Il Vietnam, l’amicizia, la famiglia, un evento sconcertante: su ilLibraio.it un capitolo da “Il cuore degli uomini”

Nickolas Butler, è nato ad Allentown, in Pennsylvania, ed è cresciuto a Eau Claire, nel Wisconsin, dove vive con la moglie e i due figli. Ha frequentato l’Iowa Writers’ Workshop e pubblicato racconti su diverse riviste. In Italia nel 2014 Marsilio ha pubblicato Shotgun Lovesongs.  Protagonista del nuovo romanzo, Il cuore degli uomini, Nelson dorme da solo nella tenda che lo ospita per la quinta estate al campo scout di Chippewa. Le sue medaglie, la bravura nell’accendere il fuoco, la straordinaria abilità con cui all’alba suona la sveglia non sono l’ideale per stringere amicizia a tredici anni.

Solo Jonathan, il ragazzo più popolare della scuola, sembra concedergli stima e attenzione: è l’unico a ricordarsi del suo compleanno, l’unico ad aiutarlo quando i bulli di turno tentano d’infilarlo nella latrina. Nelson e Jonathan non possono ancora saperlo, sul finire di quell’estate del 1962, ma la loro amicizia sopravvivrà al tempo, alle difficoltà familiari, al rigore dell’accademia militare e agli orrori del Vietnam: trent’anni dopo, i due protagonisti si ritrovano per caso nello stesso campo. Nelson, veterano del Vietnam, riveste il ruolo di capo scout; Jonathan, ricco padre di famiglia, accompagna il figlio adolescente. Un evento sconcertante, però, verrà a turbare l’apparente quiete del raduno, costringendo tre generazioni di uomini a confrontarsi con gli equivoci del proprio coraggio e della propria vigliaccheria.

Butler

Su ilLibraio.it per gentile concessione dell’editore un estratto del romanzo:

Il giorno del suo tredicesimo compleanno – una soffocante domenica pomeriggio di giugno – era rimasto seduto in giardino in attesa che arrivassero i suoi compagni scout con le pistole ad aria compressa e i cappelli da castoro, la carta da regalo inumidita dalla traspirazione estiva e un po’ strappata. La sera prima, nonostante il suo buonsenso, si era concesso di immaginare una pila di regali: libri e modellini di aeroplani, figurine del baseball e dolciumi.

Una gigantesca caraffa di limonata sudava su un lato del tavolo imbandito, come se fosse sotto interrogatorio. Il piatto di pasticcini glassati era stato già rimesso nel frigorifero portatile, dopo essere rimasto fuori abbastanza a lungo da attirare l’attenzione non richiesta di mosche e calabroni. Nelson e la madre avevano spedito gli inviti a casa di tutti gli scout un mese prima. Eppure, mentre il pomeriggio passava, non arrivava nessuno, e così lui aveva trascorso ore a piantare frecce nei colori primari di un bersaglio legato al tronco di un imponente olmo del giardino.

La sera, a cena, gli era stato difficile trattenere le lacrime. Quando erano arrivate, gli erano scorse calde e selvagge sulle guance scottate dal sole mentre sua madre e suo padre lo osservavano dall’altro lato del tavolo da picnic, con una tovaglia a scacchi rossi e bianchi appiccicata alle assi di sequoia nell’umidità di giugno, due palloncini immobili che gli incorniciavano il profilo nell’aria estiva, i fili di nylon piatti e senza il minimo segno di arricciamento.

Sua madre si era alzata e si era seduta vicino a lui, posandogli una mano sulle spalle.

«Non capisco» aveva piagnucolato Nelson, «abbiamo spedito gli inviti! Li abbiamo spediti settimane fa! Dove sono tutti? Dove sono?» Di sicuro non voleva che la voce gli colasse fuori con quel gemito, eppure aveva emesso un suono più acuto di quello della vicina di otto anni, che proprio in quel momento stava saltellando davanti casa, scalza, con la sua adorata corda. Se avesse inalato tutto l’elio dei palloncini per nulla festivi accanto alla sua testa, sarebbe stato lo stesso.

«Oh, caro» aveva detto la madre cercando di calmarlo, «è estate. Sono sicura che sono tutti nei loro chalet o in vacanza. E poi hai passato una bellissima giornata con me e tuo padre, no? Non è stata una giornata splendida? E devi ancora aprire i regali. Vero, papà?»

Clete Doughty li aveva guardati attraverso le lenti da vista spesse e torbide come il quarzo. Aveva schiacciato un calabrone che gli orbitava sopra la testa. «Senti, Nelson» aveva detto in tono piatto, «questo piagnisteo, questo piagnisteo… Lascia che ti dica una cosa. Sembra severa, ma non lo è. Hai presente questi ragazzi, questi amici che ti ritrovi? Non resteranno in circolazione a lungo. Te lo garantisco. Non succede mai. Prendi me, per esempio. Vado mai in giro con gli amichetti? No. C’è un momento in cui bisogna imparare a stare da soli, e forse nel tuo caso è adesso. Scusa se te lo dico.» Si era raschiato la gola, sdegnato. Il ragazzino, nonostante avesse fatto ogni sforzo per trattenere le lacrime caldissime, e i singhiozzi di imbarazzo e di vergogna, si era messo a piangere ancora più forte. «Adesso basta piangere» era scattato Clete. «Hai tredici anni, Nelson! Gli uomini non… basta piangere! Mi hai sentito?»

«Lascialo stare» aveva detto la madre di Nelson, nel tono più austero che le fosse mai capitato di usare, poiché Dorothy Doughty raramente osava sfidare il marito. «Povero bambino. Lascialo stare.»

Nelson si era accorto di una certa tensione a casa durante l’ultimo anno, un’ansia che riusciva a imputare solo a se stesso; c’era qualcosa che non andava. Le porte sbattevano con più frequenza e rumore. Il padre arrivava tardi per cena e poi marciava dritto verso la stanza da letto o si accasciava in poltrona. La madre piangeva piano mentre lavava i piatti, e quando lui le chiedeva spiegazioni, correva in bagno, chiudeva la porta a chiave e l’unica risposta era l’acqua del lavandino che traboccava. In giardino, il tappeto una volta immacolato di festuca stava lentamente perdendo la battaglia contro il tarassaco e le erbe infestanti.

«Ma ho ragione, Dorothy. E lo sai! Dimmi il nome di un amico del liceo che frequenti ancora. Uno solo.»

«Clete, non si tratta di me o di te, se è per questo. È il compleanno di Nelson, e il poverino…»

«Ti dico io quando trovi dei veri amici. Ti fai gli amici al militare, in trincea, al fronte. Uomini che si prenderebbero una pallottola per te, che ti lascerebbero l’ultima Lucky Strike e le ultime gocce nella borraccia. Non si tratta di una torta di compleanno con le candeline, Nelson. Essere amici è una questione di lealtà. Di lealtà a vita. […] Fra un po’ non ci saranno più giocattoli o torte, feste o amichetti. Ci saranno solo giorni e giorni impilati uno sopra l’altro, così tanti che non ricorderai neanche cos’hai mangiato a colazione la mattina. Scusa se te lo dico proprio il giorno del tuo compleanno, ma è così. La realtà è questa.»

Nelson era rimasto in silenzio per un momento. «Pensavo di essergli simpatico» aveva piagnucolato. «Almeno un po’. Abbastanza da farli venire al mio compleanno. E invece nessuno si prende la briga di farsi vedere! Nessuno.» Non riusciva a controllare il tono della voce; era un palloncino giallo che vagava sciolto nel cielo. […] «Voglio solo piacere alle persone. Non sono un bravo ragazzo? Eh?»

«Certo che lo sei, Nelson, certo che lo sei.»

«Non sono bravo, mamma?»

«Piantala con queste scene!» aveva ordinato Clete. «Piantala subito!» […]

La sua voce era affilata quanto il dito che aveva puntato in faccia al figlio come una pistola. Il sudore gli aveva fatto scivolare gli occhiali giù lungo la gobba del naso. E poi si era alzato in piedi, slacciandosi la cintura e cercando di sfilarla dai pantaloni, ma il cotone dei passanti era umido e il cuoio appiccicoso. L’aveva strattonata con violenza, come se stesse tirando la corda che avviava il tagliaerba, ma gli era rimasta attaccata alla vita, mentre gli occhiali unti di sudore gli cadevano dalla faccia per finire sul finto prato che rivestiva il portico sul retro.

«Clete, no!» aveva detto la madre. «Non oggi, ci siamo capiti? No, Clete.» […]

Negli ultimi tempi le botte erano aumentate. Se non con la cintura, con un cucchiaio di legno o un ramoscello scelto con cura dal salice piangente nel giardino del vicino. Nelson non aveva mai odiato tanto un albero prima di allora, figuriamoci una specie particolare. Poi era stato mandato in avanscoperta per trovare l’arma che gli avrebbe infiammato il sedere così tanto che per le due notti successive avrebbe potuto dormire solo sdraiato sulla pancia. E scegliere una verga piccola non era un’opzione percorribile, perché suo padre l’avrebbe usata finché non si fosse rotta, per poi chiederne un’altra.

«Scusatemi» si era intromessa una voce esitante. Il suono proveniva dal vialetto vicino al garage, inaspettata come lo squillo del telefono o come tutte le campane della città che si fossero messe a suonare all’unisono. […] «Cavolo, mi dispiace» aveva detto Jonathan Quick, spuntando dal retro. «Mi dispiace aver fatto tardi.»

«Oh, non preoccuparti, Jonathan!» aveva risposto Dorothy. «Sei arrivato in tempo per la torta e il gelato!»

Nelson si era strofinato il naso e asciugato gli occhi con forza. Il miracolo dei miracoli! Jonathan Quick, scout a vita, quindici anni e già alto un metro e ottanta. Membro della squadra di nuoto della scuola, attaccante della seconda squadra di football, interbase di riserva della seconda squadra di baseball, membro del coro e costruttore di modellini ferroviari. Jonathan Quick in piedi nel vialetto di Nelson, con una scatola incartata con le pagine delle vignette e un fiocco rosso. Aveva lanciato uno sguardo furtivo a Nelson, come se il regalo che aveva tra le mani fosse una patata bollente che avrebbe passato volentieri.

«Be’, Jonathan» aveva detto Clete, «che bella sorpresa.» La cintura aveva ritrovato furtivamente il suo posto mentre Clete girava attorno al tavolo da picnic per stringere la mano a Jonathan. «Lieto che tu abbia potuto raggiungerci.»

«Mi perdoni, signore» aveva detto il ragazzo, che in apparenza stava retrocedendo un po’ per ritirarsi nel vialetto da cui era apparso. «Non posso restare a lungo. È caduto un ramo nel giardino di mia nonna ieri e le ho detto che sarei passato per spostarlo. Dovevo arrivare prima, ma mio fratello Frank oggi e stato punto dalle api e abbiamo dovuto portarlo di corsa all’ospedale. Non sapevo che una persona potesse essere allergica alle api. Tu, Nelson?»

Nelson era così felice di sentirsi rivolgere la parola in quel modo da Jonathan Quick che le lacrime di un attimo prima gli erano sembrate di poco conto. «Vuoi fare qualche tiro al bersaglio?» aveva domandato d’impulso.

«Oh… certo» aveva risposto Jonathan. «Solo che – come ho detto – non posso restare molto. Per via di mia nonna

e tutto il resto.» […]

L’ospite al compleanno di Nelson era rimasto circa venticinque minuti. Il tempo sufficiente per fare un paio di tiri modesti e ben mirati, e poi unirsi a Nelson e ai suoi genitori in una versione persino troppo calorosa di Tanti auguri a te. Il tempo sufficiente per una fetta di torta e una cucchiaiata di gelato sciolto alla vaniglia. Il tempo sufficiente perché Nelson aprisse la scatola e trovasse un cestino di betulla intrecciata.

«L’ho fatto io» aveva detto Jonathan. «L’ho fatto per te.»

Nelson aveva tenuto il cestino in mano con riverenza. «Hai fatto questo per me?» aveva balbettato.

«Sì, scusa se le maglie non sono molto strette ma… ne ho fatti solo due. Il tuo era il primo.» Era arrossito per quell’ammissione fin troppo onesta. «Ho dato l’altro a mia nonna» aveva aggiunto in tono solenne, anche se, a dire il vero, il suo secondo sforzo era stato consegnato a Peggy Bartlett, una ragazza che sperava di poter invitare al ballo scolastico a ottobre.

«Oh, è bellissimo» aveva esclamato Dorothy, facendo uno, due, tre applausi con le mani. «Che giovanotto di talento!»

«Be’» aveva detto Jonathan, stendendo bene la mano per avviluppare quella di Nelson. «Buon compleanno, vecchio mio.»

«Grazie» aveva risposto Nelson continuando a contemplare il cestino. «Grazie mille.»

E poi il ragazzo più grande era corso via lungo il vialetto mentre Nelson restava fermo al suo posto, con il cestino

vuoto in mano, le maglie intrecciate alla meno peggio, chiedendosi con cosa avrebbe potuto riempirlo per onorare la generosità di quell’amico. Lo aveva posato sul tavolo da picnic accanto ai regali che gli avevano comprato i suoi genitori: un nuovo paio di pantaloni, un orologio da montare e un libro semi-illustrato sulla Guerra civile. Ma i suoi occhi tornavano sempre al cestino, a quella piccola corona imperfetta.

(Continua in libreria…)

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