Scritto prima della vittoria di Trump, “Elegia americana” di J.D. Vance, bestseller negli Usa, racconta da molto vicino, e senza giudizi morali, quell’America profonda di uomini bianchi arrabbiati, impoveriti dalla deindustrializzazione, frustrati da una povertà desolante, in cui dominano valori culturali violenti, misogini e xenofobi

Hillbilly, redneck, white trash: uomini bianchi arrabbiati, impoveriti dalla deindustrializzazione, frustrati da una povertà desolante che i sussidi pubblici non possono lenire ma solo aggravare. È il popolo dei colli rossi, i “rozzi della rust belt”, come li definisce J.D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, il caso editoriale americano dello scorso anno che ha conquistato le classifiche negli Stati Uniti ed è ora disponibile anche in Italia con il titolo Elegia americana (Garzanti).

Quando lo ha scritto J.D. Vance ancora non lo sapeva, ma la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane dello scorso novembre avrebbe segnato il suo destino e quello del suo libro. La geografia del tycoon, popolarissimo proprio negli Stati della rust belt, nelle pianure del Midwest e tra le comunità dei Grandi Appalachi, coincide perfettamente con quella raccontata in Elegia americana, il cui successo, agli occhi dell’opinione pubblica, ha trasformato l’autore in un ricercatissimo esperto di ragioni sociali e politiche.

Trentadue anni, avvocato della ricca Silicon Valley californiana, J.D. Vance rifugge, però, questa definizione. È nato e cresciuto tra la contea povera e spopolata di Jackson, in Kentuky, e la problematica Middletown, in Ohio, logorata oggi dall’eroina che nel 2016 ha causato più vittime della morte per cause naturali. Come lui, i suoi personaggi sono tutti hillbilly, (burini, montanari): emarginati nel loro immobilismo sociale, “maledettamente tosti”, pervasi da valori culturali violenti, misogini e xenofobi ma fortemente solidali al loro interno. Sono gli americani di terza o quarta classe, depositari di un proprio senso dell’onore e alfieri di una giustizia che si fa da sé, a suon di cazzottate e schioppettate. Un cocktail esplosivo che ha riconosciuto in Trump il proprio linguaggio e la propria rabbia verso le élite di New York e Washington, ree di averli dimenticati.

J.D. Vance si guarda bene, però, da qualsiasi analisi politica. Non ha votato Hillary, così come non ha votato Trump. Le responsabilità politiche ed economiche gli interessano meno di quelle sociali e culturali. In questa storia non ci sono buoni o cattivi. C’è solo una banda sgangherata di hillbilly che cercano la propria strada. È il crudo spaccato di una memoria familiare, di un’intima confessione autobiografica. “Per capirmi – scrive Vance – dovete rendervi conto che sono veramente un hillbilly di origine scozzese e irlandese, un autentico uomo delle colline”.

J.D. VanceJ.D. Vance

La dimensione familiare, burrascosa e violenta, è il tratto distintivo del racconto. Una madre instabile, dipendente dai farmaci e dalle droghe. Figure paterne che vanno e che vengono, che scompaiono e che ritornano. Le speranze di una vita normale, per J.D., evaporano presto. Alla fine, però, il riscatto lo attende: non per fato, né per merito personale, ma per la perseveranza di mamaw e papaw, i nonni materni a cui va la dedica in apertura. Due vecchi hillbilly che tengono una pistola carica nella tasca del cappotto o sotto il sedile dell’auto. Sono loro che tengono a bada i mostri del piccolo J.D. e che offrono uno scoglio sicuro a cui aggrapparsi. Sono i veri eroi di un mondo, raccontato senza cinismo o indulgenza, che non prevede eroismi: quello del proletariato bianco d’America.

I ricordi si muovono tra paesaggi senz’anima. Le miniere abbandonate, le roulotte decrepite e gli squallidi fast-food sulle colline del Kentuky; i capannoni e le acciaierie delle pianure dell’Ohio degli anni 50, le strade abbandonate e i relitti urbani della Middletown odierna, fatta di sagome umane con aghi ipodermici conficcati nel braccio o di donne in coma nell’autolavaggio. È il trionfo dell’immobilismo assoluto. “Disoccupazione, povertà, divorzi, droga; la mia patria è un luogo di infelicità. Non c’è da sorprendersi se i proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d’America con la tendenza a colpevolizzare tutti tranne se stessi”.

Dopo quattro anni nei Marines e la laurea a Yale in giurisprudenza, oggi J.D. assapora una nuova vita in California. Eppure non può fare a meno di continuare a guardarsi indietro. È e resta un hillbilly autentico. Per questo ha deciso di tornare in Ohio, per far capire alla sua gente la forza dell’ottimismo, l’insensatezza dell’autoesclusione, la necessità di guardarsi allo specchio e “ammettere che il nostro agire danneggia i nostri figli”. Non c’è orgoglio o vanteria, nessun giudizio morale o esempio da mettere in mostra. Solo riconoscenza e la certezza di non voler dimenticare. “Ripensare adesso a quanto sono stato sull’orlo dell’abisso mi dà i brividi”. Una cosa è chiara a J.D.: se lui è stato fortunato, molti altri, con il giusto aiuto, possono esserlo altrettanto.

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