Alfie è un gatto molto speciale: sa indovinare i desideri nascosti degli umani. E cambierà le loro vite, se glielo permetteranno… Il romanzo d’esordio di una scrittrice inglese diventato caso editoriale grazie al passaparola

Arriva in libreria per Garzanti Il gatto che aggiustava i cuori, romanzo d’esordio di Rachel Wells e caso editoriale in Inghilterra grazie al passaparola. Il protagonista è un gatto, Alfie, e, come ogni gatto, adora passare le sue giornate sonnecchiando sul divano davanti al camino: un po’ di carezze, un po’ di fusa rumorose ed è felice. Ma all’improvviso è costretto a lasciare la casa in cui è cresciuto e si ritrova solo e sperduto per le strade di Londra. Tutto cambia quando arriva in Edgar Road, una via piena di verde e di bellissime villette a schiera. Alfie capisce subito che solamente lì può sentirsi di nuovo a casa, solo lì può trovare una nuova famiglia. Eppure gli abitanti del quartiere non sono pronti ad accoglierlo: concentrati sui loro problemi, non hanno tempo per occuparsi di lui. Fino a quando scoprono che non è un gatto come gli altri. Ha un dono speciale: è capace di riconoscere i desideri più nascosti. Alfie sa bene che Claire è ancora in cerca di amore dopo essere stata lasciata dal fidanzato; che Jonathan, cinico e disincantato, in realtà si sente troppo solo, e che Polly vorrebbe solo qualcuno in grado di proteggerla. Giorno dopo giorno, si accorgono di quanto abbiano bisogno di lui. Il loro nuovo amico è pronto ad aiutarli, a provare a cambiare le loro vite, a riaccendere le loro speranze. Perché Alfie è in grado di aggiustare quello che il destino a volte ha rotto e ad ascoltare la melodia silenziosa dei loro cuori.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, ne pubblichiamo un estratto:

«Non ci vorrà molto per sgombrare la casa», ha detto Linda.
«Sei troppo ottimista. Guarda quante cianfrusaglie ha accumulato tua madre», ha replicato Jeremy.
«Sei ingiusto. Tra le sue porcellane potrebbe esserci un pezzo di valore, non si può mai sapere.»

Fingevo di dormire ma avevo le orecchie dritte e ascoltavo quello che dicevano, cercando di impedire alla coda di muoversi a scatti per l’agitazione. Ero raggomitolato sulla poltrona preferita di Margaret guardando la figlia e il genero parlare di cosa sarebbe successo, del mio futuro. Gli ultimi due giorni mi avevano disorientato terribilmente, soprattutto perché non comprendevo fino in fondo che cosa fosse accaduto. Comunque, mentre cercavo di non mettermi a piangere, ho capito benissimo che la vita non sarebbe stata più la stessa.

«Saresti fortunata. In ogni caso, dobbiamo chiamare una ditta di sgombero. Dio solo sa se abbiamo bisogno della sua roba!» Ho cercato di dare un’occhiata di nascosto senza che se ne accorgessero. Jeremy era alto, ingrigito e irascibile. Non mi era mai piaciuto ma la donna, Linda, era sempre stata carina con me.
«Che ne facciamo di Alfie?»

Ho arruffato il pelo. Era quello che stavo aspettando. Che fine avrei fatto?

«Dobbiamo portarlo al gattile, immagino.»

Ho sentito drizzarsi il pelo.

«Al gattile? Sembra una vera crudeltà sbarazzarsi così di lui.»

Magari avessi potuto dire che ero d’accordo con lei; era peggio di una crudeltà!

«Sai che non possiamo portarlo a casa. Abbiamo due cani, tesoro. Un gatto non fa per noi.»

Ero sconsolato. Non che volessi andare con loro, ma non avevo nessunissima intenzione di finire al gattile.

«Gattile.» Il mio corpo rabbrividiva alla sola parola; che termine inadeguato per definire quello che noi della comunità felina consideriamo «il braccio della morte». Ci sarà magari qualche gatto fortunato che ha trovato un nuovo padrone, ma poi chi te lo dice che cosa gli è successo? Chi ti garantisce che la famiglia del nuovo padrone lo tratti bene? I gatti di mia conoscenza erano unanimi nel pensare che il gattile fosse un postaccio. E una volta lì, sapevamo perfettamente che su chi non trova un nuovo padrone incombe la sentenza di morte.

Anche se mi consideravo un bel gatto, dotato di un certo fascino, non avevo alcuna intenzione di correre quel rischio.

«Lo so che hai ragione, i cani se lo mangerebbero vivo. Al giorno d’oggi, poi, il personale dei gattili è piuttosto in gamba e potrebbe trovare presto una nuova casa.» Si è fermata come se stesse ancora rimuginando. «No, va fatto. Domattina chiamerò il gattile e la ditta degli sgomberi. Poi, penso che potremo far venire un agente immobiliare.» Sembrava più sicura di sé e sapevo che il mio destino era segnato, a meno che non prendessi provvedimenti.

Mi sono messo le zampe sulle orecchie. La testolina mi girava come una trottola. Nelle ultime due settimane la mia vita era stata scombussolata, io ero triste, solo e con il cuore spezzato, e adesso, a quanto pareva, senza una casa. Che accidenti avrebbe dovuto fare un gatto come me?

Ero quel che si dice un «gatto da divano». Non sentivo il bisogno di star fuori tutta la notte a cacciare, gironzolare e socializzare quando avevo un posto caldo in cui accoccolarmi, cibo e comodità. Inoltre, ero in compagnia; avevo una famiglia. Poi, però, mi è stato tolto tutto, spezzando il mio cuore di gatto. Per la prima volta ero completamente solo.

Mentre Jeremy e Linda continuavano a parlare, senza far rumore sono sceso con un salto dalla poltrona e ho abbandonato la casa. Ho bighellonato un po’ in cerca degli altri gatti per chiedere consiglio, ma era quasi l’ora del tè e ho faticato a trovarne uno. In ogni caso, conoscevo una vecchia gatta gentile che si chiamava Mavis e viveva in fondo alla strada, e sono andato a cercarla. Mi sono seduto fuori dalla gattaiola e ho miagolato forte. Sentendo che mi chiamavano, è uscita dalla gattaiola e le ho spiegato la situazione.

«Non ti possono prendere?» ha domandato guardandomi con gli occhi tristi.

«No, dicono che hanno dei cani e, sai, anch’io non ho voglia di vivere con i cani.» Siamo rabbrividiti al pensiero.

«Chi lo vorrebbe?» ha detto.

«Non so cosa fare», mi sono lamentato cercando di non rimettermi a gridare. Mavis si è accoccolata contro il mio corpo. Fino a poco tempo prima non eravamo in intimi rapporti, ma era una gatta molto premurosa e le ero riconoscente per la sua amicizia.

«Alfie, non farti portare al gattile», ha detto. «Se non fossi vecchia e stanca, mi occuperei io di te. Devi fare il gattino coraggioso e trovarti una nuova famiglia.» Ha strofinato con affetto il suo collo contro il mio.

«Ma come faccio?» ho domandato. Non mi ero mai sentito così smarrito e spaventato.

«Magari sapessi risponderti, pensa, però, che negli ultimi tempi hai imparato a tue spese quanto è fragile la vita, e sii forte.»

Abbiamo sfregato i nasi e ho capito che dovevo andarmene. Sono tornato un’ultima volta nella casa per poterla ricordare prima di partire. Volevo un’immagine da serbare nella memoria e portare con me durante il viaggio. Speravo che potesse darmi forza. Ho guardato i quadri alla parete che conoscevo così bene. Ho guardato il tappeto, logoro lì dove l’avevo grattato quando ero troppo piccolo per usare il buonsenso. Io e quella casa eravamo una cosa sola. E adesso che ne sarebbe stato di me?

Avevo poco appetito, ma mi sono forzato a consumare il pasto che mi aveva servito Linda (dopo tutto, non sapevo quando avrei mangiato di nuovo) e ho lasciato vagare per l’ultima volta lo sguardo su quella che era stata la mia casa, che mi aveva sempre tenuto al caldo e al sicuro. Ho pensato alle lezioni che avevo imparato. Nei quattro anni che avevo vissuto lì, avevo afferrato parecchie cose sull’amore, e sulla perdita. In passato qualcuno si era preso cura di me, ma adesso non era più così. Mi sono ricordato il momento in cui ero arrivato lì da micetto. Ho capito quanto ero stato fortunato; adesso, però, la fortuna era finita. Mentre rimpiangevo l’unico genere di vita che avessi conosciuto, ho sentito d’istinto che dovevo sopravvivere, ma non sapevo come. Mi sono preparato a fare un balzo nell’ignoto.

***

Ci sono stati giorni in cui mi è toccato stare all’erta, e molti di più in cui ho avuto fame e mi sono sentito stanco, costretto a procedere anche se mi tremavano le zampe per la fatica e la pelliccia s’incollava al corpo per la pioggia. L’ho scampata ma è stato un viaggio lungo, duro. Continuavo a dirmi che alla fine ne sarebbe valsa la pena.

Infine, sono arrivato in una strada incantevole e ho capito immediatamente che mi avrebbe dato quello di cui avevo bisogno. Non sapevo precisamente come, ma ne ero sicuro; avevo la certezza che quello fosse il mio posto. Mi sono seduto vicino a una targa che diceva EDGAR ROAD e mi sono leccato i baffi. Per la prima volta, da quando avevo lasciato la mia casa, ho avuto la sensazione che tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Edgar Road mi è piaciuta subito. Era una strada lunga con case differenti l’una dall’altra: villette a schiera in stile vittoriano, moderne case monoblocco, edifici più grandi e alcuni palazzi suddivisi in appartamenti. La cosa che mi è piaciuta di più è stata la numerosa presenza di cartelli con le scritte VENDESI e AFFITTASI. Come mi avevano spiegato, quei cartelli indicavano che tra poco sarebbero arrivate persone nuove. E la cosa di cui avevano più bisogno le persone nuove era di un gatto come me, ne ero fermamente convinto.

Nei giorni seguenti ho conosciuto qualche gatto del quartiere. Quando ho spiegato che cosa avevo in mente, hanno insistito nel volermi aiutare. Mi sono subito accorto che, nel complesso, i gatti di Edgar Road erano una combriccola piuttosto simpatica. In effetti, mi sembrava importante vivere in un quartiere con dei bravi gatti come vicini. C’erano un paio di gatti prepotenti e una graziosa micetta particolarmente sgarbata con chiunque ma, a parte quelli, i gatti erano amichevoli e hanno diviso con me pasti e bevande nel momento in cui ne avevo più bisogno.

Durante la giornata passavo il tempo a parlare con gli altri gatti, a ricavare da loro quante più informazioni possibili e a compiere ricognizioni nelle case, in cerca di quello che poteva diventare il mio alloggio. Di notte andavo a caccia tanto per nutrirmi.

Bazzicavo per Edgar Road da meno di una settimana quando, una sera, un gatto particolarmente cattivo mi ha trovato seduto fuori da una delle case vuote che tenevo d’occhio.

«Questa non è casa tua. È arrivato il momento che tu te ne vada», mi ha detto sibilando.

«Io resto», ho sibilato a mia volta cercando di fronteggiarlo con coraggio. Era più grosso di me e, ovviamente, non ero ancora in piena forma. Con tutto quello che avevo passato, sentivo di non avere più un briciolo di spirito combattivo, ma non potevo mollare. Un rumore improvviso mi ha distratto e, alzando lo sguardo, ho visto un uccello slanciarsi in volo basso sopra la mia testa. Il gattaccio ha colto l’occasione per colpirmi con la zampa e mi ha graffiato proprio sopra l’occhio.

Ho gnaulato. Faceva tanto male e ho sentito subito il sangue. Ho soffiato contro quel gatto che incombeva minaccioso come se fosse in procinto di mordermi. Ho giurato a me stesso di tenerlo sempre d’occhio in futuro.

Nella porta accanto a quella della casa vuota viveva una gatta a striature brillanti di nome Tigre con cui ero in rapporti cordiali. È comparsa all’improvviso e si è messa tra noi due.

«Squagliati, Bandito», gli ha sibilato. Bandito aveva l’aria di aver voglia di combattere ma, dopo un po’, ha girato sui garretti e si è allontanato impettito. «Perdi sangue», mi ha detto la gatta.

«Ero distratto, mi ha colto di sorpresa», ho replicato in modo altezzoso. «Avrei potuto suonargliele senza problemi.»

Tigre ha fatto un largo sorriso. «Senti, Alfie, sono sicura che avresti potuto, ma sei ancora debole. In ogni caso, vieni con me e ti sgraffignerò qualcosa da mangiare.»

Mentre la seguivo, sapevo che sarebbe stata la mia migliore amica tra i gatti della strada.

«Non hai un bell’aspetto», ha commentato lei mentre mangiavo.

Ho cercato di non sentirmi offeso. «Lo so», ho risposto tristemente. Era vero. All’epoca in cui sono arrivato in Edgar Road ero più magro di quanto fossi mai stato. Di sicuro il pelo era opaco, ed ero stanco per la vita all’aperto. Non sapevo quanto avessi impiegato per arrivare fin lì, ma a me sembrava tanto tempo. Il clima era cambiato; il caldo aumentava e le sere erano più luminose. Pareva che il sole fosse pronto a spuntare.

Ero diventato amico di Tigre e mi stavo abituando alla mia nuova strada. Avevo gironzolato in lungo e in largo per la via, perciò la conoscevo come i cuscinetti della mia zampa. Sapevo dove abitava ciascun gatto e se era gentile o no. Sapevo dove vivevano i cani malvagi e, dopo essere sfuggito alcune volte ai loro morsi, sapevo quali erano le case da evitare in ogni modo. Mi ero tenuto in equilibrio su tutte le recinzioni e tutti i muri di Edgar Road. Sapevo che lì era la mia nuova casa o, per essere più preciso, le mie nuove case.

***

Sono rimasto seduto a guardare due uomini tarchiati che scaricavano l’ultimo mobile dal furgone dei traslochi. Fino a quel momento ero soddisfatto di quello che avevo visto: un divano azzurro che sembrava comodo; grandi cuscini da pavimento; una lussuosa poltrona imbottita che dava l’idea di essere d’antiquariato, ma non sono un esperto. Avevo visto che dal furgone erano state trasportate molte altre cose: armadi, cassettiere e un mucchio di scatoloni sigillati; ma ero interessato soprattutto all’arredamento soffice.

Ho agitato la coda per la soddisfazione e, sogghignando, ho sentito i baffi che si alzavano. Pareva che avessi trovato la mia nuova potenziale casa: Edgar Road n. 78.

Mentre i traslocatori facevano una pausa per bere qualcosa dai thermos, ho colto l’occasione e mi sono intrufolato in casa. Tralasciando la mia curiosità, per prima cosa l’ho attraversata tutta per controllare la porta sul retro. Benché fossi stato in tutti i giardini della strada e contassi sul fatto che quella casa avesse una gattaiola, dovevo esserne certo. C’era. Ho fatto le fusa, contento della mia astuzia, e mi ci sono infilato, deciso a nascondermi in giardino.

Dopo aver rincorso la mia ombra nel minuscolo giardino e aver cercato qualche mosca da tormentare, mi sono venuti i brividi per l’eccitazione e ho deciso di lisciarmi accuratamente un’ultima volta. Quando sono rientrato, pregustando la piacevolezza di tornare a essere un gatto di casa, ero pieno di aspettative. Quanto desideravo un divano su cui sedermi, qualcuno che mi desse latte e cibo in abbondanza! Bisogni elementari che, però, avevo imparato a non dare per scontati. Non si poteva dare niente per scontato.

Come gatto, non ero uno stupido. Il mio viaggio e chi avevo incontrato per via mi avevano insegnato molte cose. Per nessuna ragione avrei mai più puntato i baffi su una carta sola. Era una lezione che avevo imparato duramente. Nel modo peggiore. Alcuni miei pari erano o troppo fiduciosi o troppo pigri, io invece avevo scoperto che non potevo permettermi di essere né l’una né l’altra cosa. Per quanto volessi essere un gatto leale con un padrone leale, le mie condizioni erano troppo precarie. Non potevo più ripiombare nella stessa situazione del passato. Non potevo più sopportare di ritrovarmi da solo.

Ho sentito rizzarsi il pelo tornando con la mente alla paura delle settimane appena trascorse, e ho rivolto l’attenzione al mio nuovo padrone. Speravo che le persone fossero piacevoli come il loro soffice arredamento.

Mi aggiravo per la casa a passo felpato quando mi sono accorto che il cielo si stava oscurando e la temperatura stava scendendo. Mi sono chiesto come fosse possibile che qualcuno trasportasse i mobili in una casa senza venire a viverci; non aveva senso. Ho cominciato a sentire un certo timore nei confronti del padrone che non avevo ancora incontrato. Poi, però, mi sono imposto di rilassarmi e mi sono dato una leccata ai baffi per calmarmi. Era indispensabile che fossi nella mia forma migliore nel momento in cui le persone fossero arrivate nella loro nuova casa; mi stavo facendo prendere dall’ansia.

Il problema era che avevo vissuto da gatto senzatetto per troppo tempo e non potevo più accettare quella condizione. Proprio nel momento in cui ero sul punto di ricominciare a tormentarmi, ho sentito il portone aprirsi. Ho drizzato immediatamente le orecchie e mi sono stirato. Era ora di andare a conoscere la mia prima nuova famiglia. Mi sono stampato sul muso il più affascinante dei miei sorrisi.

«Lo so, mamma, ma non potevo fare altrimenti», ho sentito che diceva una voce femminile. C’è stata una pausa. «Non potevo essere qui perché quella dannata automobile si è rotta dopo due ore di viaggio e ho passato le ultime tre ore con un chiacchierone dell’Automobile Club che mi stava facendo perdere la pazienza.» Un’altra pausa. La voce sembrava simpatica ma la donna era evidentemente esasperata, ho pensato mentre mi avvicinavo. «L’hanno fatto. Mi sembra che i mobili ci siano tutti, e hanno infilato le chiavi nella buca delle lettere che c’è sulla porta, come avevo chiesto.» Pausa. «Edgar Road non è il ghetto, mamma, penso che andrà benissimo. Comunque, sono appena entrata nella mia nuova casa dopo un giorno d’inferno, perciò ti chiamo domani.»

Ho svoltato l’angolo e mi sono trovato a faccia a faccia con una donna. Sembrava piuttosto giovane, anche se non ero molto bravo a giudicare l’età; tutto quello che avrei saputo dire era che non aveva il viso coperto di rughe come quello di Margaret. Era piuttosto alta, molto magra, aveva i capelli biondi scuri e spettinati e gli occhi azzurri e tristi. Come prima impressione l’ho trovata simpatica e i suoi occhi tristi mi hanno attirato con forza verso di lei. Il mio istinto felino mi diceva che quella donna aveva bisogno di me quanto io di lei. Come la maggior parte dei gatti, non giudico gli umani dall’aspetto; noi leggiamo la personalità e, di solito, i gatti hanno un fiuto particolare nel saper distinguere i buoni dai cattivi. “Andrà benissimo”, ho pensato subito con soddisfazione.

«Tu chi sei?» ha detto con una voce improvvisamente più tenera; il tipo di voce che tante persone riservano ai loro animali o ai neonati, come se fossimo stupidi. Avevo voglia di lanciarle un’occhiata sdegnata, ma bisognava che fossi affascinante. Perciò, le ho scoccato uno dei miei sorrisi migliori. Si è inginocchiata accanto a me e ho fatto le fusa, mi sono avvicinato lentamente, sfiorandole con delicatezza una gamba. Ah, sì, sapevo flirtare quando serviva.

«Poverino, sembri mezzo morto di fame. E il pelo, è tutto irregolare, come se avessi fatto a botte. Hai fatto a botte?» Aveva una voce tenerissima e ho fatto le fusa per annuire. Di recente avevo visto soltanto il mio riflesso nell’acqua ma Tigre mi aveva fatto capire che non ero esattamente in splendida forma. Mentre tornavo a insinuarmi tra le sue gambe, ho sperato soltanto che il mio aspetto non la disturbasse.

«Oh, che dolce! Come ti chiami?» Ha guardato la medaglietta argentata che mi pendeva dal collo. «Alfie. Bene. Ciao, Alfie.» Mi ha preso in braccio con delicatezza e mi ha accarezzato il pelo «irregolare». Dopo tutto quel tempo, mi è sembrato il paradiso. La mia sensazione era che stessi creando un legame con quella signora: imparavo il suo odore, le trasferivo il mio, e mi riportava alla mente il passato, la mia infanzia felina. Negli ultimi tempi quella situazione rilassante era stata soltanto un sogno.

Mi sono rimesso a fare le fusa con il migliore dei miei ronzii e mi sono rannicchiato addosso a lei. «Bene, Alfie, io sono Claire e anche se sono abbastanza sicura che un gatto non fosse compreso nel prezzo della casa, vediamo di trovarti qualcosa da mangiare. Chiamerò il tuo padrone tra un attimo.» Ho fatto un altro sogghigno. Poteva provare quanto voleva, il numero segnato sulla medaglietta non avrebbe risposto. Esultando, le ho camminato al fianco a grandi passi con la coda dritta, il mio modo di dire un «ciao» come si deve alla mia nuova amica, mentre lei tornava alla porta d’ingresso, prelevava due buste della spesa e le portava in cucina.

Mentre tirava fuori le provviste, ho dato una bella occhiata alla mia nuova zona pasti. La cucina era piccola ma moderna. C’erano componibili bianchi luccicanti e piani di lavoro di legno. Era pulita e sgombra. “Attento”, ho ricordato a me stesso, “qui non ha ancora vissuto nessuno.” Nella mia vecchia casa – pensarci mi faceva ancora star male – la cucina era molto antiquata e ingombra. Predominava un’enorme credenza e c’erano piatti ornamentali dappertutto. Accidentalmente ne avevo rotto uno quand’ero molto piccolo. Margaret si era così inquietata che non mi sono avvicinato mai più a quei piatti. In ogni caso, dubitavo che Claire avesse piatti ornamentali. Non era il tipo.

«Ecco qua», ha detto trionfante posando a terra una scodella che aveva tolto dagli scatoloni, e ci ha versato dentro del latte. Poi ha aperto una confezione e ha posato su un piatto del salmone affumicato. “Oh, che splendido benvenuto”, ho pensato. Ovviamente non m’aspettavo che avesse cibo per gatti ma, allo stesso tempo, non avrei mai immaginato di procurarmi un banchetto simile. Mi sarei accontentato di qualsiasi cosa, anche solo del latte. Ho deciso lì per lì che Claire mi piaceva. Mentre mangiavo, ha preso un bicchiere dallo stesso scatolone di prima e ha tirato fuori una bottiglia di vino dalla busta della spesa. Se n’è versata un po’, l’ha bevuto avidamente, e poi se n’è versata ancora. Doveva avere molta sete.

Ho finito di mangiare e mi sono sfregato contro le gambe di Claire a mo’ di ringraziamento. Mi è sembrata un po’ disorientata, poi, però, mi ha guardato.

«Povera me, devo chiamare i tuoi padroni!» ha detto, come se si fosse dimenticata. Ho miagolato per dirle che non ne avevo, ma sembrava che non capisse. Si è accucciata e ha guardato la mia medaglietta argentata. Ha premuto i numeri nel suo telefono e ha atteso. Sapevo che non avrebbe risposto nessuno, ma ero ancora nervoso. «Che strano», ha detto, «la linea telefonica è muta; deve esserci un guasto. Non ti preoccupare, non ho intenzione di sbatterti fuori. Stasera rimani qui e riproverò domani.»

Per ringraziarla, ho fatto fusa molto sonore e mi sono sentito enormemente sollevato.

«Se stanotte rimani qui, però, hai bisogno di un bagno», ha detto prelevandomi. Le orecchie mi si sono drizzate per l’orrore. Un bagno? Ero un gatto, il bagno me lo facevo da solo. Mi sono messo a miagolare, come per oppormi. «Mi dispiace Alfie, ma hai una puzza spaventosa», ha aggiunto. «Vado a prendere degli asciugamani dagli scatoloni e poi ti rimetto in sesto.»

Ho resistito all’impulso di scendere con un salto dalle sue braccia e ridarmi alla fuga. Odiavo l’acqua e sapevo cos’era un bagno, avendone subito uno in casa di Margaret tanto tempo prima, quando ero tornato coperto di fango. Era un’esperienza spaventosa, ma non quanto essere un senzatetto, perciò dovevo comportarmi ancora una volta da gatto coraggioso.

Mi ha piazzato davanti a un grande specchio nella sua camera da letto mentre andava a cercare gli asciugamani. Ho guardato e mi è uscito un grido di sorpresa. Se non avessi saputo che le cose stavano altrimenti, avrei pensato di star guardando un altro gatto; avevo un aspetto peggiore di quanto avessi mai pensato. Il pelo era a chiazze, ero così magro che si vedevano le ossa spuntare e, malgrado avessi fatto del mio meglio per pulirmi, Claire aveva ragione, sembravo molto sporco. Di punto in bianco mi sono rattristato; a quanto pareva, dalla morte di Margaret ero cambiato sia dentro sia fuori.

Claire è venuta a prendermi e mi ha portato in bagno, dove ha fatto scorrere l’acqua, e poi mi ha messo con delicatezza nella vasca. Ho strillato e mi sono dimenato un po’.

«Scusami Alfie, ma hai bisogno di una bella lavata.» Mi è sembrata un po’ confusa mentre teneva una bottiglia in mano. «È shampoo naturale perciò dovrebbe andar bene. Oh Dio, non lo so, non ho mai avuto un gatto.» Sembrava un po’ turbata. «E tu non sei il mio gatto. Spero che il tuo padrone non sia troppo preoccupato.» Ho visto una lacrima sfuggirle da un occhio. «Non doveva andare a finire così.» Volevo consolarla; evidentemente ne aveva bisogno, ma non potevo perché ero ancora nella vasca e mi sembrava di somigliare a una gigantesca bolla di sapone.

Dopo il bagno, che pareva non finire mai, mi ha avvolto in un telo e mi ha asciugato.

Quando mi sono sentito di nuovo asciutto, ho seguito Claire in salotto, dove si è lasciata cadere sul divano appena consegnato, e con un salto ci sono salito anch’io. Era confortevole quanto avevo sperato e lei non mi ha sgridato né ha cercato di farmi scendere. Come due sconosciuti educati, io mi sono messo seduto su un lato, lei sull’altro. Ha preso il suo bicchiere, ha bevuto un sorsetto e ha sospirato. Mentre lei faceva scorrere lo sguardo sulla stanza come se la vedesse per la prima volta, io la studiavo. C’erano scatoloni da sballare, un televisore piazzato sul pavimento e, stipati in un angolo, un tavolo da pranzo e le sedie. A parte il divano, lo spazio non era organizzato e non aveva ancora l’aria di una casa. Come se Claire mi avesse letto nel pensiero, ha bevuto un altro sorso ed è scoppiata in lacrime.

«Che cavolo ho fatto?» ha detto piangendo rumorosamente.

Ero turbato dal vederla improvvisamente così sconvolta, ma sapevo cosa fare. In un certo senso, c’era un motivo per il quale mi trovavo lì; ho sentito di avere un compito. Avrei potuto aiutare Claire tanto quanto lei avrebbe potuto aiutare me? Ho attraversato il divano e mi sono accoccolato addosso a lei, posando delicatamente la testolina sul suo grembo. Mi ha accarezzato con gesti meccanici e, benché stesse ancora piangendo, le ho offerto la consolazione di cui sapevo aveva bisogno e lei ha fatto la stessa cosa per me. “Ecco”, mi sono detto. In quel momento nel profondo del mio cuore ho sentito che eravamo spiriti affini.

Ero tornato a casa.

 

 

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