“I due anni di stesura di questo libro sono stati due anni di gioia. Probabilmente ero felice perché stavo scrivendo”. Jonathan Safran Foer è tornato in libreria con “Eccomi”, e il suo terzo romanzo è uno dei più importanti dell’anno. In una lunga intervista a ilLibraio.it l’autore di “Ogni cosa è illuminata” si racconta a tutto campo: “Per me la scrittura è qualcosa che costantemente ti chiede. Ed è difficile da soddisfare. È come una macchina non efficiente che ha continuamente bisogno di benzina. Quando scrivo sono costantemente alla ricerca di questa benzina”

Eccomi. Dopo undici anni di assenza dal romanzo, un’incursione nel mondo televisivo e nella non-fiction con il saggio-manifesto contro il consumo di carne Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda, 2009) l’enfant prodige della letteratura americana, Jonathan Safran Foer è di nuovo pronto a dire ai suoi lettori: Eccomi. È questo infatti il titolo dell’ultimo libro del 39enne autore di due best seller, divenuti anche pellicole, osannati da pubblico e critica: Ogni cosa è illuminata (Guanda, 2002) dove il giovane protagonista ebreo americano, Foer stesso, intraprende un viaggio alle origini in Ucraina, terra natale dei nonni, e Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005), la storia di Oskar Schell un ragazzino di nove anni alla ricerca della serratura che verrà aperta da una misteriosa chiave, ultimo legame con il padre morto durante l’attentato alle Torri Gemelle.
Nato a Washington, ma residente a New York, in questi anni Foer ha avuto un matrimonio decennale con la scrittrice Nicole Krauss, finito nel 2014, e due figli. La trama del romanzo ha fatto ipotizzare ad un certo autobiografismo che lui non conferma né smentisce.

Storia di una famiglia in crisi: un romanzo sulle nostre fragilità

Al centro del libro, ambientato a Washington, c’è in ogni caso una famiglia in crisi, la famiglia Bloch: Jacob, 40enne sceneggiatore tv e Julia, architetto sono in crisi coniugale, con se stessi e con le proprie ambizioni; i loro tre figli Sam, Max e Benjy si destreggiano tra ribellioni adolescenziali e domande esistenziali; il padre di Jacob, Irv, ebreo oltranzista, ha un infuocato blog dove denuncia l’odio del mondo verso il suo popolo; il nonno Isaac, sopravvissuto all’Olocausto, vagheggia il suicidio mentre il cane Argo manifesta i primi sintomi di una malattia. La corda delle tensioni si fa sempre più sottile fino a quando un forte terremoto colpisce il Medio Oriente e una coalizione di paesi della Transarabia invade lo stato di Israele. Di fronte a questo scenario imprevisto, tutti sono costretti a confrontarsi con scelte a cui non erano preparati, e a interrogarsi sul significato della parola “casa”.

Tra religione e maieutica

La risposta? “Eccomi” era stata quella di Abramo sia a Dio sia al figlio Isacco di cui gli viene chiesto il sacrificio. Abramo è completamente presente per entrambi. «Ma come è possibile?» si interroga Jacob. Il ruolo della religione ebraica e della sua ritualità sono fondamentali nel testo di Foer. L’incipit è tutto incentrato sulla possibilità o meno di realizzare il Bar Mitzvah del primogenito, Sam, dopo il ritrovamento da parte del rabbino di un foglio contenente un elenco di parole imputate di razzismo. Proprio Sam, che nella sua realtà virtuale, Other Life, ha l’identità di una ragazza latinoamericana intenta a ricostruire una sinagoga. Echi della Macchia umana di Philip Roth? «In realtà è uno dei pochi libri di Roth che mi manca. Lo leggerò sicuramente», ci confessa candidamente Foer. Ma in questa intervista per ilLibraio.it – una delle prime realizzate dal suo arrivo in Italia per una serie di presentazioni – sono diverse le sue confessioni. Perché le interviste hanno risvolti positivi e negativi. Da un lato “mi portano a rivelare al mondo il mio intimo”, dall’altro consentono di esplorare nuove interpretazioni: “Aver scritto il libro non significa che ci abbia riflettuto nel modo in cui sono portato a fare quando un giornalista mi pone delle domande”. E l’esperienza si rivela maieutica.


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La ricerca della felicità è uno dei capisaldi della Costituzione americana e una vera ossessione per il protagonista del romanzo, Jacob. Leggendo un saggio di David Grossman, uno dei suoi autori preferiti, ho trovato questa citazione di Natalia Ginzburg: “Quando siamo felici, la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria”. Cosa significa la felicità per uno scrittore?
“È estremamente complicato. Scrivere è una fonte di gioia e viceversa. Per me è molto più difficile scrivere se non sto bene. Devo ammettere tuttavia che la mia scrittura non va a ricercare le emozioni, quanto le crea. I due anni di stesura di questo libro sono stati due anni di gioia. Probabilmente ero felice perché stavo scrivendo. Questa citazione di Natalia Ginzburg è molto bella. Non avevo mai pensato al fatto che l’infelicità possa riportarci più facilmente ai ricordi. Nello scrivere io uso la memoria, ma in maniera un po’ diversa”.

Come?
“La uso per andare a cercare dei dettagli utili alla stesura del libro. Per esempio alcune descrizioni fisiche. Penso all’appartamento di Isaac: ricorda molto l’appartamento in cui viveva mia nonna. Oppure per alcuni ricordi tangibili dell’essere genitore, quando nasce un figlio e devi prenderti cura di lui. Sono memorie che non mi hanno assolutamente portato tristezza, anzi, mi hanno dato gioia e si sono rivelati utili. È anche vero che ogni scrittore è diverso”.

Pensa a qualcuno in particolare?
“A Joyce per esempio. La sua scrittura nasce dalla malinconia, dalla gelosia. Questi sentimenti gli davano l’energia necessaria per scrivere. E Roth dice che per scrivere hai bisogno di trovare l’attrito, gli scontri verbali che ti danno la forza e lo sprone per la tesi che vuoi portare avanti nel tuo romanzo. Io non ho questo tipo di approccio. Per me la scrittura è qualcosa che costantemente ti chiede. Ed è difficile da soddisfare. È come una macchina non efficiente che ha continuamente bisogno di benzina. Io quando scrivo sono costantemente alla ricerca di questa benzina”.

Ha citato Philip Roth. Nel 1986 incontrò Primo Levi per un’intervista nel suo studio. A un certo punto vide una figura di rame, fatta da Levi stesso, appesa dietro una scrivania e, non sapendo cosa rappresentasse, lo chiese a Levi. “Un uomo che si suona il naso” rispose. “Un ebreo” suggerì Roth. E i due risero insieme.
“È tipico dell’ebraismo portare avanti questo tipo di umorismo che è spesso un po’ deprecatorio. Prendersi in giro in maniera mirata. Deve darti piacere, ma allo stesso tempo deve anche imbarazzarti e non farti stare a tuo agio. È un modello di umorismo ebraico che ha questo duplice scopo. Ne so qualcosa”.

Non a caso nel romanzo Jacob e suo figlio Max discutono di cosa significhi essere un modello, avere importanza. Per Max il massimo riferimento è Kayne West. Per Jacob Philip Roth. Riferimenti, linguaggio e modalità di esprimere le emozioni di genitori e figli sono centrali in Eccomi. Qual era il suo intento nel descrivere questo rapporto?
“Il mio di certo non può essere inteso come un libro di mutuo soccorso o in cui si danno consigli su come comportarsi con i propri figli. È semplicemente un romanzo che descrive una famiglia in un momento particolare della sua vita. Racconta delle cose che vanno bene, di altre che vanno meno bene, ma non vuole essere una rappresentazione della famiglia ideal”e.

Sam ha Other Life, Jacob i suoi sms: i personaggi del libro hanno un legame particolare con la virtualità.
“Ci sono diverse alternative al mondo reale. Per alcuni l’alternativa è lo schermo di un computer o quello di un telefonino. Per altri possono essere semplicemente delle immagini. Pensiamo a Julia: lei crea dei modelli di case in cui nessuno andrà mai a vivere. È il suo modo per essere altrove. Sam è altrove attraverso Other Life, Jacob ha i suoi sms e la ricerca spasmodica di case online, case che non comprerà mai. Persino Irv, il padre di Jacob, con il suo blog ha il suo modo per essere altrove. Questa famiglia è organizzata proprio per permettere ai diversi personaggi di crearsi un altrove. Tutto questo trova un equilibrio, sostenibile fino a quando il telefonino di Jacob viene trovato e fino a quando scoppia il terremoto in Israele: c’è un momento di crisi che impone ai personaggi di dire chiaramente dove sono e dove vogliono essere”.

“Jacob avrebbe voluto piangere, ma non poteva. Ma non poteva neanche nascondere il suo nascondersi. Lei gli accarezzò i capelli. Non lo stava perdonando di niente. Di niente. Non dei messaggi, non degli anni. Ma non riusciva a non rispondere al suo bisogno. Non voleva, ma non riusciva a non farlo. Era una versione dell’amore. Ma una religione non si regge sulle doppie negazioni”. Ebraismo e amore non ammettono doppie negazioni.
“In un passaggio precedente, parlando dell’ebraismo, Jacob usa una serie di doppie negazioni, che qui ritornano. Il suo rapporto con la religione probabilmente era vero, era saldo, ma non esprimeva una sua vera scelta o effettiva preferenza. Ecco allora come un momento di crisi come quello di cui si parla nel libro permetta di rivelare quanto fosse sottile e poco profondo il suo legame con la religione. Allo stesso modo la scoperta del telefono mette in luce quanto fosse instabile il matrimonio con Julia. Non perché lui o Julia abbiano fatto qualcosa di male, ma semplicemente perché nessuno dei due ha fatto ciò che serviva affinché la relazione andasse bene. Entrambi sono un po’ pigri da un punto di vista emotivo e persino etico. Sono delle brave persone, però questo non basta”.

Una riflessione amara…
“È raro che nella nostra vita ci sia data la possibilità di vederci riflessi in qualcos’altro. Così facciamo scorrere gli anni, i mesi semplicemente andando avanti, senza rivederci. Poi però avviene un avvenimento scioccante, una malattia o una catastrofe globale che ci risveglia e ci fa pensare: ‘Ehi, cosa sto facendo?’. È successo un anno fa con l’immagine del piccolo Aylan. Tante persone, anche tra i miei amici, di fronte a quella foto si sono detti: ‘Che cosa sto facendo della mia vita?’. Questa era l’idea del terremoto nel romanzo: creare un evento sconvolgente che permettesse ai personaggi di riflettersi e di guardarsi dentro”.

Riguardo alla foto scattata ad Aylan, ha scatenato un dibattito anche nell’ambito letterario. La forza e le conseguenze scaturite hanno portato il mondo intellettuale a interrogarsi se oggi la fotografia abbia superato la letteratura nel rappresentare la realtà. Lei cosa ne pensa?
“Penso che non abbia senso questo dibattito. Sono due cose semplicemente diverse. L’aspetto fondamentale della letteratura è che permette ed evoca una risposta personalizzata e individualizzata. Le immagini sicuramente forniscono più informazioni. La letteratura è meno immediata di una fotografia, ma richiede al lettore una maggiore partecipazione, più lavoro. Forse sembra che oggi i libri abbia meno impatto rispetto alle immagini, ma in realtà hanno le potenzialità per essere più coinvolgenti. Il lettore in un certo senso diventa co-autore, cosa che non succede con la fotografia”.

Buona parte del dibattito culturale negli Stati Uniti si è spostato online con siti e riviste letterarie digitali: le segue?
“A dire la verità non trascorro il mio tempo online. Ho solo un indirizzo email. Ogni tanto, ma proprio sporadicamente, guardo le news su internet, ma veramente molto poco”.

La critica tradizionale, dunque. D’altro canto in Eccomi c’è un passaggio in cui Jacob rivela di aver copiato parte di una sua tesina da un saggio di Harold Bloom, la massima autorità per il mondo letterario statunitense.
“Credo di aver scambiato un paio di email con Harold Bloom, ma non erano personali. È stato divertente e mi sono goduto quel momento. Tuttavia i libri sono pieni di questi attimi e riferimenti, ma spesso significano altro. Quasi sempre un momento è solo ciò che è. E quello con Harold Bloom ne è un esempio”.

Eccomi è il titolo del libro. Ma nella sua vita quando ha pronunciato questo tipo di “eccomi, sono qui”?
“Non so rispondere esattamente. È ovvio che è una frase che ha significati e sfumature diversi a seconda dei contesti. Ed è una frase che necessariamente deve essere rivolta a qualcuno. Quindi man mano che la nostra vita cambia, si dice a persone diverse e alle quali ci si vuole presentare in maniera incondizionata. Non so se l’ho mai detto in quei modi e in quei termini. Sicuramente la mia vita è una costante ricerca, è un tentativo di diventare un uomo con una propria identità e completamente integrato con se stesso”.

In questo romanzo c’è una profonda differenza tra ciò che i personaggi dicono e quello che fanno. Sembra non riescano a concretizzare le loro parole. È un atteggiamento molto comune oggigiorno…
“Forse non c’è niente di nuovo in tutto questo. La domanda è: ‘Le parole dove cominciano? E dove finiscono? Qual è il loro potere e quali i limiti?’. Pensiamo a quello che succede a Sam: non solo quelle del famigerato foglio erano semplicemente delle parole, ma non erano nemmeno rivolte a qualcuno. Oppure gli sms di Jacob: sembrano qualcosa di sbagliato, che non avrebbe dovuto fare, ma sono più o meno sbagliate di un’infedeltà fisica? Anche Irv è un vulcano di parole, sembra che voglia invitare tutti col suo blog ad andare a lottare in Israele. Poi quando si tratta di Jacob restano solo parole che non intendeva veramente. Io ho lavorato per un paio d’anni ad uno show televisivo della HBO, All talk (tutti parlano, ndr) e questo titolo mi risuonava in testa mentre scrivevo Eccomi“.

A proposito di tv, ha intenzione di collaborare ancora? Jacob è uno sceneggiatore di serie televisive. Lei quali guarda?
“Ho soltanto provato a lavorare per uno show televisivo, mi sono voluto mettere alla prova, ma poi ho capito che non era una cosa per me. Riguardo ai programmi che guardo, non sono appassionato a niente in particolare. Sono capace di stare seduto per cento ore, mangiando popcorn. Così come nel libro i personaggi devono trovare un altrove, la televisione è il mio altrove. Posso guardare qualsiasi cosa: una partita di calcio o Breaking Bad, le news o una commedia. Tuttavia non cerco un significato, non cerco di esprimermi o di trovare qualcosa in più. È semplicemente un’evasione totale, il mio altrove. E non so nemmeno se mi faccia tanto bene”.

Qual è il suo rapporto con Guanda? Il libro è uscito in contemporanea con gli Stati Uniti…
“Ho un rapporto molto speciale con Guanda. Innanzitutto perché è stato il mio primo editore, ancor prima che negli Stati Uniti. È stato un vero e proprio atto di fede. All’epoca, quando mi venne fatta l’offerta per l’acquisto del mio primo romanzo, Ogni cosa è illuminata, ricevetti una lettera dall’editore, Luigi Brioschi, che mi toccò davvero tanto. La lettera conteneva degli apprezzamenti sul mio romanzo, ma soprattutto cercava di spiegare quale fosse l’atteggiamento dell’editore e il significato profondo dei libri, di cosa volesse dire per Luigi portare un libro al mondo, farlo conoscere ai lettori. Una lettera che trovai assolutamente credibile. È facile dire delle cose carine e anche manipolare la persona che ti ascolta. Invece questa lettera non voleva fare niente di tutto ciò. Era molto articolata. Questo è un ricordo fortissimo per me che ha creato un senso di profonda fiducia nei confronti del mio editore”.

E con l’Italia?
“In Italia ho vissuto i momenti più belli come scrittore. Ho fatto una lettura al Foro Romano e una Mantova anni fa. Non solo sono state le più belle letture che ho avuto in vita mia, ma probabilmente fra i ricordi più indelebili della mia esistenza”.

Ora che il libro è uscito ne parlerà più volte in pubblico e con i giornalisti: come si è preparato?
“Non mi sono preparato. Mi piacerebbe averlo fatto, ma non avrei saputo da dove cominciare. È di sicuro un’esperienza unica perché mi dà un’esposizione forte. È un po’ un mix di cose belle e brutte: sto portando fuori qualcosa di molto intimo e lo sto dando al mondo. Lei è tra i primi giornalisti che incontro e questo sarà un percorso molto lungo. Mi ha trovato all’inizio. Non ritengo assolutamente noioso il confronto coi giornalisti, anzi. Io ho scritto il libro, ma ciò non vuol dire che ci abbia riflettuto nel modo in cui sei portato a fare quando un giornalista ti pone delle domande. Quindi fino adesso è stata un’esperienza molto positiva”.

Bene così.

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