“Non sono toccato né da una particolare vocazione, né sento la scrittura come una missione. È qualcosa che fino a quando sarò vivo farò perché è la mia forma di libertà…”. Lunga intervista de ilLibraio.it a Luciano Funetta, autore di uno degli esordi più sorprendenti degli ultimi mesi (tra i 12 “semi-finalisti” al premio Strega): “Non credo che ‘Dalle Rovine’ sia un libro sperimentale, né a livello stilistico né a livello di tematiche, tematiche che sono state già esplorate in duecento anni di narrativa moderna…”. L’autore, 30enne, è cresciuto nella libreria dei genitori (“bisogna essere coraggiosi anche nell’essere librai”), e ha inizia a scrivere da adolescente. Ma ha dovuto subire molti rifiuti prima di veder pubblicato il suo (complesso) romanzo: “Non ci ho mai tenuto a presentare il mio libro come qualcosa di maledetto, né come una vittima dell’editoria”

Rettilofilia, pornografia, figure oscure che perseguono l’ambizione di sublimare le proprie vite alla deriva in un’ultima, sanguinaria opera d’arte. Il tutto raccontato da un “noi” fatto di presenze ipnotiche, «larve nelle tenebre» di un set insolito e seducente, che parte da una fantomatica città chiamata Fortezza. Il collezionista di serpenti, Rivera, i produttori cinematografici Traum e Birmania e l’enigmatico argentino, Alexander Tapia, autore del copione da cui trae spunto il libro sono i protagonisti di Dalle Rovine (Tunué, 2015), il romanzo d’esordio del 30enne romano, Luciano Funetta, tra i dodici finalisti della 70esima edizione del Premio Strega. La casa editrice di Latina, specializzata nelle graphic novel, da un paio d’anni ha avviato una collana di narrativa diretta dallo scrittore Vanni Santoni che ha già ottenuto numerosi riconoscimenti.

Cresciuto nella libreria dei genitori, Funetta inizia a scrivere da adolescente perché sente che questa è la sua forma di libertà, come rivela in questa intervista a ilLibraio.it. Ha le idee chiare su editoria e letteratura e vista l’infanzia tra gli scaffali e la sua recente esperienza lavorativa, non ha esitazione nell’affermare: “Bisogna essere coraggiosi anche nell’essere librai”.

Come ci si sente ad essere tra i dodici finalisti del Premio Strega con il proprio romanzo d’esordio?
“La candidatura era qualcosa che la casa editrice aveva intenzione di provare. L’obiettivo iniziale era quello di entrare nei primi 27 selezionati. Siamo stati molto fortunati a incontrare Luca Ricci e Lorenzo Pavolini che si sono subito innamorati del libro per motivi diversi. Quello che è stato totalmente inaspettato è stato entrare nei primi dodici. La casa editrice era già entrata nei 27 l’anno scorso con Iacopo Barison (Stalin + Bianca, ndr) ma entrare nei dodici con una collana di narrativa aperta da un anno e mezzo e che contava al momento della candidatura solo sei titoli, era insperato”.

Pensa che la scelta di alcune case editrici di non presentarsi vi abbia favorito?
“Le circostanze di quest’anno dello Strega ci hanno favorito sicuramente: le decisioni di Einaudi e Feltrinelli hanno permesso a tante case editrici piccole di avanzare. Questa faccenda dello Strega ha un valore molto alto per il lavoro fatto dalla casa editrice e da Leonardo Luccone, il mio agente, che mi segue da sette anni. Quando ho scritto questo libro non l’ho fatto per partecipare o per vincere dei premi. Anzi, penso sia un libro che non si presti ad essere premiato”.

Nemmeno per la sua carica di novità?
“Non credo che Dalle Rovine sia un libro sperimentale, né a livello stilistico né a livello di tematiche, tematiche che sono state già esplorate in duecento anni di narrativa moderna. Il fatto che in esergo ci sia la citazione di un libro uscito quasi cento anni fa e che in un’altra forma e con un’altra ambientazione si occupa di temi affini, lo dimostra. Lo dimostra sulla faccia della Terra l’esistenza dei libri di Dostojevski, lo rappresentano tanti scrittori italiani, anche contemporanei”.

E tra loro c’è un altro giovane scrittore romano, Paolo Sortino, che in Liberal (il Saggiatore, 2015) ha esplorato le potenzialità narrative e metaforiche del cinema porno.
“Non so esattamente quali siano state le motivazioni che abbiano spinto Sortino a scrivere il suo libro. Dal mio punto di vista ho guardato all’idea della pornografia come a qualcosa di poco esplorato, che tutti quanti conosciamo, che tutti quanti frequentiamo e che, oltre ad essere un linguaggio millenario, nella modernità ha assunto un ruolo sempre più importante, soprattutto negli ultimi 50 anni. Eppure si sa molto poco, in particolare a livello di cinematografia. Io ho preso questa superficie e ho immaginato che sotto ci fosse un abisso molto profondo e sconosciuto e mi è venuto in mente di esplorarlo con una elaborazione letteraria. Il mondo della pornografia che descrivo io è totalmente inventato, ci sono pochi riferimenti alla realtà della storia del cinema porno. Sebbene alcuni personaggi che ho messo in scena possano essere plausibili, sono anche delle esagerazioni, delle figure con un valore più ampio, quasi aristocratico”.

Nell’introduzione al copione di Dalle Rovine, il personaggio di Alexandre Tapia scrive: “La Storia è un corpo a cui siamo aggrappati con le unghie e a cui laceriamo la carne. Che bello il cinema, che inghiotte gli uomini, larve nelle tenebre”. E prima aveva dichiarato: “Bisogna cambiare registro. Tornare alle origini, a quando l’arte e la fame erano la stessa cosa”.
“Sì, è il modo di Tapia, ma anche di Traum e Birmania di dare forma alla loro idea del mondo. E lo dicono chiaramente di voler portare avanti questa idea, pur essendo persone alla fine della propria vita e parabola artistica. I due produttori sono in una fase crepuscolare della propria esistenza, stanno disgregandosi, sentono che il loro apporto si sta esaurendo e vorrebbero invece renderlo perpetuo, lasciare un segno che continui a essere fondamentale nel mondo della pornografia e nel mondo in generale”.

In una recente intervista a riguardo ha affermato: «Una delle domande che il libro si pone è se l’arte possa considerarsi una forma di tortura e se la tortura, come prodotto dell’ingegno, possa essere chiamata arte».
“Sì, ed entrano in campo tantissimi riferimenti alla storia recente del Sudamerica e dell’Argentina. Parlo di posti dove la tortura è diventata uno strumento di potere. La tortura non serve per ottenere informazioni, o meglio, non in quei casi. Lì si cercava una forma di controllo sulla popolazione, su tutti quelli che non venivano torturati. Era un gesto per incutere terrore attraverso le sparizioni e i cadaveri che rispuntavano all’improvviso dal mare, corpi lanciati dagli aerei. Era un sistema molto complesso di appropriazione delle vite delle persone tramite la violenza. Il fatto che esistesse un artificio così sottile e oliato, fa avvicinare moltissimo quella pratica a un’opera d’ingegno, sebbene in maniera mostruosa. L’arte non è necessariamente un’espressione del bene nella storia dell’umanità”.

Questo è il suo primo romanzo, come è stato l’incontro con Tunué? È vero che stava rinunciando alla pubblicazione?
“Ci sono stati dei rifiuti, ma i numeri su quelli effettivi sono sfuggiti di mano. Quando attorno a un libro si crea un chiacchiericcio, che poco ha a che fare con il libro, ma che rientra perfettamente in quella che è l’editoria, si perde il controllo. Io non ci ho mai tenuto a presentare il mio libro come qualcosa di maledetto, né come una vittima dell’editoria. Penso che l’editoria sia qualcosa che molto spesso non incrocia la letteratura. Credo che editoria e letteratura siano due cose diverse, funzionali l’una all’altra, ma che possono stare tranquillamente l’una senza l’altra. L’incontro con Tunuè è stato provvidenziale perché arrivato in un momento in cui avevo deciso di non fare altri tentativi di pubblicazione. Quello che ti porta a pubblicare è la vanità, e visto che la mia vanità si era esaurita mi ero messo a scrivere altro. Poi parlando con Vanni Santoni e ascoltando le sue intenzioni mi sono convinto. Ed è stata una fortuna”.

È per questo che si è definito uno scrittore per caso?
“I miei genitori avevano una libreria in cui io ho vissuto per tutta l’infanzia. Quello che di sicuro non è nato per caso è stato l’amore per la lettura. Essendo circondato dai libri dovevo rendermi conto se quel mondo mi appassionava oppure no. Fortunatamente mi ha appassionato e mi ha segnato profondamente. Per la scrittura è stato diverso. Attorno ai 15 anni ho capito che volevo trovare la forza per scrivere qualcosa di mio semplicemente perché mi piaceva. Perché scrivere mi rende felice, mi fa sentire libero, mi dà il potere di inventare storie, di esplorare degli universi, di parlare con dei personaggi che nella vita quotidiana non potrei incontrare. Io non sono toccato né da una particolare vocazione, né sento la scrittura come una missione. È qualcosa che fino a quando sarò vivo farò perché è la mia forma di libertà”.

A proposito del “noi” narrante: ci sono numerose ipotesi, ma lei non si è sbilanciato. Da dove nasce l’utilizzo della prima persona plurale?
“È stato un istinto nel momento in cui ho iniziato a scrivere le prime pagine che dovevano essere un racconto e poi si sono moltiplicate e mi hanno convinto a portare avanti qualcosa di più lungo. Non avevo nessun progetto per un romanzo anche perché ne avevo appena scritto un altro che non aveva avuto fortuna. Quel racconto tuttavia è deflagrato e il ‘noi’ è stato una manifestazione dell’istinto. Andando avanti il romanzo richiede tantissima concertazione e progettazione soprattutto quando si superano le prime 50 pagine. In quel momento ho dovuto decidere di andare avanti ad ascoltare le voci di queste presenze, di questi fantasmi che seguono la vita del protagonista e che la raccontano a me affinché io selezioni le parole. L’idea di raccontare la storia di uomini terminali, farla arrivare ai lettori attraverso la voce filtrata di questi fantasmi – alcuni dei quali popolano quella città di fantasmi che è l’ambientazione del romanzo (Fortezza, ndr) – la trovavo perturbante e molto forte”.

E le fanno piacere le varie interpretazioni e i riferimenti freudiani attribuiti ai personaggi e alla storia?
“Sono felicissimo ed entusiasta delle decine di interpretazioni che sono scaturite, anche perché la mia è una storia incompiuta. Dare un finale a questa storia sarebbe stato consolatorio e io non volevo. Tutti i finali sono consolatori, anche quelli terribili. Per tutti i personaggi la consolazione esiste nel momento della fine. L’unico personaggio che non finisce è Rivera. Perché avrei dovuto dare una consolazione a chi legge dicendogli come io ho intravisto la fine di Rivera? A un certo punto ho lasciato andare Rivera alla deriva, ho abbandonato la barca su cui stava e l’ho visto allontanarsi. Per me questo è stato il finale della storia e così l’ho voluto riportare. Sarebbe stato molto più artificioso per me inventare un finale a tavolino. Il fatto che il lettore abbia il potere di interpretare queste cose e di decifrare i tanti indizi microscopici di cui ho disseminato il libro è qualcosa di fondamentale perché io non esisto più nel momento in cui il lettore legge il libro. È il lettore che diventa giudice, arbitro e anche vittima di quella storia”.

Il lettore percepisce questa opportunità di impadronirsi della storia. Una storia che almeno all’inizio può apparire molto lontana: il protagonista, Rivera, vive in simbiosi con 30 serpenti e decide di accostarsi al mondo della pornografia. Eppure fin da subito si ha la sensazione di entrare nella sua mente.
“Rivera è un martire, nel senso greco di testimone, è colui che osserva e che a un certo punto entra in un mondo che gli è sconosciuto, ma non tira mai indietro lo sguardo. Ed è un po’ anche quello che spero sia il ruolo del lettore in questo romanzo. Il ruolo di testimone e di esploratore. Le caratteristiche che lo portano ad essere così sono prima di tutto la sua purezza. Il fatto che lui sia incontaminato: è un uomo che si è allontanato dai suoi simili, da un’umanità che non riconosce, che ha scelto un esilio e si è avvicinato ai serpenti, le creature che sente a lui più affini. Questo gli conferisce purezza, coraggio e quell’ingenuità che lo porta a non frenare questa esplorazione. Rivera è soprattutto un individuo che non giudica mai le persone che gli sono di fronte e le storie che gli vengono raccontate. Perché il giudizio molto spesso è qualcosa che ci fa distogliere lo sguardo, è una forma di difesa, di pudore. Rivera non ce l’ha, non ha uno sguardo morale. È un uomo che non giudica non per scelta, ma per istinto. Per questo è colui che più di tutti può vedere ed ascoltare quello che i personaggi hanno da dirgli, il solo e unico che può avventurarsi in quella foresta, in quella boscaglia in cui lo aspetta il suo specchio, che è Tapia”.

Come è stato gestito l’aspetto grafico del libro, vista la storia di Tunué?
“La grafica è molto utile all’identificazione immediata della collana poiché non esiste niente di simile alle copertine di Tunué nella loro semplicità. Ho scoperto da poco che inizialmente Vanni Santoni non voleva inserire immagini né alcun segno di tipo iconografico per la collana di romanzi per garantire massimo protagonismo al testo. Il fatto che quei piccoli simboli, scelti da noi autori con la supervisione della casa editrice e dello studio grafico di Venezia che ci supporta, è molto utile perché ogni romanzo diventa anche il simbolo che si porta dietro. Nel mio caso forse ci troviamo di fronte all’icona più scontata che ci si potrebbe aspettare. Il fatto che io abbia chiesto esplicitamente di non usare un semplice serpente, ma il suo scheletro ha un valore di rimando al titolo e alla memoria fossile di cui si parla nel libro”.

Di recente ha lavorato per una libreria. Dopo l’infanzia trascorsa tra gli scaffali dei suoi genitori e gli studi a Bologna dove frequentava la Libreria delle Moline di Grigorys Kapsomenos, ad oggi qual è la sua libreria ideale?
“La mia libreria ideale sarebbe quella in cui si trovano libri che non è possibile recuperare da nessun’altra parte. Mi rendo conto che è una fantasticheria impossibile, ma c’è un fondo di verità e sta nel fatto che oggi il libraio deve avere il coraggio della proposta, altrimenti non può andare avanti con il suo mestiere. Bisogna sempre pensare di trovarsi di fronte, quando qualcuno chiede un consiglio su un libro, una persona che potrebbe vedere la propria vita mutata da quello che leggerà e quindi non ci si può permettere di consigliare qualcosa con leggerezza. Bisogna essere coraggiosi anche nell’essere librai”.


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