La leggenda dell’alpinismo compie 70 anni e in un libro, attraverso 70 parole chiave (da Vita a Morte, da Fiducia a Destino…), racconta se stesso per trasmettere agli altri la propria esperienza… – Leggi il capitolo dedicato alla “paura”

Reinhold Messner compie 70 anni e nel libro “La vita secondo me” (Corbaccio), attraverso 70 parole chiave, da Vita a Morte, da Fiducia a Destino, racconta se stesso per trasmettere agli altri la propria, straordinaria, esperienza.
Qual è l’odore di casa? Quanta libertà d’azione deve avere un bambino? Paura, egoismo, istinto sono caratteristiche umane necessarie per sopravvivere in certe condizioni? In questo volume Messner scrive il suo personale “lessico” di vita. E con il bagaglio di esperienza di chi ha affrontato la natura nelle sue manifestazioni più pericolose, parla di ambizione e pudore, incubi e vecchiaia, di capacità di reinventarsi daccapo e di accettare la vita che ci aspetta.
 
Ecco un estratto (dedicato alla paura), pubblicato per gentile concessione dell’editore
13. Paura 
Il 20 luglio del 1961, dopo sei ore di arrampicata, io e Günther raggiungemmo la vetta del Sass Rigais. Nonostante avessi scalato quella montagna una ventina di volte, quell’attimo fu davvero speciale. Eravamo saliti lungo la parete nord, che scendeva a picco per 800 metri sotto di noi! Per settimane avevamo dormito in tenda a casa, anche se male, e avevamo passato il tempo a parlare dei pericoli della parete: difficile individuazione della via, ghiaccio e soprattutto caduta di pietre. Era come se la lunga ombra della parete influenzasse il nostro temperamento. Non che da casa avessimo guardato « la nostra parete » con timore, no, ma la preoccupazione cresceva mentre maturavamo la decisione di azzardare l’impresa. Io e Günther, allora io sedicenne e lui quindicenne, non eravamo né estroversi né spericolati. Al contrario, avevamo una tendenza innata all’apprensione, come tutti. La paura è l’altra faccia del coraggio. Entrambi sensibili per natura ai pericoli ignoti, reagivamo rimanendo in silenzio. Non dovevamo parlare delle nostre paure. Dopo tutto, l’uno era in grado di condividere i sentimenti dell’altro. Senza la paura, non ci sarebbe stato alcun coraggio. In famiglia siamo sempre stati molto partecipi dei nostri reciproci sentimenti: abbiamo sempre condiviso paure e messo insieme il coraggio. Quando la si condivide, la paura si dimezza, e quando lo si mette insieme, il coraggio raddoppia. Ciò che ci spingeva a compiere un altro passo decisivo nell’avventura verso l’alto era la curiosità , non il sogno di diventare alpinisti estremi. No, non andavamo a caccia di pericoli a cuor leggero, piuttosto sapevamo che l’alpinismo classico non è possibile senza il pericolo. Tutto dipendeva dal fatto che fossimo in grado o no di controllare le nostre paure e di sfruttare al meglio il nostro potenziale. Può suonare banale: solo osando potevamo accumulare esperienza e quindi coraggio. Era necessario affrontare le nostre paure con le nostre capacità , mettere in campo il nostro coraggio e in gioco la nostra esperienza. Dunque, con la nostra paura potevamo raggiungere un risultato positivo, trovare una nicchia per la nostra passione. Non si trattava tanto di classificare i pericoli in soggettivi e obiettivi quanto di mettere a fuoco le paure che si agitavano nella testa. Trascorremmo la notte in tenda su un prato della malga direttamente sotto la parete nord. Dormimmo poco perché faceva freddo e sobbalzavamo per qualunque rumore che animava la parete alta sopra di noi. La paura cresceva; era come se dentro di noi il nostro bagaglio di esperienze ci permettesse di catalogare e confrontare rapidamente la grandezza dei massi che cadevano, l’altezza da cui cadevano, e il numero dei loro frammenti che precipitavano. Come se già avessimo imparato a muoverci in una situazione di pericolo, una situazione in cui avevamo avuto paura e avessimo agito al contempo. La parete, che attaccammo la mattina successiva, era davvero irta di pericoli: sentivamo lo sgocciolio dell’acqua di disgelo che poteva causare il distacco di massi; la roccia era friabile e attraversavamo canaletti di ghiaccio alla continua di ricerca di cenge e fessure che ci avrebbero consentito un’ascensione lineare. Avevamo memorizzato bene la struttura della parete e ora, vista dal basso, ci sembrava più piana che dalla valle. La possibilità di attingere a una vasta gamma di esempi, che sembravano svilupparsi sulla roccia come una rete e che si erano accumulati nella nostra mente, rappresentava la chiave del successo ed era cruciale per scegliere rapidamente la migliore via di salita. Da solo non sarei salito su una parete così alta. Io e mio fratello però condividevamo la paura e il nostro comune coraggio ci permise di salire in modo prudente. Ciononostante reagivamo a ogni rumore, ci incitavamo e ci chiamavamo a vicenda; d’un tratto scorgemmo una sequenza di risalti che avremmo potuto seguire in direzione obliqua verso l’alto fino a metà della parete. Ogni passo ulteriore aveva un senso che diventava sempre più grande, proprio come l’abisso sotto di noi. C’era solo una regola: sopravvivere! Salivamo col viso rivolto alla roccia, mai di spalle, anche quando eravamo l’uno accanto all’altro per consultarci sul percorso. Se cadeva qualche masso, guardavamo da dove veniva. Che cadesse nella nostra direzione? Se capitava, lo seguivamo con gli occhi finché non ne sentivamo il fischio man mano che si avvicinava e poi lo schivavamo. Solo chi chiude gli occhi davanti al pericolo muore. Vita o morte? No, era un’opzione non contemplata, a differenza di prima quando l’alpinismo era ancora una questione « da eroi ». Noi eravamo salvi, il pericolo dei massi passato, e potevamo continuare nella nostra impresa. Adesso eravamo al centro della parete, molto esposti. Quella sensazione di incertezza – a cui apparteneva la preoccupazione e ancora un po’ di paura – persisteva. Di tanto in tanto sopraggiungeva il flow, una condizione in cui il tempo è rallentato: l’attenzione, la salita e il paesaggio si confondono nella sensazione di essere un tutt’uno con la roccia, e la salita diventa più facile. La percepivamo nei passaggi difficili in tutto il corpo che allora sembrava muoversi leggero. Nella mente era come se lo spirito e i muscoli collaborassero in perfetta armonia, tuttavia il nostro subconscio reagiva molto più velocemente ai pericoli del nostro intelletto. Come se l’uomo in situazioni di massima esposizione avesse accumulato esperienze che non aveva ancora neanche fatto. Le reazioni a quelle esperienze venivano da sé , senza che volessi. Giungemmo in cima senza inconvenienti, annotammo i nostri nomi nel libro di vetta e aggiungemmo la frase: « lungo la parete nord ». E non avevamo nemmeno avuto tanta paura! Sotto di noi, si allungava un precipizio di 1000 metri che terminava con il prato della malga Pradel, dove avevamo trascorso la notte. Era come se stessimo scrutando le fauci di gigantesche rovine, uno spettacolo da mozzare il fiato, tanto potente era l’effetto provocato da uno sguardo lanciato alla storia stessa della Terra. Rischia grosso solo chi ha paura? A quanto pare sì. La prudenza è insita in noi, influenza tutta la nostra vita. In alcune situazioni essa è persino determinante per la sopravvivenza. Viceversa gli alpinisti che non conoscono la paura non vivono a lungo. Quando è folle, la paura ci paralizza. Ci rende impotenti. Tuttavia il pericolo affrontato a piccoli passi acuisce la paura e allena al contempo i sensi. In caso di grandi pericoli è di cruciale importanza reagire più velocemente di quanto possa la ragione. La paura è una caratteristica fondamentale dell’uomo in azione, non solo dell’alpinista. Dobbiamo ammetterlo. Essa ha salvato più vite di tutti gli uomini del soccorso alpino di tutti i tempi messi insieme. Se non avesse avuto paura, l’umanità si sarebbe estinta già da tempo, molto prima che l’alpinismo potesse diventare una moda come manifestazione di decadenza in un mondo completamente basato sulla sicurezza. La paura avrebbe dovuto essere bandita dall’evoluzione del genere umano? No. Al contrario: deve essere sempre possibile sperimentare il pericolo, affinché gli uomini paurosi, che hanno trovato la loro strada, possano compiere grandi imprese. La nostra personalità si sviluppa anzitutto tra paura e creatività , mai su un terreno sicuro. Chi ha imparato a risolvere problemi è in grado di valutare quando una cosa va bene. E niente ostacola più una persona di successo del pensare che una meta sia facilmente raggiungibile. Ci sono tante situazioni di emergenza e ci sono comunità nate in situazioni di emergenza che possono insegnarci a fare i conti con la paura. Dopo tutto, l’emergenza insegna ad affrontare con prontezza le difficoltà . Ed esporsi volontariamente a situazioni di emergenza può persino regalarci la felicità , quella di aver superato delle difficoltà . Nonostante la paura. O grazie alla paura. La paura ha un’ottima reputazione tra i migliori alpinisti classici. E meno male! Non dobbiamo più nasconderla. E ` la combinazione fra paura e azzardo che ci accompagna lungo la nostra strada fino all’ultimo passo. Sono stati proprio il coraggio di affrontare la paura e la scelta di non vivere come una bandiera esposta al vento che mi hanno spianato la strada. Non ho raggiunto le mie mete personali perché sono particolarmente coraggioso. Quelle mete, spesso messe in dubbio da altri prima ancora che le raggiungessi, le ho raggiunte perché mi ci sono totalmente identificato. Non per una questione di coraggio. Finché io stesso ci avessi creduto, nulla avrebbe potuto distogliermi dal proposito di conquistarle. Quando sono diventato adulto, ho potuto sfruttare le mie esperienze di bambino per realizzare progetti sempre nuovi. Non potevo scalare montagne per tutta la vita. Ho dedicato energia e coraggio alle relazioni culturali, all’arte, alla politica, all’intesa tra i popoli, all’aiuto ai paesi in via di sviluppo come allevatore, autore, ideatore e curatore museale. Alla fine ho unito il mio egoismo al mio coraggio e li ho messi al servizio degli altri, creando forse persino un valore aggiunto per un gruppo non ristretto di « uomini di montagna »! Naturalmente anche a me ha fatto piacere l’apprezzamento per il mio operato. Non per il coraggio, non per il successo, per il comportamento, anche se non ho mai agito per apparire come un modello, ma solo per poter esprimere me stesso. È sempre più difficile trasmettere agli adolescenti il significato dei valori. Al contrario, non è difficile crearli. Per me, vivere in modo da realizzare i miei obiettivi non è mai stato un obbligo. Ma se i bambini vogliono imparare come il successo, la soddisfazione e la realizzazione di nuovi progetti si intreccino con la bellezza delle forme, l’altezza e la profondità , devono sperimentare la vita. L’autocommiserazione tormenta solo coloro che non conoscono le mezze misure, che non sanno ammettere le proprie paure, che non sono in grado di accettare di fallire. E ` necessario allenarsi a sopravvivere. La vita passa presto, e le vacanze in un maneggio sono meglio di niente, perché anche in sella a un cavallo si può credere in se stessi. Ma la nostra autostima non è un voto che ci viene dato in pagella, non è un’eredità , cresce man mano che affrontiamo il pericolo, viene messa in pratica man mano che osiamo nella vita. Allora, più di cinquant’anni fa, di nuovo in tenda dopo essere scesi dalla vetta del Sass Rigais, « la nostra parete » sembrava guardarci in tralice al chiarore della sera con le ombre che ne avvolgevano gli spigoli. Che momento straordinario! L’immagine del nostro stato d’animo! Noi due, con un lavoro di squadra, avevamo conquistato una parete importante! Per noi e per tutti quelli dopo di noi! Da qualche parte cadde una pietra: il rumore durò un attimo che sembrò lungo un giorno interno. Tra la paura e il coraggio si cela la felicità.
(continua in libreria…)

Fotografia header: Reinhold Messner

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