“Non voglio perdermi un minuto dei miei figli, come in quella canzone che andava di moda una quindicina di anni fa, “I don’t want to close my eyes… I don’t want to miss a thing”, quella che mi è tornata in mente la notte in cui la mia bambina “grande” è nata. Non volevo chiudere occhio, mi pareva che cambiasse ogni attimo e io non volevo perdermi niente. Eppure questa volta ci sono stati momenti in cui mi sono detta di avere bisogno di spazio e di silenzio, bisogno di allontanarmi da loro. So che “colpa” non è la parola giusta da usare, ma so anche che molte delle mamme che leggono capiranno: ci si sente in “colpa”, certe volte”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Evita Greco, in libreria con il romanzo “La luce che resta”

I pesci non vedono l’acqua”. L’ha detto una ragazza – una politologa, o qualcosa del genere – in uno di quei programmi di approfondimento che vanno in onda dopo il tg della sera, prima dell’estate. Per convincere i nostri bambini a farci guardare almeno un programma adulto nell’arco della giornata, abbiamo attaccato la faccia del conduttore del giornale sopra l’orologio in casa. “Quando la lancetta lunga arriva sotto la faccia dello zio del telegiornale, facciamo il gioco del silenzio per 15 minuti”. Non ci riesce mai. Non riusciamo a seguire nessun programma, eppure quella sera quella frase mi ha colpita. “I pesci non vedono l’acqua”, ho continuato a ripetermi per un po’.  Poi l’estate è arrivata, l’asilo ha chiuso, e le giornate – per me che sono una mamma fortunata, una di quelle che lavora dove vuole, una di quelle che fa un lavoro che in tanti non considerano neanche tale – sono diventate una specie di glassa alla quale dar forma. Non sono mai stata brava a dare ritmi ai miei figli. So quanto sia importante per i bambini averne, l’ho letto nei libri che sottolineavo prima che loro nascessero, però poi sono nati e ho capito che, per quanto tu possa essere esperto di ritmo, sono loro a condurre il ballo. Così, nel corso di questa estate in cui sono stata con entrambi quasi 24 ore su 24, sette giorni su sette, ho lasciato che fossero loro a ballare.

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Sono avida del loro tempo, avida del modo in cui cambia il loro sguardo sul mondo. Non voglio perdermi un minuto di loro, come in quella canzone che andava di moda una quindicina di anni fa, “I don’t want to close my eyes… I don’t want to miss a thing”, quella che mi è tornata in mente la notte in cui la mia bambina “grande”, Maralita, è nata. Non volevo chiudere occhio, mi pareva che cambiasse ogni attimo e io non volevo perdermi niente. Poi sono venute notti (e anche giorni) in cui invece non avrei voluto altro che poter dormire, quelle dopo le quali ho imparato la netta differenza che esiste tra il dormire poco e il non dormire affatto. Tuttavia questo è rimasto: è rimasto il fatto che non voglio perdermi nulla di loro. Ho sempre vissuto l’estate come una malattia, una malattia bellissima che, qualunque cosa io faccia, mi fa venire la malinconia per quello che non ho fatto. Adesso l’estate è diventata la stagione che, molto più delle altre, mi restituisce i miei figli cambiati, cresciuti. Eppure questa volta ci sono stati momenti in cui mi sono detta di avere bisogno di spazio e di silenzio, bisogno di allontanarmi da loro. Ho la fortuna di avere mia mamma che può aiutarmi e allora glieli ho lasciati, in alcuni casi per qualche minuto, in altri per un intero pomeriggio. Li ho lasciati, ho ascoltato il silenzio, liberato lo sguardo. Poi, ho iniziato a chiedermi cosa farmene delle mie braccia,  di tutta quella attenzione da poter riservare a qualcuno. Capita spesso, a me e Marco (il papà dei bambini) di smaniare per avere quelle ore libere, senza di loro, al punto da guardarci emozionati quando li lasciamo dalla nonna. E insieme, ci prendiamo il silenzio, lo spazio e certe volte prendiamo addirittura la moto. Eppure sempre, ogni volta, arriva quel momento, quello in cui ti accorgi che stai già tornando da loro. Che stai sempre tornando da loro, anche quando ti allontani. E che ogni posto diventa precario, se loro non ci sono. Ci vuole tempo, immagino, per trovare la giusta distanza, per fare bene i conti tra il nostro esserci per loro e con loro, e il nostro esserci solo per noi. So che “colpa” non è la parola giusta da usare, ma so anche che molte delle mamme che leggono capiranno: ci si sente in “colpa”, certe volte. Colpa per quando non ci siamo per loro, colpa per quando non ci siamo per noi. Per un po’ ho pensato che fosse per  il modo che abbiamo di vivere il rapporto con il nostro lavoro, per un altro po’ ho pensato che fosse per il modo che ha la “società” di prendersi cura dei bambini. Leggo i post che le altre mamme condividono. Leggo post in cui si racconta di momenti bellissimi, altri in cui si racconta di quando un bambino si mette a piangere per strada, e tu non sai come calmarlo e la gente ha quel modo di guardarti che ti fa sentire sola. Leggo di mamme chiuse in bagno, magari a piangere, dopo una giornata passata a parare spigoli a un bambino che sta imparando a gattonare, e a cercare risposte a domande di “treenni”. Leggo di mamme che devono uscire di casa di mattina presto, e tornano la sera tardi, e non sanno come fare per vedere almeno un’ora i loro bambini svegli. Leggo di mamme che si fanno domande: non smettiamo mai di farci domande.

Durante questa estate credo di aver sbagliato molto, credo di non aver fatto quasi nulla di quel che dicevano nei libri che leggevo prima di averli davvero, i bambini. Però mi metto sempre alla loro altezza quando parlo con loro. E ho mantenuto fede a quella promessa che avevo fatto, quella di riempirli di bei ricordi. Ormai è settembre, è quasi fresco ed è tutto pieno di cose che iniziano. Così una mattina, mentre li guardavo dormire in un puzzle di braccia e gambe che copriva quasi tutto il lettone, mi è ritornata in mente quella frase: “I pesci non vedono l’acqua”. Ho pensato che, per quante domande io possa farmi, per molto molto tempo ci sarà una risposta certa: io, per loro, sono l’elemento naturale in cui stare, così come loro lo sono per me. Siamo il nostro elemento, il posto giusto in cui stare.

Non sono sicura di averla capita, la frase, ma ho pensato che, calma o agitata che sia, sporca, pulita, giusta o sbagliata, io sono l’acqua dove loro nuotano, e loro la mia. E che in quel mare noi mamme non siamo sole, che non dovremmo mai esserlo, perché – dice un detto – “serve un villaggio per crescere bene un bambino” e ogni mamma deve diventare il villaggio di un’altra finché nessuna sarà più sola.

L’AUTRICE – Evita Greco (Ancona, 1985), prima di scrivere il suo primo romanzo (Il rumore delle cose che iniziano, Rizzoli, 2016), ha fatto mille lavori. Quando era bambina le è stata diagnosticata la dislessia: da allora ha deciso che avrebbe letto tantissimi libri e ne avrebbe scritto almeno uno. La luce che resta (Garzanti) è il suo secondo romanzo: un libro sulla maternità e sull’essere felici, sulle responsabilità e i sogni. Una storia dove il concetto di famiglia si allarga per racchiudere tutto l’amore possibile…

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