Dopo il successo di “Volevo solo averti accanto”, vincitore del Premio selezione Bancarella, Ronald Balson torna con un nuovo romanzo, “Ogni cosa è per te” – Su ilLibraio.it un capitolo

Sophie è figlia di un amore proibito. Di un amore impossibile. Di un amore che prova ad avvicinare due religioni diverse, due mondi in guerra, due lingue che non riescono a parlarsi. Perché suo padre è ebreo e sua madre palestinese. Entrambi hanno lottato contro tutto e tutti per restare insieme. Eppure solo la fuga ha permesso loro di non rinunciare a quel legame speciale che li unisce. Sono dovuti scappare negli Stati Uniti per diventare una famiglia. È lì che è nata Sophie. Ma proprio quando credevano di essere al sicuro, tutto cambia: la madre di Sophie muore all’improvviso e il nonno materno della bambina, che non ha mai accettato quel matrimonio, la rapisce per portarla in Palestina.

C’è una persona che deve ritrovarla a ogni costo: suo padre. È pronto a tutto pur di poterla riabbracciare. Anche a mentire. Anche a mettere a rischio la propria vita. Ed è allora che capisce che è un’impresa troppo difficile da affrontare da solo. Inaspettatamente un aiuto arriva da Catherine, che è avvocato, e da Liam, un investigatore privato. Solo loro credono in lui. Solo loro credono che l’amore sia un sentimento più forte dell’odio, della paura, della tradizione che diventa cecità. Un sentimento per cui nessuna sfida è mai tropo grande. Perché il destino sembra scritto, ma a volte ci vuole solo coraggio per cambiarlo, per scrivere una pagina nuova della Storia.

Dopo il successo di Volevo solo averti accanto, vincitore del Premio selezione Bancarella, Ronald Balson torna con un nuovo romanzo, Ogni cosa è per te (Garzanti).

In Italia – L’autore sarà in Italia il 10 giugno al Festival Caffeina (Viterbo), alle ore 18.30, alla Biblioteca Circolo Cittadino e il 14 giugno nelle librerie di Milano dove firmerà le copie del suo libro

Su ilLibraio.it un capitolo, per gentile concessione dell’editore

Fiocchi di neve mista a pioggia, sospinti dai venti gelidi di febbraio, schizzavano le vetrate del terminal internazionale dell’aeroporto O’Hare di Chicago, impedendo la vista ai passeggeri in partenza che cercavano di dare un’occhiata alle piste. Folate intermittenti flettevano i vetri con uno scricchiolio inquietante. Viaggiatori nervosi camminavano avanti e indietro nella zona dei gate, esortando dentro di sé l’impiegata al desk a prendere in mano il microfono e dare inizio alle procedure di imbarco. Dopotutto il volo da Chicago a Rio de Janeiro, dall’inverno all’estate, sarebbe durato più di dodici ore. I mormorii di lamentela serpeggiarono nella sala quando la donna, cinta d’assedio, annunciò l’ennesimo ritardo. Purtroppo non era in grado di addurre altre cause se non «il maltempo». Un uomo alto e magro, con un soprabito sportivo blu, polo bianca e panama color crema, era in piedi vicino al chiosco di Starbucks, una valigetta di pelle in una mano e una tazza di caffè nell’altra. Esaminò pazientemente la folla finché i suoi occhi si posarono su un giovane studente seduto per terra a gambe incrociate, uno zaino color militare accanto a sé. Sulle gambe aveva appoggiato un portatile aperto, collegato a una presa alla parete. L’uomo tirò fuori il cellulare e si avvicinò al ragazzo aggirando la ressa. «Sì, sono il dottor Sommers», disse ad alta voce nel telefono, fermandosi proprio davanti allo studente. «Qual è la sua frequenza cardiaca?… Mmm. Capisco. Dov’è il dottor Goodman? Chi è di turno?» Annuì mentre ascoltava. «L’hanno stabilizzata?» Dopo avere attirato su di sé uno sguardo interrogativo del- lo studente, l’uomo continuò la sua conversazione alzando il volume della voce. «Sono all’O’Hare e sto per imbarcarmi su un aereo… Per il Brasile, santo cielo. Il dottor Withers non è disponibile?» Pausa. Poi con calma, in tono rassegnato: «No, no, capisco perfettamente… Sì, cancellerò il viaggio. Sarò lì tra un’ora». Chiuse la chiamata, scosse la testa e guardò in faccia il giovane curioso. «E tanti saluti al mio viaggio a Rio. È da più di un anno che lo sto organizzando, ma quando la moglie di un deputato ha un infarto tutti i piani saltano.» La spiegazione suscitò una risposta solidale. «Mi dispiace per lei, amico. Immagino che dovrà rimandare a un’altra volta.» Sommers si strinse nelle spalle e fissò i passeggeri che finalmente si stavano mettendo in coda per salire a bordo. «Vuoi viaggiare in prima classe?» Gli porse la sua carta d’imbarco. «Puoi prendere il mio posto. Di certo io non potrò occuparlo, maledizione.» Il giovane scosse la testa. «Non me lo permetteranno. Ho un biglietto in classe turistica.» «Ho comprato questo posto, non vedo perché dovrebbe rimanere vuoto. Abbiamo già passato i controlli della sicurezza e mostrato il passaporto. Gli assistenti di volo non sanno che faccia ho. Prendi il mio biglietto. Quando sali a bordo, di’ che sei John Sommers. Chi si potrebbe accorgere dello scambio?» Il giovane esaminò la carta d’imbarco. Posto 4A. «Pensa che si possa fare? Crede che funzionerà?» «Non vedo perché non dovrebbe. Dai, prendila!» «Be’, al diavolo, perché no?» Il giovane balzò in piedi e prese la carta d’imbarco. «Grazie mille, doc.» Sommers lo osservò mentre esaminava il biglietto e poi si dirigeva verso il finger della classe business. Quindi uscì dal terminal internazionale e fermò un taxi verde e bianco. La targhetta laminata che riportava la licenza del guidatore lo identificava come Delroy Johnson. Sommers posò il cappello, la valigetta e il soprabito sul sedile accanto a sé. «Dove la porto?» chiese il tassista. Sommers fece un bel respiro. «Vorrei andare all’aeroporto di Milwaukee», rispose a bassa voce. Il tassista annuì e ingranò la prima. «Milwaukee Avenue, intende dire», precisò lanciandogli un’occhiata sopra la spalla. «Adesso lo chiamano Chicago Executive Airport. Una volta era il Palwaukee Airport. È a Wheeling, sa? Dista circa un quarto d’ora, ma c’è una maggiorazione della tariffa del cinquanta per cento.» «No, Delroy», disse Sommers mentre il taxi si allontanava dal terminal. «Intendo proprio Milwaukee. La città. Il General Mitchell International Airport.» Johnson rallentò e accostò. «Dice sul serio? Io non vado così lontano. Sono un taxi di Chicago. Merda, amico, lei è all’aeroporto. Potrebbe andarci in aereo.» Sommers si chinò in avanti. «Delroy, voglio solo un bel passaggio comodo fino a Milwaukee. Per me vale cinquecento dollari. Mi ci porti?» «Be’, se la mette così… Lei è matto, ma per cinque bigliettoni si sieda pure comodo e si rilassi, e lasci che a guidare ci pensi Delroy.» Ottanta minuti più tardi il tassista si fermò senza scossoni davanti al Mitchell International. Il suo passeggero, che aveva dormito per quasi tutto il tragitto, gli porse un rotolo di banconote. «Grazie, Delroy. Ti auguro una buona giornata.» «Ehi, grazie a lei, signore», gridò Delroy contando i soldi, ma Sommers era già sparito dentro il terminal. Con la carta d’imbarco in mano, si avviò dritto verso la fila per i controlli della sicurezza. Quando fu il suo turno porse una patente del Kentucky e la carta d’imbarco a un’agente della TSA, l’ente governativo per la sicurezza dei trasporti, che le esaminò e sorrise. «Le auguro un buon volo, signor Wilson», gli disse. Sommers annuì, controllò il tabellone delle partenze e si avviò al suo gate. Il volo per Los Angeles era mezzo vuoto. Lui sistemò con cura la valigetta di pelle nel vano portabagagli sopra i sedili. Conteneva un computer portatile, un portafogli a tre soffietti pieno di carte di credito e di debito, un cambio d’abiti. Quel giorno, a quel bivio della sua strada, era tutto ciò che gli serviva. Prese posto vicino al finestrino e osservò gli assistenti di terra. Centocinquanta chilometri più a sud, nei canyon di mattoni e acciaio del Loop di Chicago, il distretto finanziario della città, un gruppo di uomini d’affari e i loro avvocati erano riuniti per festeggiare la conclusione di un accordo: la Leland Industries aveva acquisito l’attività della Kelsen Manufacturing Company. L’atmosfera era euforica. Lo champagne scorreva a fiumi. Tutte le noiose trattative, le minacce, i maneggi e le finte erano ormai storia passata. L’accordo era concluso. Il clima era leggero. Walter Jenkins, partner direttivo dello studio legale Jenkins & Fairchild, era in piedi vicino alle finestre della sala riunioni con il suo cliente, Victor Kelsen. Jenkins era alto, sui sessantacinque anni, aveva tempie brizzolate e portava abiti eleganti. Kelsen, di qualche anno più giovane, era tarchiato, con un fisico da manovale. Vestito alla buona con un completo da grande magazzino, il suo aspetto dimesso mascherava le ricchezze che aveva ammassato durante la carriera nel mondo degli affari. La bufera di neve del mattino si era placata e il sole al tramonto disegnava lunghe ombre su Federal Plaza. Una metafora visiva, pensò Jenkins: la fine dei giorni della Kelsen Manufacturing. «Be’, Victor, mi sbaglio o stai sorridendo?» disse Jenkins. «Era da un pezzo che non ti vedevo così.» «E perché non dovrei? Ho ottenuto un buon prezzo per la mia azienda e adesso qualche altro cretino dovrà preoccuparsi del mercato degli imballaggi.» Indicò con un gesto un gruppetto di giovani uomini dall’altra parte della stanza, vestiti tutti uguali con giacche a due bottoni di varie gradazioni di grigio carbone. «Ma guardali, Walter. Brindano, ridono e scherzano. Tutti i miei dirigenti d’oro. Tutti compiaciuti di sé stessi perché ricevono dividendi straordinari per la vendita di un’azienda che non hanno contribuito a creare. E ti chiedo: quanto gli dureranno quei soldi? Questi tizi non capiscono. La Leland Industries non ha bisogno di loro e sarà tanto se li terrà fino a Natale. Presto saranno tutti lì a mandare in giro curriculum, con questa nostra economia fiorente, poi…» «Oh, sono persone intelligenti: sono sicuro che cadranno in piedi», osservò Jenkins. «A proposito, stasera porti fuori Helen per festeggiare?» «No. I Deacons giocano contro la Northern e Helen odia il basket. Ma io sono anni che non mi perdo una partita in casa e non ho certo intenzione di cominciare adesso, solo perché ho venduto la mia azienda.» «E guadagnato novantasei milioni di dollari.» Jenkins si allungò per prendere una bottiglia di champagne dal tavolo, poi si offrì di riempire il bicchiere del suo cliente, che però rifiutò con un cenno del capo. «Novantasei lordi, Walter. Ascolta, devo andarmene da qui. Sono stufo di guardare questa gente. Ci ho messo trent’anni per costruire la mia azienda. Col mio sudore. Questi tizi con un master in economia credono di avere contribuito in qualche modo, invece no. Sono quelli come me che hanno tirato su questo paese, non un branco di esperti di finanza con stipendi a sei cifre.» Jenkins fece una smorfia. «Capisco il tuo punto di vista, Victor. Ma non dovrai sopportarli ancora per molto. A che ora è la partita?» Kelsen controllò l’orologio. «Alle sette e mezzo, ma di solito vado con un certo anticipo.» Recuperò il cappotto da un appendiabiti e Jenkins glielo resse mentre lui infilava le maniche. «Passando a cose più importanti, Walter, a che ora mi accrediteranno i soldi domani?» «Riteniamo che il deposito in garanzia del closing verrà erogato alle undici circa. Manderò là Sommers subito domattina. Immagino che sarà presente anche Harrington, no?» «Sarà meglio per lui. Lo pago per questo. È un’altra cosa che non rimpiangerò. Dare un sacco dei miei soldi a un deprimente direttore finanziario.» Jenkins bevve un sorso di champagne. «A proposito del tuo CFO, non ho visto Harrington in tutto il pomeriggio. Non si unirà alla combriccola per cena?» Kelsen alzò le spalle. «Per quel che ne so io, sì. Mi aspettavo che fosse già qui. Non è da lui perdersi un pasto gratis. Ma, dato che hai toccato l’argomento, non ho visto neanche il tuo Sommers.» Accennò una risatina. «Probabilmente sono seduti tutti e due in un bar da qualche parte a discutere di stati patrimoniali e detrazioni dalle tasse.» Jenkins sorrise e diede una pacca sulla spalla a Kelsen. «C’è di mezzo un sacco di lavoro per vendere un’azienda da trecento milioni di dollari, e sono stati loro i responsabili della transazione. Sono sicuro che saranno qui tra poco. Rilassati.» «Mi rilasserò quando verrà erogato il deposito di garanzia e io avrò i miei soldi. Ci vediamo domani alle undici», concluse Kelsen, e se ne andò.

(continua in libreria…)

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