“Rileggo oggi le avventure di Gian Burrasca e trovo la leggerezza delle pagine scritte con la voce di un bambino di cent’anni fa, che non è invecchiata di un giorno”. Su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari racconta Giannino Stoppani, nato nel 1907 dalla penna di Vamba: “Ha un candore che gli permette di giocare con il senso delle cose. Gian Burrasca è diverso da tutti…”

“Ora però son diversi giorni che sono buono!”: rileggere da adulti Gian Burrasca

Da bambina ero molto moralista, in un mio modo tortuoso e nascosto. Il criterio era uno solo: non mi interessava la differenza fra bene e male, ma fra quello che mi commuoveva è quello che no. Così mi capitava di fare cose apparentemente inspiegabili solo perché mi parevano abbastanza lacrimevoli da nobilitarmi ai miei stessi occhi. Ogni martedì – giorno del catechismo – il mendicante seduto sui gradini della chiesa si vide deporre in mano un sacchettino di rotelle di liquirizia che forse neppure gli piacevano. Mai una parola fu scambiata, fra la piccola fanatica e quel brav’uomo allibito; mi sentivo una santa.

Ma più che altro la commozione era per me un criterio estetico. Il massimo della delizia era tuffarmi a capofitto nella galleria di personaggi sventurati che che mi offrivano certi libri reazionari. Ho sempre preferito, apertamente, i personaggi forti e liberi, quelli avventurosi, quelli buffi. Ma per quelli che mi facevano piangere avevo un affetto segreto e a tratti colpevole.

Un risultato di questo precoce bovarismo strappalacrime era che, per esempio, fra Cuore e Il giornalino di Gian Burrasca, prediligevo decisamente il primo. L’avevo preso in prestito alla biblioteca della scuola, e mi covavo quella lettura con tutta la segretezza possibile. La piccola vedetta lombarda mi spezzava il cuore; il piccolo scrivano fiorentino mi spediva dritta dritta in un’estasi singhiozzante. Solo il titolo Dagli Appennini alle Ande mi faceva venire i lucciconi.

Giannino Stoppani, invece, mi faceva ridere, mi facevano ridere gli scherzi arzigogolati che architettava: come poteva dunque competere con il lacrimevole, eroico Ferruccio di Sangue romagnolo?

Ho letto tanto, crescendo, e ho capito che far ridere è molto più difficile che far piangere. Rileggo oggi le avventure di Gian Burrasca; trovo la leggerezza delle pagine scritte con la voce di un bambino di cent’anni fa, che non è invecchiata di un giorno. Nessun bambino di oggi potrebbe mai vivere sotto la minaccia di essere spedito in collegio; ma qualunque bambino può capire la storia della minestra di rigovernatura, della vita carceraria nel collegio Pierpaolo Piepaoli, e sentire il senso di liberazione della burla ordita per vendicarla. Durante la seduta spiritica organizzata da quella virago della direttrice insieme al marito – remissivo e servile nella segreta vita coniugale, implacabilmente marziale di fronte agli scolari – e al cuoco imbroglione, autore di intingoli criminali, Gian Burrasca irrompe nell’evocazione del fondatore del collegio: parla attraverso il grande ritratto a olio del defunto filantropo. E lo sguardo di riprovazione che penetra dalla tela forata all’altezza degli occhi di Pierpaolo Pierpaoli e terrorizza i suoi tristi epigoni, è lo sguardo di un vero moralizzatore – ma solo perché è lo sguardo di un bambino che stravolge la retorica del collegio in una burla colossale.

Giannino Stoppani è una figura quasi di folletto, uno spiritello che svela l’insensatezza delle leggi non scritte della vita sociale. Non smaschera l’ipocrisia – non gli interessa, quella: non riuscirebbe nemmeno a coglierla, perché per farlo dovrebbe implicitamente accettare le regole del gioco, intuire quali interessi spingano adulti e bambini ad obbedire a un codice repressivo. Lui, quelle regole, proprio non le capisce; ha un candore che gli permette di giocare con il senso delle cose. Gian Burrasca è diverso da tutti. Anche per questo, è sempre il capro espiatorio designato: una figura tragica, molto più di Ferruccio di Sangue romagnolo, a ripensarci oggi. Non vuole capovolgere niente, Gian Burrasca, ma finisce per scompigliare sempre tutto; e solo perché insegue, con una sincerità così intera che è impossibile addomesticarla, l’impresa di essere buono. Ma per una forma così estrema e spietata di bontà, non c’è posto se non nello scompiglio; non c’è santificazione come per i piccoli eroi di Cuore, non c’è neppure la commozione. C’è solo il fatto che le cose, scompigliate, fanno ridere.

nota: “Il giornalino di Gian Burrasca” è un romanzo scritto da Vamba nel 1907 e pubblicato prima a puntate sul Giornalino della Domenica tra il 1907 e il 1908, e poi in volume nel 1912.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’AcquarioQui i suoi articoli per ilLibraio.it.


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