Tornano in libreria le “avventure investigative” di Dante Alighieri. E l’autore della serie di gialli storici, Giulio Leoni (tra i protagonisti di Bookcity), racconta ai lettori del Libraio com’è nata l’idea

Venezia, estate 1313. Nel corso del suo lungo esilio, Dante Alighieri non ha mai visto un luogo simile. È come se quella città sospesa sull’acqua fosse in perenne movimento e si divertisse a disorientare chi vi si avventuri senza guida. Il poeta però non ha scelta: deve affrontare quella labirintica selva di calli e canali per rintracciare uno speziale saraceno, Nazeeh Al Bashra, che si nasconde nei tenebrosi recessi della città. Un uomo accompagnato da una fama sinistra, ma che forse è l’unico in grado di curare Arrigo VII. Dante ha ancora negli occhi il viso sofferente dell’imperatore, sul quale un male antico ha scritto l’esito fatale del suo destino. Un destino legato a filo doppio a quello del poeta, che con la morte del suo protettore perderebbe anche l’ultima speranza di rientrare da trionfatore nell’amata Firenze. Eppure, fin dall’inizio, la missione presenta risvolti inquietanti. Chi sono gli oscuri personaggi che lo avvicinano e che sembrano sapere tutto dell’opera che sta ancora scrivendo, il suo viaggio negli inferi? E perché si ostinano a ripetere di aver visto il Diavolo aggirarsi per Venezia e di conoscerne le reali fattezze? Dapprima incredulo, Dante viene assalito dai dubbi quando l’uomo cui era stato indirizzato per avere notizie del saraceno viene ucciso, in un modo così atroce che solo un demone avrebbe potuto escogitare. Forse davvero la Serenissima è il palcoscenico di una macchinazione diabolica. Forse davvero il Diavolo ha deciso di sfidare le leggi del cielo e di rivelare all’umanità il proprio volto…
E’ la trama de “La sindone del diavolo” (Nord edizioni), il nuovo  giallo storico di Giulio Leoni, che ai lettori del Libraio racconta com’è nata l’idea di trasformare l’autore della “Divina Commedia” in un “detective”…

Giulio Leoni NORD Il mestiere di Dante

 

di Giulio Leoni

Qualche tempo fa mi imbattei, nel corso di un pigro vagabondare sulla rete, in un sito che registrava con certosino puntiglio tutti i lavori svolti dai detective dei romanzi gialli. Intendo naturalmente quei detective che non lo fossero per posizione istituzionale, come poliziotti, carabinieri o comunque agenti di una delle tante organizzazioni pubbliche volte alla repressione del crimine.

Perché appunto, nel grande mondo della investigazione finta, non tutti i personaggi coinvolti si dedicano alla loro attività a tempo pieno. Al contrario, in realtà sono in pochi a godere della fortuna di uno Sherlock Holmes, consulting detective, o di un Poirot, entrambi in grado di assicurarsi vitto e un confortevole alloggio grazie alla sola opera di ricerca dei cattivi. E, nel caso del secondo, addirittura di poter godere per sé di un intero flat in un condominio raffinato, nemmeno da dover dividere con un coinquilino sia pure garbato come il dottor Watson. E potersi permettere addirittura un valet personale per la spazzolatura di abiti e scarpe.

Normalmente a investigare e basta ci si condanna a una vita grama: e non è questione di talento, la regola vale anche per i grandi. Sam Spade opera in un ufficio allogato in un anonimo palazzone di Frisco, ma almeno può permettersi una segretaria: forse per via del suo indiscutibile fascino, ma anche perché siamo in Depressione, e si trova ancora gente disposta a lavorare for nuts. Ma già Philips Marlowe, pochi anni dopo, deve accontentarsi di una segreteria telefonica, ed entrambi devono affidare i loro pedinamenti non certo a delle Packard o a delle Cadillac, ma solo a delle molto più modeste Ford o Chevrolet.

Insomma, facendo astrazione dai detective di area vittoriana, quei grandi dilettanti che potevano dedicarsi liberamente alla loro attività grazie alla posizione di rentier, in genere per possesso di titolo e relativi latifondi, o in virtù magari di qualche fortunata e opportuna eredità, si scopre ben presto come gran parte degli investigatori viva in realtà grazie ad altro lavoro, uno square job, come dicono gli amici americani. Lavori che sono i più diversi e magari intuibili, come il giornalista o l’avvocato. Ma talvolta improbabili e addirittura sconcertanti. Come il becchino, tanto per citare un caso neppure dei più strani.

Così, quando mi sono trovato a dover scegliere il detective che avrebbe interpretato le storie che avevo in mente, non potendo e volendo ricorrere a un lord inglese, mi sono trovato anche io a dover immaginare una qualche attività per il mio eroe.

E quel lunghissimo elenco di personaggi e di relativi mestieri mi sembrava sulle prime una preziosa fonte di ispirazione: perché tra decine di personaggi veri o immaginari pensavo che non sarebbe stato difficile trovarne almeno uno cui ispirarsi per quello che avevo in mente. Mi attirava la raffinatezza di Philo Vance, esperto d’arte ma anche l’arguzia di padre Brown, sacerdote cattolico in terre anglicane. La geometrica lucidità di Auguste Dupin gentiluomo impoverito, la sottigliezza mefistofelica di Henri Bencolin, giudice istruttore parigino, e mi affascinava non meno l’abilità fantasmagorica del Grande Merlini, l’illusionista.

E avrei voluto rubare qualcosa a ognuno di loro, ma avevo bisogno di un qualcosa che fosse poi in carattere con il ruolo chiamato a ricoprire, che per la complessa natura delle vicende in cui lo avrei maliziosamente coinvolto richiedeva un di più di pensiero astratto. E trattandosi di vicende ambientate nel medio Evo, in cui avvengono crimini velati da ombre misteriose e spesso esoteriche, mi sembrò naturale che a dipanarle venisse chiamata la mente più straordinaria vissuta in quei tempi. Un uomo con una vasta esperienza del male e di tutte le sue manifestazioni, che magari fosse anche autore di un’opera che al di là del suo straordinario valore poetico fosse anche una geniale Summa Criminalis, un ordinato repertorio di tutto ciò che degrada l’uomo e lo avvia agli inferi. Ma non un magistrato, né un notaio, mestieri questi che poi avrebbero associato ineluttabilmente il mio eroe alla polvere di pandette e codicilli, mentre io lo volevo indipendente e ardito. E non potendo dargli nessuno dei moderni strumenti di anatomopatologia, mi sembrava inutile farne poi un medico, visto che il suo solo strumento d’indagine poteva essere la sua mente, ferrata secondo i dettami della stringente logica aristotelica.

Un pensatore, dunque, magari un filosofo. E perché no, anche un teologo, trovandosi poi spesso di fronte a questioni che sfioreranno pericolosamente il regno dell’eresia. Però non un monaco, per carità! Il mio eroe doveva essere un uomo dai sentimenti forti, amante delle donne al punto di sentirsi addirittura perso nel peccato di lussuria, nel mezzo del cammino di sua vita. E quindi un laico, laicissimo, religioso sì ma problematico, al punto di avercela molto con la Chiesa e il suo papa, e di simpatizzare anche con personaggi come Sigieri di Brabante, averrorista ed eretico, e forse addirittura con una tale Dolcino, finito addirittura sul rogo. Semmai mi sarebbe piaciuto che il suo mestiere fosse quello dell’esorcista, ma non si può avere tutto.

Avevo poi bisogno, sempre per la dinamica delle storie, di qualcuno in grado all’occorrenza di lottare e tirare di spada, non solo di riflettere e centellinare indizi. Per esempio uno che l’11 giugno 1289 si trovasse tra i Feditori fiorentini alla battaglia di Campaldino, schierato in mezzo all’avanguardia a cavallo che aveva il compito di scompaginare le linee aretine. E che quindici anni dopo, cacciato in esilio dagli ingrati concittadini, tornasse a impugnare la spada nello sfortunato tentativo dei fuoriusciti di tornare con le armi in Firenze. Insomma un uomo di carattere, ma non un ex militare, né un reduce intristito o un mercenario manesco. Perché a me servava semmai un grande politico, un oratore, un abile diplomatico, al punto da diventare amico e consigliere addirittura di un imperatore, per quello che avrebbe dovuto affrontare nella Sindone del Diavolo. Dotato di un grande rigore morale, per essere inflessibile di fronte al crimine, ma non assolutamente un moralista di professione: anzi, semmai anche un grande peccatore, per essere in grado di gestire con saggezza la terribile bilancia della giustizia.

E poi soprattutto un poeta, e uno straordinario poeta d’amore, prima ancora che maestro di sapienza. E che avesse una grande conoscenza dell’animo femminile, perché nel racconto vi sarebbe stato grande spazio per i personaggi di quel sesso, come è proprio delle vicende umane. E poi ancora avevo bisogno di uno speziale, che avesse dimestichezza con pozioni e veleni, e insieme di un artista, che sapesse orientarsi tra le forme e riconoscere la singolare bellezza che può celarsi anche in una trama diabolica, oltre che in un affresco o un mosaico. Ma non un pittore, troppo esposto alla vividezza dei suoi colori a rischio di restarne prigioniero, né uno scultore, che la pesantezza della materia avrebbe potuto ancorare alla terra, mentre io volevo qualcuno in grado di spaziare leggero, forse un architetto, allora. E anche un musico, e un cantore, e un conoscitore dei moti celesti, anche, perché è nelle stelle gran parte del nostro destino.

Insomma, non c’era un solo mestiere adatto per l’eroe che avevo in mente io, e nessuno tra i personaggi elencati avrebbe potuto interpretarlo. C’era fortunatamente però un essere reale ricco di tutte queste doti, qualcuno che era esistito veramente, e cui avrei potuto umilmente rendere omaggio, aggiungendo di nascosto qualcosa di inventato all’infinita corona della sua gloria. C’era Durante degli Alighieri, meglio noto come Dante, uno che  aveva fatto parlare di sé per diverse altre cose, ma che forse un naturale ritrosia aveva trattenuto dal rivelare nella sua opera anche alcune vicende tenebrose in cui era rimasto coinvolto, nelle more dei suoi impegni maggiori. Forse la stessa discrezione venata di alterigia con cui Sherlock Holmes cercava di soffocare gli sforzi letterari del povero Watson, quello sprezzo verso ciò che si è fatto, quando la nostra mente è già persa nelle imprese future.

Come che sia, ho pensato invece di dar voce a queste vicende. La sindone del Diavolo è una di esse. Forse la più strana e inquietante. Perché questa volta sembra che a sbarrargli il cammino non sia la perversione dell’uomo, quanto quella ben più insidiosa dei demoni.

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