“Non ho mai viaggiato come con ‘L’isola del tesoro’, il più bel libro di avventure piratesche in cui mi sia mai imbattuta…”. La scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it il capolavoro di Robert Louis Stevenson: “Ci si ritrova improvvisamente bambini di nuovo, con tutta l’intatta insolenza dell’immaginazione che tiene con il fiato sospeso…”

Non sono mai stata in barca, se non per brevi tragitti da cui uscivo scarmigliata e pallida, con lo stomaco rovesciato. Sono nata e cresciuta a Milano e soffro il mal di mare; non conosco i termini del lessico marinaresco se non per averli letti, senza mai capire bene a cosa si riferissero, in un certo numero di libri quando ero bambina. Da bambina sono stata nel Borneo con Sandokan e i suoi tigrotti, pensando di amare Yanez de Gomera per molti libri prima di accorgermi dell’errore, perché in realtà ero chiaramente innamorata della Tigre.

Non ho mai saputo se l’isola di Labuan esista o no, e siccome so quanto sarebbe facile controllare, evito di farlo. Nell’interminabile bonaccia che si allargava per pagine e pagine, ho visto l’ammutinamento come un lungo tuono che avvolge i silenzi indecifrabili di Benito Cereno. Billy Budd, biondo e bello, me lo sono visto impiccare davanti agli occhi, senza per questo avere mai capito cosa mai fosse, di preciso, un gabbiere di parrocchetto. Ma non ho mai viaggiato come con L’isola del tesoro, il più bel libro di avventure piratesche in cui mi sia mai imbattuta; il più bello per chi non capisce cosa voglia dire babordo e nemmeno tribordo e non sa cosa sia una squarcina, e si concede di navigare in questo magnifico indefinito universo di parole ignote. Rileggerlo oggi è stata un’impresa bizzarra, che inaspettatamente si è aperta – come l’oceano intorno a quell’isola dalla forma di un ‘obeso drago rampante’ – all’orizzonte immenso di quello che, molto semplicemente, è per me la letteratura.

Lo rileggo oggi, L’isola del tesoro, in un’edizione Adelphi della traduzione bellissima di Lodovico Terzi che ha, in fondo, un piccolo glossario dei termini marinareschi; lo rileggo in un’edizione diversa da quella illustrata, con una copertina rigida bianca e blu che ora probabilmente odora di umido su qualche mensola in campagna, su cui passai molti pomeriggi di una vacanza di Natale nella seconda metà degli anni novanta, quando avevo poco più di dieci anni e Google Maps era qualcosa di inimmaginabile.

Mi domando se non nasca proprio da queste letture di mare il piacere che oggi sento a sperperare il mio tempo guardando su Google Earth le immagini di paesaggi che non vedrò mai, ignorandone bellamente longitudine e latitudine, perdendomi nei verdi e negli azzurri remoti, nelle vie di città sconosciute che immortalano qualche passante distratto, che fissano un istante rendendolo semplicemente, e una volta per tutte, lontano. Rileggo L’isola del tesoro e non ho bisogno di cercare immagini di mari o isole che forse esistono e forse no, perché sono già tutte nel libro quelle immagini, e hanno il fascino inafferrabile delle carte degli atlanti mezzo dimenticate; lo rileggo e resisto alla tentazione di spulciare il glossario dei termini marinareschi; penso che sia per pura pigrizia, e probabilmente è così. Eppure mi tengo stretta questa incomprensione, questi salti e questi inciampi dell’immaginazione a cui manca la terra sotto i piedi, questi balzi che costringono a colmare i vuoti di quello che si ignora proprio come sembrava facile fare da bambini.

Mi aggrappo a fiocchi e trinchetti, alla coffa e alla gomena, alle paratìe e ai paterazzi; al fatto di non sapere esattamente come siano fatti, e mi dipingo nella testa una gran nave di sogno, una ciurma di bucanieri tanto snob da continuare a definirsi ‘gentiluomini di ventura’, che bevono rum di straforo e cantano canzoni ossessive e tristi, quelle canzoni che mi erano rimaste in mente per anni e anni e che non hanno un significato né una melodia, se non quella che mi ero inventata tanti anni fa; canzoni di navi fantasma che nella mia testa sono ipnotiche come le litanie che ci si canticchia da soli. Mi aggrappo a una storia di tradimenti e di ombre, al racconto limpido e preciso di un’avventura incredibile, e mi accorgo che sto viaggiando, sto già correndo nel vento come la nave Hispaniola, fra nomi di luoghi aureolati di mistero che non hanno niente a che fare con quello che è vero, reale o solo verosimile. L’aspetto più straordinario dell’Isola del tesoro, quello che mi fa benedire la mia pigrizia e ignorare il glossario, è questa insolenza così sfacciata, e allo stesso tempo così poco ricercata (come solo un grande artista o un vero bambino possono averla, e nessuna affettazione potrebbe mai simularla) di ignorare completamente la verosimiglianza, di far nascere un’avventura dal puro gusto di raccontarla sospendendo con uno scalpiccio il senso della realtà.

L’isola del tesoro sferra un gran calcio alla sospensione della credulità; come se non avesse bisogno di sospenderla, la scaccia via semplicemente, creando un mondo nuovo. Emerge dalla nebbia della costa inglese una sagoma di vecchio marinaio zoppo che cammina su una spiaggia, e inizia questa storia di bucanieri acciaccati che ripartono per un’ultima impresa in un mondo che esiste e non esiste. La racconta una voce di bambino, la voce di Jim Hawkins, orfano di padre che si muove in questa avventura realistica eppure irreale guidato da un istinto irresistibile – proprio come succede a un bambino che legge per la prima volta L’isola del tesoro, o a chi, rileggendolo da adulto, si ritrova improvvisamente bambino di nuovo, con tutta l’intatta insolenza dell’immaginazione che tiene con il fiato sospeso.

C’è una nave, l’Hispaniola, armata da un conte ingenuo e da un pragmatico dottore; una maledizione, il bollo nero con cui i pirati condannano a morte chi sgarra; molto rum, e una tabacchiera piena di parmigiano. E poi le superstizioni, i tradimenti e i voltafaccia continui di Long John Silver, il pirata istrione e irresistibile con una gamba sola e sulla spalla un pappagallo che porta il nome di un bucaniere spietato. E c’è, naturalmente, un tesoro maledetto, per cui si versa sangue e si tradisce e si abbandonano i compagni di nave, fino all’ultima pagina.
Ma il bello è che del tesoro non importa niente a nessuno, per la verità, nemmeno ai bucanieri che pensano solo a sbronzarsi di rum, nemmeno a Long John Silver, apparentemente accecato dall’avidità, che però rinuncia a impadronirsi dei lingotti. Perché quell’oro, alla fin fine, è solo un pretesto per l’avventura, la moneta di scambio per lanciarsi sul mare con la goletta Hispaniola, qualsiasi cosa sia una goletta. E quindi, dopotutto, al diavolo il tesoro!, come dice il conte.

L’AUTRICE* – Ilaria Gaspari (nella foto in alto), classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa ed è al debutto nel romanzo per Voland con Etica dell’Acquario. Abita e lavora a Parigi, dove sta scrivendo una tesi di dottorato. Qui tutti i suoi articoli pubblicati da ilLibraio.it


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