Qualche domanda a Marco Vichi autore di Una brutta faccenda ISBN:8882463303

Firenze, aprile 1964. È passato quasi un anno dalla misteriosa morte della contessa Pedretti Strassen e l’esistenza del commissario Bordelli sta per essere sconvolta nuovamente. L’improvvisa comparsa in questura del cencioso nano Casimiro è foriera di guai. Guai grossi. Quando poi, qualche giorno dopo, una telefonata annuncia il ritrovamento del cadavere di una bambina, l’estrema gravità della situazione appare evidente a tutti. La strada del commissario si incrocia con quella di un assassino senza volto e senza nome; un pluriomicida con il vizio di strangolare le bambine e di morsicare i loro corpi. Un’indagine difficile per il nostro Bordelli, che dovrà ricorrere a ogni astuzia per scongiurare altri omicidi e ripristinare la legalità a Firenze. Su questo secondo caso dell’ormai famoso commissario fiorentino, abbiamo scambiato qualche parola con Marco Vichi.

D. Questa volta il commissario Bordelli si imbatte in un serial killer, che lascia sulle malcapitate vittime la propria firma. Nel tracciare la sua figura si è ispirato a qualche modello letterario oppure a un fatto di cronaca?

R. Ispirato in modo consapevole forse no, ma è normale che nel corso degli anni, leggendo libri o guardando film, abbia accumulato immagini e storie di molti serial killer. Penso che scrivendo romanzi o anche sceneggiature, e anche vivendo, sia inevitabile “rubare” da quello che abbiamo letto, visto e vissuto. La differenza sta tutta nel come e nel perché si ruba. Kafka ha “rubato” da Dostoevskij, John Fante da Hamsun, ma non sono certo dei plagi, anzi sono delle possibilità ulteriori a quello che esisteva in precedenza, sono letteratura originale che si porta dentro, ben digerita, la lezione dei maestri.

D. La morte della piccola Valentina, la prima vittima del mostro, spinge il commissario a compiere delle riflessioni sulla natura umana. Bordelli ritiene che la voglia di uccidere faccia quasi parte del patrimonio genetico dell’uomo: è una forza irrazionale e incontrollabile, un’eredità ancestrale. Lo pensa anche lei?

R. Penso che l’aggressività debba per forza far parte della natura dell’animale e anche dell’uomo primitivo, a cui serviva per procurarsi il cibo e dunque per sopravvivere. Oggi se ne potrebbe fare anche a meno, visto che ci sono altri mezzi per mangiare, ma che ne facciamo della nostra natura? I cacciatori di una volta erano spesso contadini che potevano essere giustificati dalla necessità di integrare la loro dieta senza spendere troppo, ma i cacciatori di oggi sono motivati, penso, soltanto dall’antica necessità di ammazzare che si è ridotta a “voglia di ammazzare”. Poi ci sono le risse allo stadio e in discoteca, per motivi inutili e stupidi, che dimostrano come l’aggressività non smaltita con intelligenza (ad esempio trasformata in creatività) resti una grande “giustificazione” soggettiva alla violenza. Ma mi rendo conto che è un discorso troppo lungo e in parte già logorato e banalizzato da molte parole, e che invece dovrebbe essere, forse, approfondito.

D. A un certo punto il protagonista si chiede quale sia lo stato d’animo dell’assassino: rabbia, sensi di colpa, sete di vendetta o indifferenza. Per lui è importante comprendere le motivazioni che si celano dietro un delitto. Forse esistono attenuanti e giustificazioni anche per i crimini più spregevoli? O esiste un “malvagio puro” che in nessun caso merita il perdono?

R. Dipende tutto dalla consapevolezza e dall’intenzione di chi commette un crimine. La consapevolezza e l’intenzione sono fondamentali per dare il giusto peso a un delitto. Non soltanto moralmente, ma penalmente: un omicidio può essere involontario, colposo, preterintenzionale, volontario, premeditato. Ovvio che oltre a questo ci sono altre valutazioni di ordine culturale e antropologico che vanno al di là di tutto. Ma in ultima analisi penso che la risposta più giusta e completa a questo argomento l’abbia data Platone: il male è ignoranza, chi conosce il bene e il male non può che scegliere il bene.

D. Bordelli pensa che, per certi versi, i primi vent’anni della Repubblica abbiano fatto male all’Italia più dei tedeschi e dei fascisti. La solidarietà per le prostitute, i ladruncoli, i ricettatori e i contrabbandieri nasce proprio dalla consapevolezza che quei disgraziati sono l’inevitabile prodotto di una società immorale e profondamente corrotta. Le descrizioni di quartieri squallidi popolati da queste anime derelitte sono funzionali alla narrazione o sono la spia di una certa vena pessimistica? Sbaglio o prova anche lei la stessa rabbia e delusione dei “perdenti” amici di Bordelli?

R. Nella mia visione della recente storia dell’Italia sono molto pasoliniano, e penso che il germe di quello che oggi si è consolidato sia nato proprio in quegli anni, come appunto non hai mai smesso di ripetere Pasolini, ribadendo quasi ossessivamente che il fascismo non ha cambiato il volto dell’Italia come invece sono riusciti a fare la DC e la televisione. In quanto alla mia vena pessimistica, direi che è bella profonda, soprattutto in questi tempi.

D. Benché la suspense non manchi nel suo romanzo, ho avuto l’impressione che gli omicidi del mostro siano soltanto un pretesto per raccontare le vicende, gli ambienti, i suoni e i sapori della Firenze di quegli anni. È soltanto un’impressione?

R. Ogni trama, credo, è un pretesto per raccontare molte altre cose. Per raccontare una trama bastano poche righe, ma per raccontare una “storia” ci vuole tutto il resto, ed è in questo “resto” che a volte sta la parte più importante di un romanzo o di un racconto. Chiedi alla Polvere di John Fante è un grande esempio: la trama è semplice, qualche mese di vita di un giovane aspirante scrittore che cerca di sbarcare il lunario e di arrivare alla gloria abitando in una camera a pagamento a Los Angeles, il romanzo sta tutto in quello che questo scrittore incontra lungo il suo cammino.

D. In vista di un’eventuale trasposizione cinematografica dei suoi romanzi mi incuriosisce sapere com’è il suo rapporto con il cinema e qual è il suo giudizio sul fenomeno del “libro che diventa film”?

R. Nella storia del cinema la percentuale di film tratti da libri è sempre stata altissima, forse oggi è soltanto venuto a galla con più evidenza questo rapporto tra libri e cinema, ormai veri “collaboratori” capaci di aiutarsi a vicenda. Il mio rapporto con il cinema è ottimo, ma mi piacerebbe che lo fosse anche il rapporto del cinema con me. A parte le battute, mi piace moltissimo scrivere per il cinema, forse proprio per l’enorme differenza che c’è, in termini di scrittura, tra i romanzi e le sceneggiature.

D. Ha già in mente la terza indagine del commissario o ha intenzione di voltare pagina e di creare una nuova figura di detective, che operi magari ai giorni nostri?

R. Sto correggendo il terzo episodio, e forse ne ho in mente un quarto, che però non dovrebbe uscire dopo il terzo… ma non si sa mai. Riguardo a un nuovo detective, per il momento non esiste.

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