“Siamo in molti a correre nell’erba alta. Il nostro orizzonte si chiude a pochi centimetri dagli occhi, perché l’erba supera le nostre teste e non vediamo cosa c’è oltre…”. La riflessione di Michele Luzzatto, ispirata dal saggio “Breve storia di chiunque sia mai nato” di Adam Rutherford

Siamo in molti a correre nell’erba alta. Il nostro orizzonte si chiude a pochi centimetri dagli occhi, perché l’erba supera le nostre teste e non vediamo cosa c’è oltre. Dietro di noi sentiamo fruscii e brontolii di bestie feroci e quindi corriamo all’impazzata, col cuore in gola, nella direzione opposta, ma non vediamo dove andiamo. Per la verità non vediamo neppure le bestie che ci rincorrono; anzi, non sappiamo neppure con certezza se si tratti di bestie o di qualcos’altro, ma per lo più non ci fidiamo a restare lì e verificare. Qualcuno l’ha fatto, si dice, e non è tornato a raccontarlo, così preferiamo correre verso una direzione qualunque, sperando che il demonio non ci fiuti, non ci senta, non ci salti addosso spuntando dal nulla dietro l’erba che ci circonda.

erba alta

Di tanto in tanto incappiamo nella traccia fatta da un altro corridore, un altro come noi che corre forte, e siccome l’erba abbattuta dai suoi passi ci permette di vedere un po’ più in là, e vediamo che oltre non c’è pericolo, seguiamo quella traccia correndo più veloce che possiamo. Talvolta, però, la traccia si ferma, perché chi l’ha creata è stato divorato, e lo vediamo lì, per terra, al termine della sua scia, in un lago di sangue, e di fronte, ancora, un muro d’erba. È stata una pessima idea seguirlo; la bestia dev’essere vicina, forse sazia, forse non ancora. Se siamo fortunati ci apriamo un varco tra gli steli e riprendiamo a correre, con l’erba in faccia; se non lo siamo non scriviamo questa storia.

Non abbiamo una direzione di fuga, perché non sappiamo dove stiamo andando. Neppure sappiamo da dove veniamo. In tutta quell’erba abbiamo perso da tempo l’orientamento, e andare avanti o indietro per noi cambia poco. Non siamo neppure più sicuri di sentire i ruggiti dei demoni, o i loro passi, o i loro movimenti fruscianti tra gli sterpi, solo corriamo, verso dove non si sa, senza senso, senza direzione. Molti cadono. Non è che lo sappiamo, lo intuiamo appena. Quando siamo partiti ci sembrava di essere in molti, e tutti insieme, ora sembra che le voci si siano fatte più distanti, quelle delle bestie e quelle dei nostri che scappano col cuore in gola, in cerca di una via di fuga, senza che ci sia neppure una via. Sta di fatto che passo dopo passo abbiamo divaricato migliaia di strade nella pianura, anche se molte di queste, la maggior parte sembrerebbe, sono interrotte da un lago di sangue, dai resti di un pasto, dai poveri resti di uno di noi.

La terra sotto i miei piedi ora si fa più dura, in salita. Continuo a non vedere a un palmo dal naso, ma forse non ho più attorno quei rumori angosciosi, e poi tutt’a un tratto abbatto col piede quello che si dimostra essere l’ultimo diaframma d’erba, l’ultima fila di steli, e mi trovo all’aperto a spaziare liberamente con la vista, davanti a me una radura, nella radura una casa, nella casa la salvezza. Mi siedo nel salotto della casa e rinarro la storia per provare a darle un senso.

Nella casa, poco a poco, arrivano gli altri. Non tutti, qualcuno. Trafelati come me, anche loro si siedono a rinarrare la storia e tutti insieme ci raccontiamo una ricostruzione comune, con lo stesso punto di partenza, lo stesso punto d’arrivo, la stessa casa, la stessa salvezza. Dovevamo essere molti di più all’inizio, una moltitudine, un’infinità, e qui siamo in pochi, ma siamo tutti assieme al sicuro ed è già qualcosa.

Ognuno racconta. Veniamo da est, veniamo da ovest; abbiamo visto quattro scie, nove scie, dodici, le abbiamo attraversate, o le abbiamo seguite, abbiamo visto le carogne di sette di noi, di due, di sedici, abbiamo udito tre grida, qualcuna di più, abbiamo incontrato un demonio, alcuni ne hanno visti molti, lo abbiamo colto mentre attraversava una scia, abbiamo notato frusciare gli sterpi, sentito i ruggiti, le grida strazianti di un compagno braccato.

Ci confrontiamo, ricostruiamo, studiamo a ritroso le mosse di ognuno, noi sopravvissuti. Abbiamo tempo ora che siamo ben chiusi dietro l’uscio di casa e così costruiamo una mappa, una mappa che si accordi con i ricordi di tutti, che coincida col racconto di ognuno di noi. Sul tavolo di legno abbiamo dispiegato una gran foglio di carta e tutti intorno, puntando col dito, tracciamo i tracciati. Io sono scappato di là, lui ha girato a sinistra, l’altro ha incrociato la scia di qualcuno, era la tua?, da dove venivi?, da là, certo, e hai visto anche tu il corpo per terra?, no, non l’hai visto, dunque non eri tu, era un altro, o forse era un’altra traccia, o chi l’ha solcata non è arrivato alla casa.

Pezzo dopo pezzo disegniamo una storia comune. In realtà solo una parte della storia, quella di quanti sono giunti alla casa. Di quelli caduti nessuno può dire. Se i loro corpi non sono stati visti da qualcuno che si è salvato è come se non fossero esistiti.

Alla fine abbiamo una buona mappa. Una mappa con la visuale dall’alto, più alta dell’erba che ci impediva la vista. Dall’alto è tutto più chiaro. Guarda che giri insensati che ho fatto! Ho girato a sinistra, sono tornato indietro, ho incrociato due volte lo stesso cammino e credevo fosse quello di un altro. A quel punto io e te eravamo talmente vicini che forse le nostre strade si sono divaricate perché ognuno di noi ha pensato che il rumore che sentiva fosse quello di una bestia, e invece eri tu! Lo vedi?, in quel punto, dove io ho piegato a destra! Che paura mi hai fatto!

Vista da lontano la mappa ha un suo senso. C’è un punto di partenza e un punto d’arrivo. Sfocando con gli occhi e guardando il foglio intero coperto di segni sembra di vedere un percorso orientato, che parte da un punto preciso e arriva alla casa. Se astrai dalle singole tracce e guardi l’insieme, come il gesto di un pittore che traccia una pennellata sulla tela, puoi intuire un’intenzione, una partenza e un arrivo. D’altra parte il pennello ha migliaia di peli, ma nessuno osserva un quadro ricercando i singoli segni di uno solo di loro. Così ora sappiamo: siamo partiti da lì e siamo giunti fin qui. Ognuno di noi vede quanto erratico fosse il proprio cammino. A saperlo prima, ad avere una visione dall’alto fin dall’inizio, avremmo compiuto gesti diversi. Andando diritti, conoscendo il senso in anticipo, saremmo arrivati in un attimo. Conoscendo la mappa ben pochi di noi sarebbero caduti e ben pochi demoni avrebbero mangiato. Il percorso era breve. Correndo veloci e sapendo dove andare ci saremmo salvati quasi tutti. Bastava sapere la strada.

Ma la strada non c’era. Prima non c’era. La strada l’abbiamo fatta noi, con le nostre scie, con le tracce dell’erba schiacciata dai nostri passi.

Il racconto è una metafora, molto personale, dell’intricata storia della specie umana vista in chiave darwiniana, una chiave che permette di apprezzare l’emergere di un senso (apparente?) a partire da movimenti casuali. È questo che può venire in mente leggendo Breve storia di chiunque sia mai nato di Adam Rutherford, o anche solo osservandone l’immagine della copertina.

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