Una fauna variegata per l’attesissimo concerto dei Depeche Mode, tra fedelissimi rigorosamente nerovestiti e chi invece è stato coinvolto un po’ per caso. Un live, quello della band del leader Dave Gahan, che decolla nella seconda parte, con “Where’s the revolution”, e poi con la sequenza “Wrong”, “Everything Counts”, “Stripped”, “Never Let Me Down Again” – Il reportage

In 55mila hanno risposto alla chiamata alla rivoluzione della seconda tappa italiana del Global Spirit Tour.

Sono le 18 e il prato dello stadio San Siro di Milano brulica già di figure accaldate e trepidanti: il diluvio della sera precedente non ha scoraggiato gli affezionati disposti ad avventurarsi a orari improbabili per guadagnare una visuale dignitosa sullo spettacolo. Guardarsi intorno è già indicativo: c’è il gruppo di fedelissimi, rigorosamente nerovestiti o con la maglia di qualche tour passato; c’è chi invece è stato coinvolto un po’ per caso, un po’ per compagnia, e ostenta merchandising di band vagamente affini come a rivendicare il proprio diritto a collocarsi tra le fila dei fanatici – “no, non conosco la discografia a memoria, però vuoi mettere, i loro concerti sono spettacolari”. C’è chi canticchia i must e chi zittisce infastidito, chi si lamenta del clima e chi inganna l’attesa giocando a carte.

C’è, insomma, la fibrillazione tipica di un pre-concerto storico, quello per cui nove mesi prima si è rimasti incollati al sito di TicketOne per scongiurare la minaccia del sold out, alla conquista di un cartoncino scuro lasciato chissà dove a fermentare con il suo carico di aspettative.

depeche mode

I Depeche Mode a San Siro (foto di Oriana Mascali)

È così, sudato un po’ per la temperatura e un po’ per l’emozione, che alle 21 passate del 27 giugno il pubblico milanese accoglie l’arrivo sul palco dei Depeche Mode, e di uno splendido Gahan in completo grigio scuro che si fatica a riconoscere se non quando sfoggia il suo gilet glitterato abbinato a stivali di dubbia classe – ma che su di lui, come tutto, finiscono per sembrare sexy.

L’esordio è decretato da due brani del l’ultimo album Spirit, quattordicesimo tassello di una carriera che supera ormai i 35 anni: Going Backwards inaugura la scaletta con note di cupa disapprovazione ( We have not evolved / We have no respect / We have lost control), seguita da So much love, pezzo dalle familiari sonorità elettro-pop.

Il concerto stenta a decollare: la prima incursione nel passato non si fa attendere troppo, ed è il turno di Barrel of a gun, canzone che compie vent’anni tondi ma lascia il pubblico ancora troppo tiepido, nonostante piroette e sculettate di un Gahan che è solo al riscaldamento. Con la potente A Pain That I’m Used to qualcosa sembra svegliarsi, ma la parabola vira ancora verso il basso con la più recente Corrupt, per poi stemperarsi nelle note melodiche di In your room. Si rimane incastrati nel primi anni ‘90 anche con World in My Eyes, che segna un recupero in grande stile, confermato da uno dei brani migliori di Spirit, Cover Me: tra la voce di Gahan, che non ha perso in niente la sua capacità di avviluppare, e gli echi dei synth l’atmosfera mozza il respiro dell’intero stadio. Il microfono passa in mano a Gore con A Question of Lust e Home, in un sentitissimo ritorno al passato che strizza l’occhio agli albori del gruppo, coinvolgendo i nostalgici in un lungo coro.

Where’s the revolution preannuncia davvero uno stravolgimento, quello che arriva come uno tsunami all’apice del concerto. È la svolta, il punto di non ritorno: la sequenza Wrong (strappaviscere, con un Gahan caldissimo e grondante carisma) – Everything Counts (ed è di nuovo coro, il pubblico ormai è agganciato) – Stripped (evocativa e commovente, senza la minima ruga dal 1986) – Never Let Me Down Again (probabilmente il pezzo più riuscito dell’intero spettacolo) sembra essere studiata per spalancare la voragine emozionale nei fan così come negli ascoltatori occasionali, condensando in poche canzoni tutta l’essenza di una band che è riuscita come poche altre ad avvicinarsi all’ideale sublime di “music for the masses” (per citare il titolo del disco del 1987). Soprattutto se si considera che lì in mezzo c’è lei, l’immancabile Enjoy The Silence: nella sua versione da stadio finisce forse per perdere l’intimità intensa che l’ha resa una pietra miliare nella storia della musica, senza però smettere di far accapponare la pelle.

È quindi in questo strascico di estasi che ci si crogiola nell’attesa del rientro sul palco del gruppo; l’encore lascia spazio alle imprescindibili Walking in My Shoes e I Feel You. A intervallarle l’omaggio – non più a sorpresa, tutt’altro – all’immortale David Bowie: la cover di Heroes trasuda stile Depeche, e commuove con eleganza nel ricordo della perdita, in un momento altissimo. La chiusura, ovviamente, è affidata alle chitarre di Personal Jesus.

La band si congeda con un saluto collettivo, ma le luci tardano a riaccendersi: si sente la mancanza di grandi classici come Shake The Desease, Precious, Dream on e Just Can’t Get Enough (è l’ultimo canto, stavolta non accompagnato, degli spettatori), e c’è chi ancora spera, ma il trio non si lascia intenerire – del resto, non si può rimproverare al gruppo di non aver reso onore alla propria longevissima carriera.

Tra i video suggestivi (ma gli animali in Enjoy the Silence?) e le performance danzerecce di Gahan, tra il supporto dei maxischermi e le vibrazioni dei bassi, vere protagoniste della serata sono le decine di migliaia di voci di un coro esaltato che, da metà concerto in poi, non ha abbandonato i suoi beniamini neanche per una canzone; loro, più di ogni altra cosa, confermano lo spessore epocale di una band che sì, (forse) sta invecchiando, ma è ancora perfettamente in grado di rispondere al grido unanime “non deludermi”, «never let me down».

 

 

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