“Robothomo” è un romanzo di fantascienza del 1967. Federico Inverni, in libreria con il thriller “Il prigioniero della notte”, su ilLibraio.it spiega perché quella lettura immersiva fatta da bambino ha contribuito a spingerlo, da adulto, a scrivere sotto pseudonimo – La rubrica #lettureindimenticabili

Le coincidenze non esistono. Così insegna la logica causale, corretto? In teoria, avendo scritto un thriller, dovrei abbracciare questo assioma e farne regola imprescindibile.

Eppure…

Eppure la vita sfida di continuo questo assioma.

Il libro che mi ha cambiato la vita è, ho pensato, il primo libro che ho letto. Già, ma qual è?

Mi sono sforzato di ricordarlo in tutti i modi. E sono stato felice di farlo perché, contrariamente a quanto dice Pessoa secondo il quale «scrivere è dimenticare», nel mio caso scrivere ha voluto dire principalmente «ricordare». Il prigioniero della notte è sì un thriller, nato però nell’estate del 2013 attorno a un personaggio in particolare, Lucas, che ha come peculiarità l’abbinamento di acume investigativo e problemi di identità e mnemonici. La memoria, il modo in cui ci permette di essere noi stessi giorno dopo giorno, è una mia particolare ossessione. Per questo, vado volentieri a caccia di ricordi perduti, di frammenti, di schegge, di… coincidenze. Che però non esistono, giusto?

Eppure…

Ho dovuto trovarlo, il libro in questione, per ricordarmene. Ho dovuto tenerlo fra le mani. La prima sensazione è stata proprio questa, la pura impressione tattile che mi ha acceso un lampo nella mente: la netta percezione di avere tra le mani una sorta di scrigno magico, il cui contenuto non si esaurisce affatto nella semplice fisicità dell’inchiostro su carta. Ricordo di aver letto e riletto questo romanzo breve, cercando nelle pieghe fra le pagine altri scampoli di una storia che, ne ero certo, non poteva finire all’ultimo rigo dell’ultima pagina. Ci doveva essere dell’altro, bastava soltanto scovarlo.

L’ho aperto – è ancora in ottime condizioni – e ho letto i paratesti. Non ricordavo nemmeno una parola, neppure il tono generale (sorprendentemente ironico e sopra le righe) della sinossi e della biografia dell’autore. Segno evidente che davo tutto il peso possibile alla storia, quasi fosse indipendente da chi l’aveva generata. Oggi, a distanza di più di trent’anni, non posso fare a meno di pensare che la mia scelta di adottare uno pseudonimo provenga almeno in parte proprio da questa prima lettura immersiva. Si dice che le storie appartengano a chi le legge, ed è un principio a cui credo con tutto me stesso – a differenza di quello riguardante le coincidenze. Che, si è detto, non esistono. Eppure…

Il libro di cui parlo si intitola Robothomo (Mursia, prima edizione 1967), è un romanzo di fantascienza. Come si può intuire dal titolo, è incentrato sulla figura per alcuni versi tragica e frankensteiniana di un robot troppo umano per sottostare alle leggi e regole che lo vorrebbero prigioniero del suo destino. Prigioniero di una notte senz’anima. Così, robothomo, anzi, Robothomo (con la maiuscola, giacché questo è il suo nome), fugge.

Dell’autore, Giordano Pitt, ho scoperto poco in rete, giusto qualche accenno di bibliografia. Eppure, è alla sua fantasia che devo le mie emozioni di bambino di quarta elementare, capace di perdersi fra le pagine di questo romanzo proprio perché narrava l’inesistente, sfidava l’impossibile, ampliava gli orizzonti, insomma: compiva la straordinaria magia che soltanto la letteratura fantastica, e la fiction di genere in senso ampio, può fare. L’incantesimo in virtù del quale i contorni della realtà si smarginano davanti ai tuoi occhi, e dentro di te nasce l’illusione, anzi, la certezza che a questo mondo ci sia di più di quanto l’occhio vede. E la finzione nasce proprio nello spazio insondabile che divide la fredda logica causale dal regno delle coincidenze. Robothomo, ibrido macchina-uomo dotato di anima e sensibilità superiori, è davvero il mio archetipo biografico del personaggio di Lucas? Se lo è, me ne rendo conto soltanto ora.

Certo, c’è sempre la questione delle coincidenze.

Come dicevo, ho iniziato a scrivere Il prigioniero della notte nell’estate del 2013. La copertina di Robothomo, che non ricordavo fino a quando non l’ho ripresa in mano, non riporta soltanto autore e titolo. Ha anche un sottotitolo, che – nel 1967 – dava la misura esatta del futuro di cui l’autore voleva parlare.

Il sottotitolo è questo: Cronache del 2013.

Le coincidenze non esistono, no, certo che no.

Eppure…

LA RUBRICA – Letture impossibili da dimenticare, rivelatrici, appassionanti. Libri che giocano un ruolo importante nelle nostre vite, letti durante l’adolescenza, o da adulti. Romanzi, saggi, raccolte di poesie, classici, anche testi poco conosciuti, in cui ci si è imbattuti a un certo punto dell’esistenza, magari per caso. Letture che, perché no, ci hanno fatto scoprire un’autrice o un autore, di ieri o di oggi.
Ispirandoci a una rubrica estiva del Guardian, A book that changed me, rifacendosi anche al volume curato da Romano Montroni per Longanesi, I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, e dopo il successo dell’iniziativa proposta recentemente sui social da ilLibraio.it, #ilLibroPerMe, in occasione della presentazione della ricerca sul rapporto tra lettura e benessere, abbiamo pensato di proporre a scrittori, saggisti, editori, editor, traduttori, librai, bibliotecari, critici letterari, ma anche a personaggi della cultura, della scienza, dello spettacolo, dell’arte, dell’economia, della scuola, di raccontare un libro a cui sono particolarmente legati. Un’occasione per condividere con altri lettori un momento speciale.

Il prigioniero della notte

Questa volta tocca a Federico Inverni, pseudonimo dietro il quale si nasconde l’autore del thriller d’esordio Il prigioniero della notte (Corbaccio).

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