ragioni necessarie a motivare l’atto offensivo, smontandone il pathos oppure mettendo in discussione i meccanismi del ricordo, cercando comunque di scagionarci in tutti i modi. Indosseremo di nuovo i panni di chi ha subito il torto e ci caleremo un’ultima volta in chi lo avrebbe inflitto. Quindi metteremo da parte il lavoro per rileggerlo alcuni giorni dopo.

Il tempo trascorso renderà evidenti esagerazioni, inesattezze, incongruenze, dichiarazioni prive di contenuto emotivo. Può darsi che nel frattempo il personaggio vero, colpevole di aver urtato la nostra suscettibilità, sia già corso ai ripari, scusandosi con noi. Oppure durante la scrittura del carteggio abbiamo scoperto che il fatto di per sé non costituisce reato (il più delle volte si sgonfia e perde la sua importanza). All’interno di un gruppo di scrittura di solito risulta efficace provare a costruire per via epistolare le voci di altri personaggi, per esempio la testimonianza di chi ha assistito al fatto, un testimone per parte, oppure il tentativo di dirimere il conflitto con un familiare o con un amico. Questo tipo di scrittura prende a prestito una tecnica peculiare dello psicodramma analitico, cioè l’inversione di ruolo.

Lo stesso esercizio andrebbe svolto da un altro punto di vista.

– Oggetto: lettera di scuse.

– Destinatario: la persona che ha subito un’offesa, cioè noi.

– Mittente: il responsabile dell’offesa.

Scriviamo una lettera che contenga un’ammissione di colpa, delle scuse accorate, una richiesta di perdono. Dopo averla scritta rispondiamo. Il più delle volte questo sgambetto epistolare ci mette in condizione di rispondere: “Non importa, si figuri, me n’ero già dimenticato”.

Esercizio 2

Chiedete ai vostri amici il permesso di leggere una lettera d’amore, scritta da loro o indirizzata a loro, i cui contenuti, nel ricordo, corrispondano nitidamente a un’emozione. Provate a leggerla da soli, attentamente, e cercate le parole e le azioni corrispondenti allo stato d’animo dichiarato. Poi andate alla ricerca dei vocaboli che rappresentano il dubbio e di quelli che vi sembrano sottintendere un problema più o meno grave.

Esercizio 3

Scrivete una lettera dove raccontate di essere felici senza mai dichiararlo, ma mettendolo in azione, dove raccontate di essere delusi senza mai utilizzare aggettivi, dove proclamate di essere arrabbiati senza mai utilizzare la parola rabbia o altri sinonimi, raccontando solo con i fatti l’esplosione del vostro stato d’animo.

Lettera psicomagica

Scrivere e un rito magico, “in qualunque pratica spirituale” scrive Deng Ming-Dao, “dalle sacre sillabe dello Yoga tantristico, al misticismo della Cabala, dalla Parola del Dio cristiano alle scritture talismaniche dei maghi taosti – la parola è centrale. Scrivere e un atto sacro”. È la superficie delle cose che parla del profondo. Se da un lato scrivere imprigiona, mette nero su bianco, scripta manent, è l’inchiostro incancellabile sulla carta, dall’altro è un atto liberatorio. Porta fuori da noi, è tangibile e soprattutto può prestarsi a essere distrutto. Non stiamo invocando il falò della censura, ma quello ipotetico di un’azione psicomagica. L’indicazione viene da Alejandro Jodorowsky, fondatore insieme a Fernando Arrabal e Roland Topor, del movimento di teatro Panico. “In tutte le culture” dice Jodorowsky “si ritrova il concetto della forza della parola, la convinzione che l’espressione di un desiderio in una determinata forma possa provocarne la realizzazione. […] Gli antichi sapevano che l’inconscio non è soltanto ricettivo nei confronti del linguaggio orale, ma anche delle forme, delle immagini, degli oggetti: gli egiziani conferivano un’importanza capitale alla parola scritta. Più che dire bisognava scrivere”. In Psicomagia Jodorowsky descrive l’atto psicomagico, la modalità “surrealista” con cui può essere condotto; il lettore che volesse approfondire e poi sperimentare troverà modo di farlo nei libri dell’autore.

Quello che avete appena letto è il settimo capitolo del penultimo libro di Elisabetta BucciarelliScrivo dunque sono (Ponte alle Grazie). L’autrice, milanese, ha vinto prestigiosi premi con i suoi gialli. A proposito di Scrivo dunque sono, per Elisabetta Bucciarelli “siamo quello che scriviamo”, per questo è necessario trovare le parole giuste per raccontarsi. Dietro le scelte tecniche e stilistiche c’è sempre una ricerca interiore, un tentativo di mettere ordine e fare chiarezza nel proprio tragitto personale. Scrivere è un modo di appropriarsi del mondo che ci circonda, di trovare la giusta distanza e la prospettiva migliore sulle cose e sulla nostra posizione nel palcoscenico della vita.  Al confine tra creatività e indagine psicologica, analisi linguistica e ricerca di un equilibrio interiore, in questo libro Elisabetta Bucciarelli racconta una passione che non ha mai fine e che ogni volta si rinnova di fronte alla pagina bianca.

Non solo: proprio in questi giorni l’autrice arriva in libreria con il romanzo La resistenza del maschio (NNE). La trama? L’Uomo ha una vita di successo, moglie, lavoro, casa. Non vuole figli e non vuole solo sesso. Cerca in ogni circostanza misura e proporzioni. Una notte assiste a un incidente: una donna si schianta contro un palo della luce. L’immagine di lei, simile a un quadro preraffaellita, diventa un’ossessione. Intanto nella sala d’aspetto di uno studio medico tre donne attendono il loro turno. Al di là della volontà di ciascun personaggio, qualcosa sta per accadere…

 

 

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