Forse perché l’ideale della moderazione non significa più un granché sul piano morale, ma è stato efficacemente sostituito da un ideale di controllo del corpo – controllo del suo aspetto, della sua salute – la gola, oggi, è ammessa solo come una piccola debolezza. E non più il vizio che era una volta…

Su ilLibraio.it prosegue la serie di riflessioni legate ai vizi capitali della scrittrice Ilaria Gaspari. In questo nuovo viaggio, letterario e artistico, dedicato alla gola, si parte dall’Inferno e dal Purgatorio di Dante per arrivare a Bridget Jones, passando per il Decameron e la Fabbrica di cioccolato di Roald Dahl…

Che fine hanno fatto gli orchi, con i loro appetiti formidabili? Oggi i ciccioni non li prende sul serio nessuno. La gola non è più il vizio che era una volta.

Nel sesto canto dell’Inferno, Dante a malapena si è ripreso dalla commozione per la storia di Paolo e Francesca, che l’ha lasciato tramortito; quand’ecco, viene investito dagli orribili latrati del cane Cerbero. Che abbaia rabbiosamente, e graffia e dilania le ombre dei dannati. Spalanca le sue tre bocche, mascelle ruminanti nel vuoto: ha fame. È un mostro a tre teste, Cerbero, il gran vermo; ma è anche un cane, e ha una fame tremenda. Abbaia, abbaia. Abbaia e spalanca quelle sue tre bramose canne: inghiotte tutto quello che Virgilio ci getta dentro, anche se è solo una manciata di fangaccio infernale. Le anime dei dannati per il peccato di gola sono veri fantasmi, impalpabili ologrammi infiacchiti da una pioggia melmosa senza fine, rintronati dalle urla della fame di Cerbero. Dante e Virgilio le calpestano, ci camminano sopra senza tanti riguardi. I golosi dell’inferno sono una poltiglia sfatta, ricoperta da un fango scuro, che continua, continua a cadere sulla marmaglia stracca. L’unico che si alza a sedere, presentandosi con un soprannome misterioso (che forse significa porco e forse no, ma anche solo al suono fa pensare a qualcosa di molliccio), Ciacco, dice di essere disfatto. I golosi, vittime del più corporeo dei peccati, sono ora solo anime, ma anime ridotte a fanghiglia, anime escrementizie e maleodoranti; di intingoli e prelibatezze non rimane niente, se non l’orribile melma in cui sono immersi come porcelli. Ma hanno perso, dei porcelli, il gioioso appetito spensierato, in quel mare di limo oscuro.

dante

Una punizione forse meno degradante ma di certo più tormentosa è toccata ai golosi del Purgatorio. Che cantano con labbra riarse un salmo, tormentati da una fame e una sete che non possono saziare, continuamente rinfocolate dai profumi deliziosi di frutti maturi, dallo scroscio fresco di una fonte. Golosi scheletrici, anemici, secchi come le bucce di frutti già sbucciati. Gli occhi incavati in fondo alle orbite, la magrezza estenuata, li hanno sfigurati almeno quanto la molle sfattezza delle carni impalpabili ha trasformato i loro colleghi infernali in una poltiglia di individui indistinguibili: Dante non riesce a riconoscere nemmeno il suo amico di sempre, Forese, tanto è stato essiccato da quella fame tormentosa.

Fra tutti i vizi, la gola è forse il più comico e triviale. È buffo, talmente buffo che il linguaggio l’ha immortalato in molte espressioni idiomatiche come un tratto animalesco: si ha una fame da lupi, si mangia come maiali. Si è addirittura pieni come uova. Ma queste rappresentazioni servono solo a far risultare ancora meglio, traslandolo, l’elementare, brutale realismo del più carnale dei vizi.

Ogni vizio ha la sua iconografia simbolica. Per la gola, però, ricorrere ai simboli non è strettamente necessario: fra tutti i vizi, è quello che trasforma più visibilmente il corpo, lo gonfia, lo pompa, lo rende grosso grasso enorme. Orchi e giganti sono mostri, sì, e mostruosamente famelici; ma hanno sembianze umane, per quanto espanse a dismisura, e l’umanissimo desiderio di riempirsi il pancione di prelibatezze, e il naso in alto ad annusare l’aria, ucci-ucci, a fiutare un profumo di tenere coscette da azzannare.


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Nella bocca del gigante bonaccione Pantagruel, Rabelais si immaginò un mondo intero, con vallate e praterie, foreste e mercati dove i contadini vanno a vendere i cavoli che coltivano, per l’appunto, fra i denti di Pantagruel. Perché tutto questo mondo fantastico – reso ancora più fantastico e straniante dal fatto di essere una riproduzione realistica di quello di fuori, tale e quale alla Turenna del ‘500, solo forse un po’ più civile ed evoluta – che sta nella bocca di Pantagruel, è un mondo fantastico, sì, e realistico; ma sta davvero dentro la bocca di un gigante, ne occupa laringe, faringe ed esofago, che si animano delle loro funzioni: le più basse, le più corporee, le più flatulenti funzioni che questi apparti possano avere. Del resto, sono l’enorme sistema digerente di un gigante ghiottone, tanto goloso che il suo nome si è trasformato nell’aggettivo per pranzi esagerati (proprio come accadde a Lucullo per la raffinatezza dei suoi banchetti: perché per illustrare il vizio della gola, il più concreto e tangibile di tutti, oltre ai traslati allegorici che hanno fondato espressioni in cui la fame è animalesca, c’è anche un repertorio di ‘pranzi per antonomasia’).

La gola non è solo un vizio di dismisura; è anche un vizio costoso. Un vizio dell’abbondanza, della ricchezza, dell’arroganza o della prepotenza – a seconda del punto di vista da cui la ghiottoneria è stata guardata nel tempo lontano in cui, al contrario di quel che spesso succede oggi, i poveri erano magri e i grassi erano ricchi. Fra frati gaudenti e ghiottoni di Chiesa rappresentati in maniera grottesca, in letteratura e in pittura, come dei gran mangioni che si spacciano per santi per poi papparsi tutto – nel Purgatorio di Dante, insieme a Forese è punito addirittura un papa, Martino IV, goloso proverbiale con un debole per le anguille in salmì – e orchi che sono in realtà signorotti feudali pronti ad addentare le carni dei ragazzini improvvidi che invadono il loro territorio o varcano le mura del loro castello, la gola è stata, per molto tempo, un vizio da potenti. Un vizio che i poveri potevano coltivare solo in maniera platonica, per così dire; un sogno di abbondanza e di sfrenatezza che non si sarebbero potuti permettere, come nella fantasticheria del paese della Cuccagna, o di quello di Bengodi, beffardamente sventolato di fronte al povero credulone Calandrino in una novella del Decameron: con i tralci di vite legati con corde di salsiccia, e le montagne di parmigiano grattugiato, e i fiumi di vernaccia.

Augustus Gloop

Oggi, il vizio della gola non ha più niente di poderoso o di potente, o di prepotente. Oggi, che il cibo che rende grassi o addirittura obesi è quello che costa poco, anche se la diffidenza per l’eccesso ha perso ogni allure non solo religiosa ma anche filosofica, i ciccioni non li prende sul serio nessuno. Roald Dahl nella Fabbrica di cioccolato in un certo senso l’ha fatto: ha punito la smodata ingordigia del bambino grassissimo, Augustus Gloop, con un sadismo infantile che si colloca fuori dal tempo e ha un che di arcaico, di medievale, e difatti sembra vicino, in qualche bizzarro modo, al contrappasso infernale di Dante. Ma non si può negare che oggi il modo in cui guardiamo al più corporeo dei vizi, quello che ha un effetto più immediatamente visibile – e disdicevole – sul corpo, sia cambiato, e parecchio.

I golosi rispettabili, oggi, sono più simili ai secchi corridori del Purgatorio, magrissimi e con l’acquolina in bocca per i profumi deliziosi che li avvolgono, che ai grotteschi ingordi sformati dell’Inferno. In generale, è molto raro che in un romanzo o in un film contemporaneo il personaggio principale sia davvero enorme; e, se succede, non è un fatto che possa passare inosservato sul piano morale. Deve avere, per forza, una causa disfunzionale; o, se non ce l’ha, rimane una caratteristica misteriosa, sospesa, inquietante, che occupa tutta l’attenzione di uno spettatore istintivamente spinto a chiedersi: perché? Le figure enormi e tondeggianti dipinte da Botero colpiscono per la loro mole sontuosa, che però, oltre a occupare lo spazio, non fa granché: non hanno espressioni o volti che rimangano davvero impressi; solo braccia e gambe improsciuttite che si impongono all’attenzione di chi li guarda proprio perché occupano lo spazio con tanta prepotenza.

botero

Forse perché l’ideale della moderazione non significa più un granché sul piano morale, ma è stato efficacemente sostituito da un ideale di controllo del corpo – controllo del suo aspetto, della sua salute – la gola, oggi, è ammessa solo come una piccola debolezza; a nessuno salterebbe in mente di dire che è un peccato, se non nella civettuola espressione ‘peccato di gola’; eppure, è come se fosse la versione salutista di un peccato. Che può essere persino considerato carezzevole confessare, ma solo a patto di essere, comunque, abbastanza in forma da far sì che fra gola e sensualità resti un legame: come nel caso di Bridget Jones che ossessivamente ricade nella tentazione del cibo come surrogato dell’affetto, ed è cicciottella e perciò buffa – ma non certo obesa. Oppure, si concede alla ghiottoneria di prendere la forma di una raffinatezza da intenditori, da esperti di vini e di intingoli da consumare però con moderazione; o, ancora, di decaloghi infiniti di regole autoimposte, rinunce e digiuni che scandiscono ipocondrie, nevrosi e lotte con la bilancia.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’Acquario.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

ilaria gaspari

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