Su ilLibraio.it un capitolo dal saggio “L’italiano che resta”, firmato dal linguista Gian Luigi Beccaria

Nel saggio L’italiano che resta (Einaudi), Gian Luigi Beccaria, linguista e critico letterario, ci accompagna tra le pieghe delle parole, sottolineando l’elemento permanente di quell’organismo mutevole che è una lingua. Della nostra, rileva il filo rosso dell’eredità classica che ne ha foggiato la consistenza stilistica. Sino a ieri la lingua letteraria procedeva attraverso libri fatti coi libri; ora lo scrittore fa di meno i conti con la tradizione: cinema, televisione, l’oralità, determinano la sensibilità generale verso la scrittura. Si osserva un evidente processo di «mondializzazione», che sembra uniformarsi verso standard universali riconoscibili ovunque.

L’autore sviluppa anche il tema della bellezza intrinseca che possiedono le parole «abbandonate», ma soprattutto affronta polemicamente punti chiave della vita civile attuale: gli slogan, il deteriorarsi della vita politica, i problemi della scuola e degli studi umanistici, le nostre provinciali inclinazioni esterofile, la crisi della lettura attenta e consapevole.

lingua italiana

Su ilLibraio.it un capitolo (per gentile concessione dell’editore)

Nonostante i lamenti, resto fiducioso sull’italiano che verrà. Anche perché quello che resta è un’entità vitale e cospicua. Oggi sono diventati quasi un luogo comune gli alti lai sull’italiano che non sta bene di salute, o che si va inquinando (gli anglismi!) e impoverendo; alti lai che si levano perché non s’usa piú il congiuntivo, perché te soggetto sostituisce il tu…, e perché si sbagliano gli accenti, ámaca, báule ecc. Certamente, fiduciosi o di manica larga fin che si vuole, gli sbagli d’accento fanno sempre fare brutta figura a chi li compie. In particolare, gli errori di ortografia sono colpiti da una piú grave sanzione sociale. Non sono un buon biglietto di presentazione i vari abbruttimento invece del corretto abbrutimento (viene difatti da bruto, non da brutto), anedottico invece di aneddotico, arruginito invece di arrugginito. Ci si “presenta” meglio se si scrive il di’ imperativo con apostrofo (da dire), e io do (da dare) senz’accento; se al plurale si dice gli gnocchi, e si scrive iniquo e non inicuo, innocuo e non innoquo, soqquadro e non soccuadro, squartare e non scuartare, repulisti e non ripulisti. Adesso però vorrei fermarmi un momento sugli accenti. Molti errati si vanno pian piano acclimatando. Si sente Islám in luogo di Íslam, oppure díktat, ormai generalizzato (dovremmo dire diktát, la parola è tedesca). L’errata ritrazione interessa anche i nomi di luogo, Bénaco invece di Benáco, Bélice invece di Belíce, e i nomi di persona, Bénetton, Cóin, Nóbel anziché i corretti Benettón (Pádoan e non Padoán è una svenetizzazione operata a tavolino), Coín ecc.91. Si sente dévia e non, com’è giusto, devía, molti usano circuíto, che vorrebbe dire ‘raggirato’ (participio passato di circuire) invece del corretto circúito ‘giro, percorso’, oppure nocciólo, che sarebbe l’albero, quando si vorrebbe parlare del nócciolo, ‘il guscio del seme’ di un frutto. Alcuni errori sono già passati in giudicato: tocca prendere per buono kólossal, che sarebbe per la verità kolóssal, visto che la parola ci arriva dal tedesco, e stanno per essere accettati íncavo per l’esatto incávo, o trálice per tralíce. C’è poi l’influsso dell’inglese che si fa sentire: per esempio sull’accentazione dei toponimi. L’isola caraibica dove tempo fa si è discusso se si fabbrichino o no patacche si pronuncia Santalúcia. Gli americani l’hanno battezzata cosí. La pronuncia di questo minuscolo membro del Commonwealth (ingl. Saint Lucia) porta accento sulla “u”. In realtà l’accentazione originaria è spagnola, Santa Lucía, come la nostra Santa Lucia. Mi piacerebbe sentirla pronunciare col suo nome di battesimo, ma che possiamo noi di fronte all’imperialismo linguistico americano! Sentiamo difatti accentare Sóledad, san Sebástian… Le nostre voci romanze sono rimodellate dall’inglese, riproposte con accento ritratto. La stragrande maggioranza ha difatti scelto Flórida, anche se è la “fiorita”, Florída. A gusto mio, vorrei che si risalisse all’origine delle parole. Si sente dire Pámela e non, come si dovrebbe, Paméla, nome di origine letteraria, ripreso e diffuso in varie opere famose (da Samuel Richardson a Carlo Goldoni, a Fra Diavolo di Daniel Auber a una novella di Gozzano). Il nome è di probabile origine greca, da pân ‘tutto’ e mélos ‘melodia, canto’, quindi ‘tutta melodia, tutto canto’. Potrebbe anche essere pân ‘tutto’ e méli ‘tutto miele, tutta dolcezza’, in ogni caso un nome bellissimo, promessa di canti e dolcezze, che per coerenza di etimo vorremmo con accento sulla “e”, Paméla.

Non sono di natura troppo rigido, amo la libertà. Ribadisco però che ci sono leggi precise che non si dovrebbero trasgredire. Per esempio, non c’è dubbio che è sbagliato cáduco, giusto cadúco per la nota «legge della penultima», se è vero che l’accento dell’italiano si regola sul latino: occorre fare riferimento in questo caso alla “u” del lat. cadūcum, che è lunga, e quando la penultima sillaba è lunga, o breve in sillaba implicata, l’accento cade su di essa; soltanto in caso contrario si risale alla terzultima. È meglio autódromo o autodró- mo? Consiglio autódromo, cosí come velódromo, ippódromo: già in greco l’accento cadeva sulla terzultima, hippódromos, e in latino (cui dobbiamo sempre far riferimento) avevamo hippŏdromu(m). Per la stessa “legge” sarebbero da evitare édile, Fríuli, guáina, móllica, rúbrica, sálubre, ínfido, púdico, bócciolo, baláustra, íncavo, társia, e cosí termíte, abrógo.

La realtà però è molto piú complicata, e l’opposizione manichea giusto/sbagliato in lingua non regge. Alla “regolarità” di una pronuncia concorre piú d’ogni cosa l’Uso (Manzoni lo scriveva con lettera maiuscola). L’uso la fa sempre da padrone. Alcune pronunce etimologicamente errate oggi cominciano difatti a essere accettate: vedi sálubre, váluto rispetto ai corretti salúbre, valúto. E si è fatto largo io intímo accanto al preferibile íntimo (perché etimologicamente la seconda “i” è breve, e quindi per la già ricordata regola della “penultima” la parola si dovrebbe pronunciare sdrucciola). Per la solita regola della penultima (lunga in latino), sarebbe preferibile io adúlo, ma io ádulo è accentazione diffusa. È capitato piú volte che nella storia della nostra lingua sia stato l’uso “errato” a imporsi, ad attecchire e diventare dopo un po’ accettabile, quand’è giustificato da attrazione per analogia. Dovremmo dire persuadére (e non persuádere), che riprende la pronuncia originaria latina. Ma si è ora largamente diffuso persuádere, con accento sulla á, per analogia con io persuádo, tu persuá- di ecc. O si pensi a salúbre, etimologicamente corretto, perché deriva dal latino salūber. Ma si è affermato nell’uso sálubre, per attrazione di lúgubre, célebre ecc., e anche di insálubre. Pure in upupa l’accento andrebbe sulla prima u, dato che l’origine è onomatopeica, dal tipico verso dell’uccello up up. Ma upú- pa è oggi assai diffuso. E (io) valúto? Valutare deriva da valúta, quindi dovrebbe essere corretto io valúto. Ma sopravváluto, sottováluto, riváluto sono da tempo correnti, e hanno suggerito la pronuncia io váluto, ora largamente affermata nell’uso. Il giudizio sull’“errore” è dunque spesso complicato. In una trasmissione televisiva dedicata ai motori tutti gli intervenuti parlavano di régimi e non di regími, come si dovrebbe. Regime, inteso come forma di governo, come regola di vita («essere a regime» significa appunto ‘seguire una dieta’), come condotta, o andamento di un fenomeno in un certo periodo di tempo, o come funzionamento di un’auto o di un impianto («funzionare a pieno regime») ha secondo la consuetudine l’accento sulla penultima (regíme). L’uso con accento sulla terzultima (régime), che è di registro popolare, fu sino agli anni Quaranta del secolo scorso autorizzato da alcuni vocabolari, ritenendo che regíme fosse una pronuncia alla francese, e quindi da evitare. Le due accentazioni hanno convissuto. La nostra lingua conosce dunque molte oscillazioni. Si pensi per esempio a come popolarmente si tenda a ritrarre l’accento nei polisillabi inusuali, piú rari; però possiamo anche addurre un numero cospicuo di fenomeni contrari. Non ci resta che concludere col suggerimento piú pratico: ricorrere al vocabolario, che registra le doppie possibilità, una legata alla norma etimologica, l’altra all’uso. Basterebbe aprire al riguardo il capitolo dei sempre discussi grecismi scientifici (sclérosi/sclerósi, ecchímosi/ecchimósi ecc.)

(continua in libreria…)


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