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Manzini al debutto da regista: “Una commedia surreale per raccontare la realtà”

Ai primi posti delle classifiche da mesi con le Cinque indagini romane per Rocco Schiavone (Sellerio), Antonio Manzini ha visto confermato l’amore del pubblico per il suo commissario sui generis, che si muove in equilibrio precario lungo il crinale che separa giustizia e illegalità, tra ironia, colpi di scena, indagini… Quest’ultima uscita ha sfidato due luoghi comuni ben radicati, smentendo al tempo stesso i pregiudizi sui prequel e sui racconti brevi. In più, questo sarà un anno pieno di sorprese per Manzini, che si è cimentato in un suo film, Cristian e Palletta contro tutti. Inoltre, presto anche Rocco Schiavone prenderà “vita” sullo schermo e la sceneggiatura è curata dallo stesso Manzini.

In molte interviste che ha rilasciato in questo periodo, ha raccontato che il film è un omaggio a Samuel Beckett, dal momento che Cristian e Palletta contro tutti racchiude tratti di commedia dell’assurdo, con tocchi surreali. A suo parere, ricorrere all’assurdo è un modo per evadere dalla realtà o per raccontarla?
“Per me è un modo per raccontare la realtà, anche Beckett utilizzava l’assurdo in tal senso (si pensi, ad esempio, al suo Giorni felici). Anzi, a pensarci bene credo che l’assurdo sia l’unico modo per raccontare la realtà: pensando a una nostra giornata, quanto di assurdo e grottesco vi troviamo?! Tantissimo; allo stesso modo, anche in noi convivono queste due componenti. In più è un ottimo strumento per unire diversi generi, per alternare commedia e comicità, in un esercizio di stile e divertimento. Questa escursione di sensazioni è continuamente confermata dalla realtà, non credete?”.

A proposito di Rocco Schiavone, anche il suo amatissimo protagonista arriverà in tv. C’è molta attesa, si sa poco ma… Quali caratteristiche non vede l’ora di portare sullo schermo?
“Un po’ tutte, perché mi sono occupato io delle sceneggiature, che ho cercato di tenere il più aderenti possibili ai miei libri. Un po’ perché sono i miei libri e quindi sarebbe difficile staccarmici; un po’ perché bisogna essere molto ligi nel trasporre un romanzo sullo schermo. A mio parere occorre essere il più possibile precisi, rispettosi, a meno che non ci sia l’intenzione deliberata di stravolgere il romanzo, con formule come ‘liberamente ispirato a…’. In ogni caso, sono anch’io in attesa, perché non sono mai stato presente sul set. Certamente il regista e gli attori aggiungeranno qualcosa di loro, come avviene in ogni rappresentazione, e io scoprirò cose del mio protagonista che non avevo mai pensato. Insomma sarà una vera sorpresa, vedere Rocco Schiavone filmato e… vivo! Fa paura, ma penso che sia normale”.

I suoi lettori sono certamente in trepida attesa! Anche durante il suo incontro al recente Salone di Torino, tanti lettori hanno posto domande e interloquito con lei come se Rocco Schiavone fosse un loro amico. Allora viene davvero da chiedersi: ha idea di cosa leghi i lettori a questo desiderio di autografi, strette di mano del proprio autore preferito?
“Non lo so davvero, forse la curiosità umanissima di vedere come cammina, come si muove questo o quello scrittore, ma una stretta di mano non migliora il libro; anzi, il più delle volte toglie parte della forza alle parole scritte. Mi spiego meglio: senza falsa piaggeria, trovo che sia abbastanza deludente incontrare l’autore di un libro che si ama. Se c’è un libro che ho amato, mi interessa solo la carta stampata, non la faccia di chi lo ha scritto. Eppure… Forse si tratta di bisogno di certezze? O della tendenza attuale di vivere dell’immagine riportata? Molti scrittori sono felicissimi di farsi vedere, per nutrire il loro ego; più che questi, io amo Anne Tyler per essere tanto schiva e affidare le sue parole ai libri…”.

Dunque si può spiegare anche così il fatto che lei preferisce dedicare il tempo della scrittura alla narrativa e meno alla tv?
“Sì, ormai scrivo tantissima narrativa, e riduco sempre più la scrittura per tv: è un mondo che mi ha proprio annoiato, un po’ predatorio, un po’ cafone…”.

Dopo esserci confrontati con Alessandro Robecchi, vorremmo avere anche il suo parere: quali sono i pregi dei gialli italiani?
“Il giallo, come qualsiasi tipo di romanzo, è espressione del paese che lo partorisce; ci sono differenze tra italiani e nordici: non sono diversi solo come scrittori, ma proprio gli uomini, figli di educazioni e religioni diverse. La stessa educazione cattolica crea una distanza incolmabile da quella protestante; anche su chi, come me, non crede, ha comunque un’influenza da cui è difficile (se non impossibile) staccarsi del tutto. Data questa premessa, noi italiani abbiamo un paese molto diversificato da raccontare: a pochi chilometri si trovano realtà completamente diverse. Non solo tra Nord e Sud: si pensi, ad esempio, a Roma e all’Umbria; o al Veneto e alla Val d’Aosta, dove è stato trasferito il mio protagonista. E ognuna di queste zone ha un’altra ricchezza: il dialetto. È vero che se leggi le poesie di Pasolini senza sapere il friulano, capisci ben poco; ma se trovi sulla pagina un uso edulcorato del dialetto, un po’ come fa Camilleri, anche l’italiano ne giova e ne trae nuova linfa”.

Intravede anche alcuni difetti o svantaggi nei gialli italiani?
“Lo svantaggio, se c’è, è che gli italiani sono molto scettici: il lettore anglosassone è pronto a bersi molte storie inverosimili; il lettore italiano è molto più colto, attento, e respinge ciò che non è verosimile! Questo invece non avviene in Gran Bretagna, in America o nei Paesi nordici: ad esempio, amo l’esotismo dei gialli nordici, ma se fossi un cittadino di Copenaghen, non crederei a tre quarti delle cose che leggo! Se Rocco Schiavone incontrasse un serial killer ad Aosta, molti storcerebbero la bocca: noi italiani dobbiamo essere verosimili, è il lettore italiano a richiederlo. E noi lo dobbiamo rispettare, perché il libro si fa insieme. Ora che ci penso, in realtà questo senso critico è un pregio, non è un difetto, rafforza il rapporto tra lettore e scrittore. Se, da scrittore italiano, sei poco onesto e viri verso mondi paralleli scrivendo un thriller (e non un fantasy), allora il lettore non te la perdona, si sente tradito. Invece in tv ci mettiamo d’accordo all’inizio che è tutta una fiction e allora nella Gubbio di “Don Matteo” possono esserci duemila omicidi e nessuno batte ciglio… Non so se in un romanzo questo reggerebbe; anche Camilleri si allarga, fa uscire alcune storie dai confini di Vigàta, perché non può esserci tutta questa delinquenza in un paesino. Ah, ecco, ho trovato il limite dei gialli italiani: la dipendenza culturale dai romanzi anglosassoni, da cui invece è necessario staccarsi. E, infine, nel nostro DNA portiamo il blando cattolicesimo della nostra educazione che ci fa essere un po’ retorici (anche se, per me, questa è la porta dell’inferno!). Molti scrittori italiani temono che un romanzo, se non è pieno di parole incomprensibili e concetti astrusi, non sia un buon romanzo. La scelta di frasi circonvolute non comunica altro che noia. Io penso che un buon romanzo sia scritto in modo onesto, civile, degno e gioioso, uno scrigno di storie”.

Sempre facendo un confronto tra l’Italia e l’estero, molti colleghi-scrittori si lamentano per l’apporto della tecnologia, che sta un po’ rivoluzionando le leggi del giallo. Molti romanzi di Agatha Christie non sarebbero più possibili, all’epoca dello smartphone, dell’esame del DNA… L’avanzamento tecnologico è un’opportunità o un ostacolo per lei?
“In Italia la tecnologia a volte non serve a niente. Quel che si vede in America è incredibile, ci sono una bravura e una precisione pazzesche. Qui non è così: basti pensare che per un esame del DNA ci vogliono venticinque giorni – e ne succedono di cose, nel frattempo! In più, ha presente le cellule a cui si attaccano i cellulari? Ecco, spesso anche questi dati non sono precisi, da un numero non è immediato capire i tabulati delle chiamate e ci vogliono comunque scartoffie su scartoffie… A me piace questo pressapochismo, mi diverte. Anche nelle indagini vere ci sono errori così pacchiani che gli americani non farebbero (o perlomeno non divulgherebbero), perché vogliono vedere il barattolo di ketchup sempre pieno; ma noi, che abbiamo avuto la commedia latina, siamo i primi ad accettare queste assurdità, e a volte a riderne. E poi, diciamocelo, anche i telefonini… a un certo punto li ignori. L’omicida, se è bravo, lascia a casa lo smartphone e non si fa rintracciare. Insomma, la tecnologia non deve limitare la nostra invenzione; anzi noi scrittori dobbiamo fronteggiarla e giocarci”.

Un’ultima domanda non può che essere dedicata a Rocco Schiavone. C’è un nuovo libro in vista per quest’anno?
“Sì, arriverà in estate e s’intitolerà 7 luglio 2007, una data particolarmente significativa per Rocco Schiavone, e i lettori affezionati sanno a cosa mi riferisco… [n.d.r. e Manzini schiaccia l’occhio]”.


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