Un romanzo che sin dalle prime pagine conduce il lettore nei recessi della psiche umana. Su ilLibraio.it un estratto

Dieci anni cambiano una persona. A dieci anni dalla fine del liceo Leonora Shaw, Nora, ne ha fatta di strada: è diventata una scrittrice, la sua vita è scandita dal lavoro alla scrivania nel suo monolocale dell’East End londinese, dalle tazze di caffè e dalle corse nel parco. Della vecchia Leonora non resta più nulla, nemmeno il nomignolo di allora, Lee. Tutti possono avere mille buoni motivi per non frequentare gli amici di un tempo, per troncare con il passato, per incominciare una nuova vita. E Nora ha un ottimo motivo. Eppure, quando riceve l’invito all’addio al nubilato della sua ex amica del cuore, si fa strada in lei un assurdo senso di colpa unito a un assurdo sentimento di riconoscenza verso Clare per essersi fatta viva dopo dieci anni. Sebbene con riluttanza, accetta di trascorrere un weekend in una villa nei boschi del Northumberland insieme ai vecchi amici, e di colpo si trova catapultata indietro nel tempo di dieci anni, in quel passato che ha meticolosamente cercato di cancellare. E capisce di aver commesso un errore…
E’ la trama de L’invito, thriller di Ruth Ware (nom de plume di una scrittrice inglese classe ’77), in uscita nelle librerie italiane per Corbaccio e già molto apprezzato all’estero.

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Su ilLibraio.it un estratto
(per gentile concessione di Corbaccio)

Sto correndo.

Corro nel bosco rischiarato dalla luna, tra rami che mi strappano i vestiti mentre inciampo in mezzo alle felci appesantite dalla neve, le braccia frustate dai rovi.

Il respiro mi ferisce la gola, mi fa male. Sono tutta dolorante.

Pero continuo a correre. Si, questo posso farlo.

Quando corro ho sempre dentro un mantra che mi batte nel cervello: il ritmo che voglio prendere, o le frustrazioni da calpestare sotto ogni passo contro l’asfalto.

Ma stavolta c’è un’unica parola, un unico pensiero che mi batte dentro.

James. James. James.

Devo arrivare là. Devo arrivare alla strada prima che…

E poi eccola lì, una nera serpe di asfalto al chiarore della luna, mentre mi giunge alle orecchie il rombo di un motore che si avvicina e le righe bianche risplendono, talmente vivide da ferirmi gli occhi, i tronchi degli alberi neri come squarci contro la luce.

E troppo tardi?

Mi sforzo di andare avanti per gli ultimi trenta metri, incespicando nei tronchi caduti, con il cuore che mi batte forte come un tamburo.

James.

Si, e troppo tardi, l’auto e troppo vicina, non posso fermarla.

Mi butto a terra, le braccia tese.

« Ferma!»

 

Mi fa male dappertutto, tutto mi ferisce: la luce negli occhi, le fitte martellanti alla testa. Odore di sangue nelle narici, mani appiccicose di sangue.

«Leonora?»

La voce si fa strada, flebile, in mezzo a una nebbia di dolore.

Cerco di scuotere la testa ma le mie labbra non vogliono saperne di formulare la parola.

«Leonora, sei al sicuro, ti trovi in ospedale. Ora ti sottoporremo a una TAC.»

È una donna, e parla con calma e chiarezza. La sua voce mi stride nelle orecchie.

«C’è qualcuno che vorresti avvisare?»

Provo di nuovo a fare segno di no.

«Non muoverti cosi», mi dice. «Sei ferita alla testa.»

«Nora», sussurro.

«Vuoi che telefoniamo a Nora? Chi e Nora? »

«Sono io… E cosi che mi chiamo.»

«D’accordo, Nora. Ora cerca di rilassarti. Non sentirai male.»

E invece sento male eccome. Tutto mi fa male.

Cos’è successo?

Che cosa ho fatto?

(continua in libreria…)

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