“Davanti alla morte torniamo magicamente tutti e, ipocritamente, uguali”. Mentre in rete si continua a discutere della la foto di Aylan, tre anni, privo di vita sulla spiaggia di Bodrum, su ilLibraio.it interviene Francesca Barra, scrittrice e giornalista: “Che si discuta sulla pubblicazione o meno dello scatto, sulla deontologia e l’etica, difronte a quell’innocente, è forse il fallimento della nostra sensibilità…”

Mi chiedo perché si debba delegare alla morte, e non alla vita, la responsabilità di una rivoluzione culturale, sociale, economica.

La difesa della vita dovrebbe armarci.

La speranza che la foto di Aylan, tre anni, (questo il suo nome secondo i media turchi) privo di vita sulla spiaggia di Bodrum, possa toccare il nervo più scoperto dell’Europa, ovvero l’umanità, è il suo più alto e pubblico fallimento.  E che si discuta sulla pubblicazione o meno dello scatto, sulla deontologia e l’etica, difronte a quell’innocente, è forse il fallimento della nostra sensibilità.

Perché le foto dei profughi siriani, dei padri in lacrime che portano in spalla bambini sfiniti, madri che si sostengono con neonati, mentre oltrepassano fili spinati, fuggendo dal dolore, dalla fame, dalle guerre, non meritano discussioni, le vostre di lacrime, lo spazio sulle vostre bacheche?

Difronte alla morte torniamo magicamente tutti e, ipocritamente, uguali. Scriviamo che quei bambini – morti- sono i nostri figli. Hanno il nostro stesso colore della pelle o poco importa. Improvvisamente dimentichiamo che è il nemico che attaccavi, che non volevi, del quale rifiutavi religione, cultura, tradizioni. Forse perché è il valore della vita che ha perso il suo valore, che ha reso impermeabili. Che ci fa accorgere delle diversità, ci mostra la paura, o peggio, ci fa fare i conti con la miseria umana.

E allora forse, la discussione più onesta è proprio questa. Sul valore di una vita da salvare.  Non dovremmo abituarci alla morte. I corpi riversi sulla spiaggia, o quelli che galleggiano in mezzo al mare, non dovrebbero essere tutti uguali, ma contenere una storia, la loro storia. Solo in questo modo si potrebbe comprendere di che natura sia la sofferenza da cui si fugge. E che molti cercano di contenere, ignorare. Il loro sacrificio dovrebbe servire affinché non ve ne fossero altri. E altri. Così tanti da diventare soltanto numeri. Se una foto pubblicata avesse il potere di cambiare il destino di quel bambino, o di altri innocenti, varrebbe la pena, forse, alzare il velo di pudore con il quale meriterebbero di riposare. Ma non accadrà. Sarà usata da uomini di buon senso per chiedere che il mondo cambi, come ha fatto il direttore Calabresi, che oggi ha deciso di pubblicare in prima pagina la fotografia del bambino. Ma anche da sciacalli per rafforzare le loro posizioni. Tuttavia, in entrambi i casi, quel corpicino sarà usato. E non mi piace. Stenderei un velo di pudore immaginario su di lui. E lo prenderei in braccio. Abbassando l’obiettivo. Qualche volta dobbiamo smettere di condividere. Al massimo, occupatevi di loro quando siete in tempo, quando sono ancora vivi. Le vostre bacheche le vorrei vedere così, piene di segnali di accoglienza. Prive di razzismo, indifferenza.

L’AUTRICE  – Francesca Barra, giornalista, conduttrice e scrittrice, è in libreria con il romanzo Verrà il vento e ti parlerà di me

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