Nel romanzo “Il segreto di Gaudì” di Daniel Sánchez Pardos, tra i misteri di Barcellona l’architetto spagnolo dovrà risolvere un omicidio e sventare un complotto contro il re di Spagna… – Su ilLibraio.it un capitolo del romanzo

Arriva in libreria per Corbaccio Il segreto di Gaudì di Daniel Sánchez Pardos, autore spagnolo classe 1979. Siamo nell’ottobre 1874, Gabriel Camarasa frequenta l’Università di Architettura di Barcellona dove incontra un ragazzo del secondo anno: Antoni Gaudí. Ne diventa amico, ma Gaudí resta un mistero per Gabriel: le sue conoscenze nell’ambito dell’architettura sono decisamente superiori a quelle degli studenti più brillanti e gli interessi di Antoni spaziano dall’esoterismo alla fotografia, dalla botanica ai bassi fondi della città che frequenta assiduamente e dove sembra avere anche un’attività che niente ha a che fare con i suoi studi. Il giovane Gaudí è una mente brillante dotata di un talento deduttivo notevole, e quando la vita dei due amici viene sconvolta da un omicidio e da un complotto che dovrebbe portare all’assassinio del re di Spagna nella Cattedrale del Mare di Barcellona, tutte le capacità del geniale amico di Gabriel verranno messe a dura prova per riuscire a scoprire i colpevoli, a rischio della propria vita…

Per gentile concessione di Corbaccio, su ilLibraio.it proponiamo un estratto dal romanzo:

Quel primo pranzo con Gaudí alle Sette Porte segnò l’inizio di uno dei riti principali che da quel momento in poi scandirono la ferrea routine della nostra nascente amicizia. Ogni giorno, quando all’una in punto terminava la terza lezione del giorno e si apriva davanti a noi una gradevole parentesi di un’ora e mezza di libertà prima del ritorno in aula, Gaudí e io ci incontravamo in fondo alla scalinata della Lonja, uscivamo insieme su plaza del Palacio e ci fumavamo una sigaretta commentando le novità della mattinata. Poi raggiungevamo gli edifici di Xifré, sotto i cui portici si trovava il ristorante, e lì prendevamo possesso del nostro solito tavolo d’angolo, davamo un’occhiata a un menu pieno di nomi altisonanti e prezzi carissimi, per poi ordinare inevitabilmente i piatti più leggeri della lista – un riso cappuccino, uno sformato di legumi e ortaggi, pesce fresco di Arenys – e una bottiglia di vino che il mio amico sceglieva sempre con la baldanza di un autentico sommelier. I vini della cantina delle Sette Porte avevano corpo, sostanza e una gradazione non sempre adatta a chi aveva ancora tre lunghe ore di lezione da affrontare, e spesso le tazze di caffè nero con cui concludevamo i nostri pranzi non riuscivano a impedirci di fare ritorno a scuola con l’animo infiammato e il passo intorpidito dai gioiosi effluvi di Bacco.

A quanto scoprii in quei primi giorni della nostra amicizia, Gaudí era un uomo dalle abitudini regolari che conduceva una vita molto irregolare; o meglio era un uomo dallo spirito molto irregolare le cui giornate si organizzavano attorno a una serie di abitudini degne di un impiegato di banca. Tutte le mattine, senza eccezione, faceva una colazione frugale nella stessa latteria del quartiere della Ribera, a pochi passi da casa sua; tutti i giorni lavorativi pranzava alle Sette Porte e faceva merenda all’orzateria dello Zio Nelo, situata anch’essa sotto il portico dello stesso edificio dell’indiano Xifré; tutti i sabati e le domeniche pranzava in una delle tante osterie della parte bassa della Rambla, sempre nei dintorni di plaza Real o del pla de las Comedias, e faceva merenda nei saloni di una delle svariate società barcellonesi che frequentava per ragioni più o meno lavorative; ogni sera, una cena a base di pane e formaggio con una birra all’osteria della Buena Suerte di calle Carders precedeva il suo giro di visite in certi locali del quartiere del Raval a cui nessun impiegato di banca per bene si sarebbe mai sognato di avvicinarsi, ma che lui frequentava con la stessa costanza e tenacia, con la stessa apparente fedeltà indiscutibile che presiedeva il resto delle sue attività diurne: posti come il Teatro de los Sueños, il Cabaret Oriental, lo stesso Monte Táber come un paio di altri edifici quasi diroccati di calle de la Cadena, le cui porte sempre chiuse non avevano nome, e sui quali dovrò spendere qualche parola nelle prossime pagine di queste memorie.

Anche le abitudini lavorative di Gaudí erano molto regolari, sebbene in questo caso, come avrei scoperto ben presto, la natura insolita, eccentrica o persino alle volte scabrosa di molte di queste occupazioni professionali faceva sì che il rigore inflessibile con cui il giovane le svolgeva passasse inosservato o venisse confuso, in ogni caso, con l’industriosa iperattività di un uomo delirante consacrato alla sua personale forma di follia. Mentre davamo fondo allo squisito riso del poeta – un riso brodoso con funghi e asparagi, come scoprii – e al buon vino andaluso che inaugurarono i nostri pranzi insieme alle Sette Porte, Gaudí e io cominciammo a raccontarci per sommi capi le nostre rispettive storie personali e i casi della nostra vita attuale. Venni così a sapere che era nato a Reus ventidue anni prima – io ne avevo ventuno – e che dal suo arrivo a Barcellona aveva condiviso con il fratello una serie di stanze variamente umili in diverse case del quartiere della Ribera. L’ultima era situata in piazzetta Montcada, proprio dietro l’abside della chiesa di Santa Maria del Mar, e qui Gaudí e il fratello occupavano una mansardina spaziosa e soleggiata ma il cui soffitto, a dire del mio amico, li costringeva a muoversi per casa a testa bassa e a rischio perpetuo di zuccata. Il fratello di Gaudí si chiamava Francesc, era tredici mesi più grande e studiava diritto nel nuovissimo edificio neomedievale dell’università di Barcellona; a quanto mi parve di capire quella prima volta, il rapporto tra i due fratelli era peggiorato nel corso del tempo, e forse si preannunciava addirittura una separazione delle loro strade. Il padre faceva il calderaio in un piccolo villaggio nei pressi di Reus di nome Riudoms, mentre la madre era una donna semplice, timorata di Dio e grande lavoratrice, e l’unica sorella sopravvissuta all’infanzia viveva ancora con i genitori nella vecchia casa di famiglia. I signori Gaudí, nel complesso, non erano molto diversi da qualsiasi altra famiglia per bene della campagna tarragonese: uomini e donne umili, dediti al lavoro e alla preghiera, e con l’unica aspirazione di offrire un futuro migliore in città ai propri figli maschi. La vendita di alcuni appezzamenti di terreno e i risparmi di una vita avevano permesso a Gaudí e al fratello di trasferirsi a Barcellona nell’autunno del ’68 con le tasche abbastanza piene per poter iniziare gli studi senza troppe difficoltà in una buona scuola, e da allora in poi una piccola rendita familiare aveva regolarmente provveduto alle loro spese di vitto e alloggio. Ma i proventi dell’attività paterna erano sempre più modesti, e tutte le speranze di sopravvivenza economica della famiglia erano ormai riposte nel futuro professionale dei due figli maschi.

Una storia personale, in definitiva, che non poteva essere più diversa dalla mia, e che ai miei occhi conferiva a Gaudí un certo alone di uomo avvezzo alla povertà e temprato dalle circostanze di un’origine poco privilegiata.

Ma anche, ovviamente, una storia che non quadrava in nessun modo con l’abbigliamento e le maniere del mio nuovo amico, e neppure con il suo gusto per il cibo raffinato e il vino della migliore qualità.

«Mi permettete una domanda indiscreta?» mi sentii obbligato a chiedere, quasi contro la mia volontà, quando Gaudí concluse il resoconto delle sue origini e trasferì la sua attenzione agli ultimi bocconi di riso rimasti nel piatto.

«Ma certo.»

«È solo che non ho potuto fare a meno di notare la squisita fattura dei vostri abiti e la vostra disinvoltura in un ristorante in cui ben pochi studenti di Tarragona potrebbero permettersi di pranzare anche una sola volta, e che invece voi sembrate frequentare quasi quotidianamente. O sapete amministrare molto bene la piccola rendita che i vostri vi inviano tutti i mesi, o qui c’è qualcosa che mi sfugge.»

Gaudí si portò il bicchiere di vino alla bocca e accennò un sorriso vagamente misterioso.

«Ho le mie personali fonti di guadagno», si limitò a dire.

«Allora avete un lavoro?»

«Sì, potremmo dire così.»

«Siete apprendista nello studio di un architetto?» azzardai. «Lavorate magari per uno dei nostri professori?»

«I nostri professori?» Gaudí fece una smorfia di disgusto che per un istante gli sformò i lineamenti. «I nostri professori non mi permetterebbero di lavorare nel loro studio neanche se fossi l’unico architetto disponibile di tutta la penisola!»

«E allora?»

«Qualche lavoretto qua e là. Un paio di passioni che, per mia fortuna, mi rendono anche qualche soldo, oltre al semplice piacere di coltivarle. Niente di misterioso.»

«Eppure continuate a non entrare nel dettaglio.»

Gaudí posò il suo bicchiere nuovamente vuoto sulla tovaglia di lino bianco e mi fissò con i suoi grandi occhi blu, resi lucidi dal vino.

«Almeno una delle mie passioni potrebbe non sembrare appropriata a un giovane della vostra classe sociale», commentò con un sorriso malizioso. «A quanto ne so, i borghesi non vedono sempre di buon occhio le cose che i proletari devono fare a volte per guadagnarsi il pane.»

«Avete forse paura di scandalizzarmi, signor Gaudí?»

«Lungi da me, signor Camarasa, ma non vi conosco ancora abbastanza bene per sapere quale sia la vostra soglia di tolleranza verso le diverse attività commerciali.»

«Vi ricordo», replicai, «che mio padre è il proprietario di un giornale per cui una madre ubriaca che sgozza il figlioletto neonato è una notizia degna di comparire in prima pagina. A meno che non facciate il boia nel carcere di Amalia o induciate alla prostituzione bambine di undici anni in qualche retrobottega del Raval, al massimo inarcherò un sopracciglio.»

Gaudí sorrise di nuovo.

«Una delle mie occupazioni mi costringe a frequentare spesso il Raval, ma vi assicuro che non rivolgo la parola a una bambina di undici anni da quando mia sorella non ha più quell’età.»

«In questo caso, potete tranquillamente confidarmi di cosa si tratta.»

(continua in libreria)

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