“Il nome del figlio” di Francesca Archibugi manca di quel ritmo impeccabile che una commedia di parola vorrebbe, ed è la stessa rappresentazione dell’italica impasse “ad apparire conservatrice a discapito delle dichiaratissime buone intenzioni amichevolmente corrosive” – La nostra recensione

Non stupisce che la pièce teatrale francese Le prénom, piccolo gioiellino di scrittura drammaturgica trasposto nel film francese omonimo (commedia dal ritmo notevole, capace di mettere insieme alla perfezione ambizioni di critica sociale, recitazione d’eccellenza e grande godibilità della confezione; titolo italiano, insieme furbetto e anodino: Cena tra amici), abbia attratto fatalmente Francesca Archibugi nella sfida della riscrittura. Il nome del figlio nasce dall’idea di ricucinare la cena ‘bobo’ (Bourgeois Bohémien), amara e brillante resa dei conti in punta di forchetta, in una salsa matriciana radical chic sembrava, sulla carta, molto azzeccata. Gli ingredienti sono poi stati scelti con una certa cura. Nell’adattamento, fedele nella struttura e negli snodi narrativi eppure rivisto e reinventato in ogni singolo dettaglio per il trasloco da Parigi a Roma con l’aiuto della penna felice e prolifica di Francesco Piccolo, il quintetto d’attori si trova reincarnato nei corpi da commedia nostrana: alla maturità acquisita di Alessandro Gassmann fa da spalla un Rocco Papaleo credibile e di misura, e se Valeria Golino e Luigi Lo Cascio, colpevole la caratterizzazione dello script, hanno qualche sbavatura machiettistica (nei tic e nei tweet), Michaela Ramazzotti, per quanto un po’ prigioniera sempre della stessa parte (come troppi nostri attori), convince per spontaneità e forza fragile da bella burina finto sciocca.

Eppure c’è qualcosa che non funziona, e non tanto nell’aria di déjà vu costante con la quale il cinema italiano ci obbliga a una geografia dei volti e dei caratteri angusta e ripetitiva, e non solo perché “Benito” rispetto ad “Adolphe” (lì l’alibi letterario era Bejamin Costant, qui è Herman Melville) come pomo della discordia sposta la scorrettezza politica dal piano della tragedia a quello della farsa. Forse, da spettatore italiano, la sensazione particolarmente spiacevole nasce da quel gioco degli specchi e degli stereotipi che, nella versione italiana, funziona in maniera più ravvicinata: è triste assai, e appare davvero un po’ riduttivo, rivedersi nel solito e schematico teatrino destra/sinistra, che sembra a tratti uno spin off del divertente, ma già allora manicheo e caricaturale Ferie d’agosto (lo zampino di Virzì, produttore esecutivo, si sente al di là del baby cameo affettuosamente nepotista del finale). Non solo la società e la politica in Italia sembrano incastrate in dinamiche e parti stantie, ma è la stessa rappresentazione dell’italica impasse ad apparire conservatrice a discapito delle dichiaratissime buone intenzioni amichevolmente corrosive. Così gli elementi di attualità di questa pellicola spesso si riducono a inserti tecnologici un po’ appiccicaticci e telefonati (droni imperversanti, tweet addiction, la battutina su ebay), l’unità di luogo e il ritmo dell’originale francese sono annacquati e guastati con inserti di flashback non sempre fondamentali alla narrazione, e un disordine registico di fondo non aiuta a ritrovare la brillantezza del modello d’ispirazione.

Il film dunque, nonostante l’impegno di scrittura, non trova davvero soluzioni originali e manca di quel ritmo impeccabile che una commedia di parola vorrebbe. Fa eccezione l’intermezzo musicale danzante e giocoso sulle note di Lucio Dalla (Telefonami tra vent’anni), che però, consumato in forma di campagna promozionale, dentro il film risulta meno toccante e più corrivo che come spot a sé stante.

Intendiamoci, conoscere già i twist del racconto magistralmente architettati e messi in scena dalla versione francese e un certa propensione esterofila possono contribuire a una certa dose di pregiudizio, ma l’esperienza complessiva lascia la sensazione di una bella occasione mancata. Da rivedere tra vent’anni?

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