“La connessione e la reperibilità perpetue non ci rendono più ricchi, più popolari o più simpatici, solo più nevrotici e impazienti (oltre che meno liberi)”. Su ilLibraio.it la scrittrice Simonetta Tassinari parla della nostra dipendenza da social e smartphone

Si ascoltano sempre volentieri i consigli di Oliver Burkeman, il brillante giornalista anglosassone, poco più che quarantenne, titolare di una rubrica su The Guardian dall’ambizioso titolo “Questo editoriale vi cambierà la vita” (proposta in Italia da Internazionale).

Di recente Burkeman ha affrontato un argomento che ci riguarda un po’ tutti: la necessità di disattivare, almeno di tanto in tanto, le notifiche del nostro cellulare o tablet per evitare di sprecare del tempo (anche perché buona parte dei messaggi che ci arrivano sono poco importanti e spesso completamente inutili) e impedire che “un aggeggio che portiamo con noi squilli o ronzi ogni volta che è qualcun altro a deciderlo”.

Tuttavia Burkeman, per primo, confessa di avere qualche difficoltà a mettere in pratica quel che consiglia, benché suggerisca, in fin dei conti, di controllare il flusso delle notifiche senza interromperlo del tutto. Un brusco black-out potrebbe difatti provocare una specie di crisi di astinenza, precipitandoci in quell’ansia che si tenta, per l’appunto, di stemperare attraverso un maggiore dominio del “mezzo”.

Si ammette comunemente, e si sente dire, che l’uso degli smartphone, iPhone e tablet dovrebbe sottostare a delle regole che noi imponiamo, trattandosi solamente di nostre appendici, mentre, all’atto pratico, accade il contrario. Non ce ne separiamo mai; li proteggiamo con custodie sempre più costose; sono la prima cosa che infiliamo in tasca o in borsa al mattino, dopo averli amorosamente nutriti di energia elettrica di notte, ogni notte, perché, con tutto quel che pretendiamo ormai dai nostri cellulari, collegamento internet, video, foto, app a non finire, la lunga ricarica dei vecchi modelli con i quali si telefonava e si mandavano messaggi ( e basta), che durava tre giorni, è ormai uno sbiadito ricordo. Perciò, con tutta la cura con cui li vigiliamo, e il panico nel quale precipitiamo se ci accorgiamo di averli dimenticati a casa (“E come faccio adesso?”), ci sentiamo quasi impotenti quando si tratta di azzittirli, pur riconoscendo di doverlo fare per il nostro bene perché, forse, stiamo esagerando.

Ma come mai facciamo tanta fatica a disattivare le notifiche?

A non stare con l’occhio fisso al nostro account, al nostro profilo sui social, a whatsapp?

Come mai i continui allarmi ci stressano, ma l’idea di farne a meno ci stressa ancora di più, come se pensassimo che chissà che cosa stiamo perdendo mentre siamo disconnessi, anzi, mentre siamo privi soltanto di notifiche rumorose?

La risposta è che, probabilmente, dal punto di vista della dipendenza tecnologica siamo tutti, nativi digitali compresi, ancora in pieno processo evolutivo, e per acquistare, o riacquistare, una nostra libertà e auto-dominio, abbiano ancora bisogno di sviluppare strategie come nel caso dei bambini e degli adolescenti, i quali acquistano solo passo passo una maggiore sicurezza di sé e allargano il proprio spazio tramite errori, ripensamenti, esperienze. Senza le notifiche ci sembra di perdere un mondo, ma non ci rendiamo conto di star perdendo un po’ di noi stessi; ci sembra di tirarci fuori dalla mischia, di rischiare la solitudine, di perdere il nostro posto nei gruppi di cui facciamo parte, che la nostra identità un pochino si sgretoli – tutte paure, a ben vedere, parecchio adolescenziali.

Eppure vale la pena di affrontare questa prova di autocontrollo e di forza emotiva, all’insegna del “ce la posso fare”. Ci si può imporre degli intervalli di disintossicazione; ad esempio, disattivare le notifiche per due ore; il mittente non vi vede e nessuno può pretendere una risposta alla velocità della luce, ci potrebbero essere mille motivi per non aver letto una mail o un messaggio, nessuno vi scoprirà se farete finta di niente per un po’.

Peraltro le mail sono sempre lì, i messaggi sono sempre lì, non svaniscono se non li leggiamo all’istante; se qualcuno avrà bisogno di noi urgentemente, ci raggiungerà comunque. Disconnettersi ogni tanto, anzi zittire le notifiche, significa più vita. La connessione e la reperibilità perpetue non ci rendono più ricchi, più popolari o più simpatici, solo più nevrotici e impazienti (oltre che di sicuro meno liberi). Senza contare che farsi desiderare è sempre stato un ottimo sistema per accendere l’interesse altrui…

Del resto divulgando il nostro “verbo” – tipo: “durante il fine settimana io disattivo le notifiche – gli altri lo metteranno in conto, vi ammireranno e tenteranno perfino di copiarvi.

L’AUTRICE * – Nel 2015 Simonetta Tassinari ha pubblicato La casa di tutte le guerre, romanzo ambientato in Romagna nell’estate 1967. È tornata in libreria, sempre per Corbaccio, con La sorella di Schopenhauer era una escort, un libro per i genitori, per i ragazzi, per chi non è genitore e non è neanche un ragazzo, per i curiosi, per chi vuole sorridere, e leggere, della scuola italiana. Un ritratto divertente della generazione smartphone-munita.
L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Ha scritto sceneggiature radiofoniche, libri di saggistica storico- filosofica e romanzi storici.

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