“Con l’avvento di internet, una classe politica nuova ha imparato a usare i nuovi media gestendoli direttamente a ogni ora del giorno, magari assistiti da una squadra di giovanotti esperti nel maneggiare una nuova sintassi comunicativa. Il risultato è una comunicazione fatta di brevi messaggi spesso al limite della provocazione, diffusi per sollecitare e far crescere il buzz sul web…”. L’intervista ad Alberto Contri, autore del saggio “McLuhan non abita più qui? – I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale”

Come si dice in questi casi, McLuhan non abita più qui? – I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale (Bollati Boringhieri), saggio di Alberto Contri, è un libro attuale, anche a due anni dall’uscita. L’autore del saggio, copywriter, direttore creativo e managing director presso multinazionali della comunicazione come la McCann Erickson, è stato l’unico italiano mai cooptato nel board della European Association of Advertising Agencies, ed è stato presidente dell’Associazione Italiana Agenzie di Pubblicità (1993-98), consigliere della RAI (1998-2002), amministratore delegato e direttore editoriale di RAINet (2003-08) e presidente e direttore generale della Lombardia Film Commission (2009-15). Presiede da diciassette anni Pubblicità Progresso, trasformata in Fondazione nel 2004.

Contri, in che modo internet e i social hanno rivoluzionato la comunicazione politica, e contribuito a farci vivere nella cosiddetta “campagna elettorale permanente”?
“Nella storia della comunicazione umana ci sono state alcune grandi rivoluzioni, ciascuna delle quali ha influito decisamente sulla vita dell’uomo e sui suoi comportamenti. Cinquantamila anni dopo la nascita del linguaggio orale, diversi popoli hanno sviluppato – e tutti contemporaneamente- il proprio alfabeto. Parliamo di Egizi, Cinesi, Sumeri, Fenici, più o meno intorno al 1500 a.C. Ci vogliono tremila anni per assistere a un altro big bang: l’invenzione della stampa a caratteri mobili a opera di Gutemberg nel 1455 d.C. Passano solo 400 anni per arrivare ad assistere al susseguirsi, in circa 150 anni, di una serie ininterrotta di sviluppi impensabili. Dal primo quotidiano a grande tiratura, al cinema, alla fotografia, al telegrafo, alla radio, alla televisione, all’elettronica, all’informatica, al computer. Nel 1990 esplode internet, portando con sé alcune implicazioni davvero rivoluzionarie…”.

alberto contri

Alberto Contri

Quali, in sintesi?
“L’interattività diffusa e la prassi della comunicazione da tutti a tutti (prima si comunicava da uno a tutti) – si chiama broadcasting – tanto che per affermare una verità incontrovertibile bastava dire: ‘lo ha detto la tv’. Il messaggio politico era mediato dalla tv, come dimostra il perenne tentativo dei partiti di controllare l’informazione e la comunicazione radiotelevisiva in generale. Con l’avvento di internet, una classe politica nuova ha imparato a usare i nuovi media gestendoli direttamente a ogni ora del giorno, magari assistiti da una squadra di giovanotti esperti nel maneggiare una nuova sintassi comunicativa. Il risultato è una comunicazione fatta di brevi messaggi spesso al limite della provocazione, diffusi per sollecitare e far crescere il buzz sul web (letteralmente, in senso onomatopeico, il rumore dello sciame delle api), costringendo semmai i media tradizionali a un ruolo di inseguitori e comprimari. Un impegno che non conosce sosta, sicché i messaggi arrivano all’istante agli utenti, così come le risposte, i commenti, motivo per cui siamo realmente sempre immersi in quel buzz”.

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Perché la rete, nata con ben altro spirito, è diventata tra le cause della tendenza populista in atto?
“Pensiamo al cellulare che abbiamo in mano oggi: è un vero proprio computer in grado di gestire messaggi, siti web, visione di audiovisivi, farci giocare, leggere libri, consultare le previsioni del tempo, ascoltare musica, effettuare videochiamate… e mille altre cose. Già l’ergonomia di uno schermo di dimensioni ridotte induce alla brevità dei contenuti da fruire, così come spinge a maneggiare il maggior numero di contenuti possibile in una sempre più limitata unità di tempo: siamo oramai al paradosso di avere a nostra disposizione una sterminata fonte di informazioni e di avere sempre meno tempo per fruirne e interpretarle. Gli anglosassoni lo hanno battezzato information overload, sovraccarico di informazioni. Così l’essere umano, che non ha le capacità e la memoria di un computer, si rifugia nella brevità. Già Twitter consente di usare un numero limitato di caratteri, mentre è ovvio che con qualsiasi sistema di messaggistica possiamo inviare e ricevere più messaggi se sono brevi. Trasferito in politica, significa semplicemente dare spazio più agli slogan che alla riflessione”.

Con quali effetti?
“Se consideriamo poi che classi sempre meno attrezzate culturalmente si sono impossessate di questi mezzi, che inoltre hanno una grandissima attrattiva di carattere ludico, si capisce perché facciano maggiormente presa i cosiddetti messaggi in grado di colpire più la pancia che la testa. Se pensiamo poi a come è facile, in questo particolare contesto, diffondere vere e proprie bufale di facile presa, ci rendiamo conto che ci siamo cacciati in un bel guaio. Con tutta questa tecnologia siamo tornati indietro di un secolo, quando si usavano grandi manifesti con frasi a effetto, rincorrendo in ogni momento allo slogan che può colpire di più. La complessa metrica degli algoritmi fa poi sì che sui social più evoluti come Facebook, ad esempio, si venga spinti a trovarsi nel gruppo che la pensa come te, rendendo ancora più facile inviare messaggi ad hoc a gruppi omogenei (in questo senso il caso Cambridge Analytica ha fatto scuola). Viste tutte queste problematiche, chi afferma che la rete è il vero luogo della democrazia, dice una clamorosa sciocchezza”.

Ma è una sfida che ha possibilità di essere vinta quella di rispondere al populismo usando gli strumenti del web?
“Direi che non c’è altra strada, anche perché ogni corpo malato ha sempre in sé gli anticorpi per reagire. Con la stessa velocità con cui si mandano messaggi di pancia, con l’ironìa – ad esempio – si possono smentire le bufale, e comunque si può trovare il modo per fare una sana controinformazione. Ma è un lavoro ben più complesso rispetto a una ospitata in qualche talk show…”.

Dalla comunicazione politica ad altri argomenti che affronta in McLuhan non abita più qui?. Come racconta, la pervasività di internet ci espone a una connessione permanente così onnipervasiva da non far sembrare azzardato parlare di una ‘mutazione antropologica’ in atto. La preoccupa il futuro prossimo che attende l’umanità, viste queste premesse?
“Francamente mi preoccupa di più l’entusiasmo verso le magnifiche sorti e progressive di tecnologie come robotica e intelligenza artificiale. A dimostrarlo sono ancor più grandi imprese, che hanno oramai capacità finanziarie enormi, e che hanno tutto l’interesse a impadronirsi della nostra privacy per dirci cosa leggere, cosa mangiare, come divertirci, a cosa credere. Non intendo negare le grandi opportunità fornite dai motori di ricerca o dallo sviluppo della geolocalizzazione (sono solo due dei moltissimi esempi possibili), ma comincia a essere evidente la presenza di effetti collaterali che possono minare alla base lo stesso concetto di democrazia. Non a caso, proprio in questi giorni, a San Francisco hanno cominciato a porre dei limiti al riconoscimento facciale tramite le videocamere di sicurezza…  proprio nel cuore della Silicon Valley!”.

Lei nel suo saggio riflette in particolare sulla costante attenzione parziale che, con il multitasking, “ci sovraccarica di prestazioni neuronali finendo per destrutturare il nostro pensiero”: non c’è via d’uscita? O ci si può opporre a questa tendenza, che comporta non pochi rischi?
“La costante attenzione parziale è frutto di un combinato disposto che sta creando gravi danni. Per poter fare più cose, l’uomo moderno si rifugia nel multitasking, che è un’attività tipica di un sistema informatico, ma non del cervello umano. Finalmente si cominciano a diffondere le ricerche di autorevoli studiosi che dimostrano che il passare rapidamente da un compito all’altro ha dei costi cognitivi che annebbiano la memoria e rallentano i tempi di reazione. C’è stata una classe di insegnanti – a digiuno di elementari nozioni di informatica – che ha lasciato gestire i mezzi informatici ai ragazzi, considerati più esperti. Persino l’ex ministra dell’Istruzione Fedeli aveva caldeggiato l’uso del cellulare in classe, commettendo un vero delitto educativo, forse per apparire più moderna, e dimenticando che oggi il cellulare è forse il più potente mezzo di distrazione di massa”.

Una visione assai critica.
“Nel mio saggio spiego come i nuovi mezzi possono essere usati con successo, ad esempio in pubblicità, e in particolare nella comunicazione sociale, ma ricordo anche alcuni dati che pochi conoscono”.

Ad esempio?
“Grandi imprenditori delle nuove tecnologie, come Gates e Jobs, hanno cresciuto i loro figli tenendoli lontani il più possibile da cellulari e videogiochi. Ricordo anche, citando autorevoli neurologi, come sia fondamentale sviluppare fino ai sette-nove anni la scrittura a mano, così che dopo si sia in grado di padroneggiare i mezzi informatici invece di esserne schiavi fin da piccoli. C’è una spiegazione direi incontrovertibile”.

Quale?
“Nella storia dell’uomo, è stato dimostrato che il linguaggio ha sempre favorito lo sviluppo del cervello. Ed è pure stato dimostrato che il linguaggio ben strutturato dipende dalla scrittura. Come mai? Semplificando, quando da piccoli scriviamo con fatica le prime lettere sul quaderno di prima elementare, da alcuni neuroni parte un segnale che arriva lungo il braccio alla mano, per spingere le dita a disegnare le stanghette, i circoli, eccetera. Nel frattempo parte un segnale all’indietro, che va a informare altri neuroni vicini ai primi, così che il ricordo di quella lettera è fatto dell’ordine di disegnarla e della testimonianza della forma disegnata. Far mettere precocemente ai bambini le dita sulla tastiera di un pc o di un cellulare, rimanda per ogni lettera – come segnale di ritorno al cervello – dei quadrati tutti uguali, il che porterà poi quei bambini ad avere dei ritardi di linguaggio, perché privo nel cervello delle sue strutture fondamentali: la forma delle lettere”.

Non una prospettiva entusiasmante.
“Uomini e cittadini incapaci di approfondire, e quindi sempre più impressionabili da immagini e frasi brevi: perfetto gregge da consegnare a chi sa usare bene i mezzi di cui saranno diventati schiavi”.

Come opporsi?
“L’unico modo è diffondere in famiglia, a scuola e al lavoro dei metodi educativi che non sono antichi, ma semplicemente fondamentali, perché basati su una logica analogica, come quella del nostro cervello. Che – a ben guardare – in milioni di anni è rimasto più o meno quello. Sapendo che una mente analogica ben allenata, sarà in grado di padroneggiare qualunque applicazione digitale”.

 

 

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