Arriva nelle librerie il nuovo romanzo di David de Juan Marcos, “La migliore delle vite”. Una storia che, partendo da una dolorosa tragedia familiare, racconta di una grande amicizia, di segreti mantenuti e del mistero della maternità. ilLibraio.it ne ha parlato con l’autore, che nelle sue opere dà grande importanza allo stile (“centrare il tono e il ritmo di una storia è la cosa più gratificante”), visto che “tutte le storie sono state già raccontate, le passioni umane sono limitate e i classici le hanno affrontate tutte…” – L’intervista

La migliore delle vite (Harper Collins Italia), il nuovo romanzo di David de Juan Marcos, classe 1980, ha inizio con l’arrivo del protagonista, Nicolàs, a Cambridge: viene dalla Spagna, nel tentativo di lasciarsi alle spalle una dolorosa tragedia familiare, e si ritrova in una cittadina di studenti e biciclette, dove subito avverte qualcosa di inafferrabile, quasi magico, che lo accoglie, come se ci fosse un legame tra lui e la città. È qui che Nicolàs conosce Pierre, tra i viali di alberi e la nebbia, e Pierre gli presenterà Lei.

Lei è danese, ma soprattutto affascinante e misteriosa, in modo quasi inquietante, che rende impossibile starle lontano. I tre giovani si trovano legati da un rapporto profondo, forte delle speranze e delle ferite condivise, ma allo stesso tempo fragile, fatto da segreti mai rivelati, che indeboliscono l’entusiasmo e la fiducia nel futuro che, nonostante tutto, i tre condividono. Tra Cambridge, Amsterdam, Roma e Parigi affioreranno verità indicibili che porteranno Nicolàs, Pierre e Lei verso la scoperta e l’accettazione di se stessi, attraverso il dolore, la perdita e il grande mistero della maternità, tema fondamentale del romanzo.

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Con uno stile rapido e puntuale, fatto di frasi brevi e capitoli veloci, l’autore di origini spagnole, biologo di professione, conduce una narrazione che scorre tuttavia adagio, in un graduale crescendo, soffermandosi su brevi momenti lirici e toccanti, che scavano nel profondo delle relazioni umane e familiari, in un libro che è, in fondo, un inno alla forza della vita e al suo scorrere.

David de Juan Marcos, nel libro ci sono numerose citazioni dirette e riferimenti espliciti alla letteratura angloamericana, ma vi è anche un chiaro rimando al realismo magico di autori latinoamericani come Isabel Allende e Gabriel García Márquez: quali correnti letterarie e quali autori hanno maggiormente influenzato la tua scrittura?
“Molte delle mie storie risultano inverosimili e coprirle di lirismo può portare a un malinteso e a confonderle con uno stile molto simile al realismo magico. Ma lo faccio perché sono convinto che sia possibile solo con la realtà, mentre la finzione ha bisogno di troppe spiegazioni per risultare credibile. Ogni giorno vengo attratto da autori e correnti diversi”.

Dunque da chi si sente influenzato?
“Non posso negare le influenze a cui fai riferimento, è solo che quando scopri il trucco di un mago perdi subito interesse in lui e hai bisogno di farti stimolare da nuovi trucchi. Per questo motivo ciò che inizialmente mi può aver influenzato è ormai così confuso e distante che mi è difficile accettare un solo stile. Con la mia letteratura cerco di sfuggire a logore etichette…”.

Ad esempio?
“‘Non potrai smettere di leggere’, ‘ti acchiappa dalla prima pagina’, ‘romanzo con un ritmo incalzante’, ‘storia di cui non potrai più fare a meno’. Cerco uno stile che duri nel tempo, che si allontani dal successo di una sola opera, dalle mode passeggere e dal ritmo del mercato”.

La descrizione dei suoi personaggi, anche di quelli secondari, è sempre estremamente accurata e dettagliata. Si ispira a persone che conosce? O a fatti realmente accaduti?
“Nelle interviste di solito affermo di essere uno scrittore senza immaginazione e, anche se può sembrare un ossimoro, non c’è niente di più vero. Significa che devo usare le mie esperienze o rubare quelle degli altri, non posso farne a meno. Poi prendo tutte le tessere e formo un nuovo puzzle che racconti cosa voglio trasmettere. Quindi nel romanzo magari c’è qualcosa di me, non lo so, ma è sempre molto distorto, pieno di rumore, di elementi estranei e filtrato da un setaccio che il lettore non è in grado di identificare. Infine tutto viene amalgamato dalla finzione. E sono sicuro che nessun lettore sarebbe in grado di distinguere ciò che è mio da ciò che non lo è. Questo mi dà la tranquillità sufficiente per pubblicare. Così, tutti i personaggi e i fatti si ispirano a persone che ho conosciuto e a storie che ho vissuto o che mi hanno raccontato”.

Ci faccia degli esempi.
“Gennaro fu il mio padrone di casa a Cambridge e descrivo esattamente com’era e come sono avvenuti i fatti, e Pierre è la fusione di due grandi amici. Ho preso tutto dalla realtà eccetto il personaggio femminile, lei è la menzogna che mette in movimento la finzione, perché quando infili una menzogna nella verità, per piccola che sia, è pur sempre una menzogna. D’altro canto, il fatto di giocare con il reale, con l’esperienza vissuta e quella raccontata, rende tutto credibile, anche gli eventi più inverosimili. Se non l’ho visto, se non ci ho creduto, non posso raccontarlo”.

La sua storia nasce in Spagna, ma si snoda tra Cambridge e Amsterdam, tra Roma e Parigi, come in un viaggio in cui i personaggi devono trovare loro stessi. Questo ha a che vedere con una sua esperienza?
“Senza dubbio viaggiare è ciò che amo di più. È utile, fa lavorare l’immaginazione, come diceva Céline. Per questa passione ho dovuto rinunciare a opportunità di ogni tipo e privarmi di molte cose. Ma non sono il tipico turista”.

In che senso?
“Mi piace vivere nelle città, memorizzare aneddoti, capire come funzionano, vagare nelle periferie. Lavorare, studiare, conoscere la burocrazia, mettermi nei guai. Impari come funziona una città solo dopo un certo tempo che ci vivi, quando smetti di essere un turista agli occhi degli altri”.

E venendo alle città del romanzo, ognuna ha un ruolo diverso?
“Nel libro ogni città funziona in modo differente e apporta un’atmosfera diversa che va di pari passo con la trama. Tuttavia, sono stato molto attento a rendere le città solo un veicolo che mi aiutasse a narrare gli eventi come volevo. I protagonisti non si muovono per le zone più turistiche o iconiche d’Europa, perché non sono turisti, ma ragazzi che vivono a Cambridge, camminano per i quartieri di Parigi, bevono nei bar poco conosciuti di Roma o che ogni mattina ad Amsterdam salutano il negoziante all’angolo”.

Per il personaggio principale la scomparsa del fratello minore è sia un tragico punto di svolta, sia l’inizio di una nuova vita. Voleva che si trattasse di una fuga o di una spinta nella giusta direzione?
“L’episodio a cui si riferisce è quello che mi ha dato più soddisfazioni, perché ogni lettore ne ha dato la sua interpretazione e ciò è stato molto prezioso per me. La storia, anche se molto dura, è vera, e apre gli occhi del protagonista su nuove realtà: stabilisce una relazione più profonda con il nonno – personaggio che, anche se secondario, è fondamentale – gli serve per uscire da un ambiente oppressivo e soffocante, e a scoprire che l’oblio non arriva mai, perché più cerchiamo di dimenticare più il ricordo sarà presente. Questa scomparsa mi serve per riflettere sull’assenza della persona amata, non esistono regole o tempi per il dolore, ogni persona la vive a modo suo, con il suo ritmo e nessuno può interferire in qualcosa di così intimo”.

Le sue frasi sono quasi sempre brevi, concise, così come i capitoli, corti e veloci anche se il suo romanzo scorre via tranquillo, senza fretta in un lento crescendo. È una scelta consapevole?
“Certo. Il ritmo e lo stile sono la parte che mi interessa di più nel romanzo. Sono convinto – anche se nel libro si dice che avere la certezza di qualcosa è essere sicuro che si sta ignorando qualcos’altro – che tutte le storie siano state già raccontate. Le passioni umane sono limitate e i classici le hanno affrontate tutte. Rimane solo da giocare con la struttura, con le voci, cercare nuovi modi di raccontare che facciano funzionare il meccanismo narrativo e che trasformino una storia già scritta mille volte in qualcosa di nuovo. Nicolás deve chiedere scusa – anche se non ha fatto nulla di male – e quando una persona deve chiedere scusa torna e ritorna sulle proprie motivazioni. Cerca di mostrare all’altro la sua realtà e il suo modo di osservare il mondo. Sapevo che dovevo esplorare nuove possibilità di raccontare una storia. Assumermi dei rischi. Lo stile è ciò che dà senso a questo romanzo. Doveva esserci un ritmo che fosse in sintonia con la narrazione. Il come si racconta che va di pari passo al cosa si racconta. Ma, allo stesso tempo, doveva essere molto semplice e musicale. Per me centrare il tono e il ritmo di una storia è la cosa più gratificante, per questo motivo i miei romanzi sono così stilisticamente diversi tra loro. Quando trovai il modo giusto di raccontare La migliore delle vite seppi che avevo il romanzo, avrei potuto metterci 5, 15 o 100 anni, ma ormai era solo questione di tempo”.

Le librerie hanno un ruolo specifico nella storia? 
“Sì, numerosi passaggi del romanzo si svolgono dentro una libreria. Le librerie hanno un’atmosfera speciale che non esiste da nessun’altra parte. Il tempo sembra scorrere diversamente e si possono passare ore sfogliando i libri con calma. Mi sono sempre considerato un lettore più che uno scrittore e i momenti di maggior soddisfazione li ho vissuti proprio dentro una libreria. Sono fondamentali anche nell’aspetto più materiale del lavoro di scrittore. Credo che i miei romanzi non siano fatti per essere venduti in grandi e asettiche superfici commerciali, ma per essere consigliati da un libraio professionista che sappia trovare il lettore adeguato”.

L’APPUNTAMENTO – L’autore sarà in Italia ospite di Tempo di Libri, la nuova fiera dell’editoria di Milano, il 20 aprile alle 15.30.

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