“Tanto tempo fa, proprio adesso” racconta la storia di Paula e sua madre Kai. La figlia ha seguito la madre nella sue avventure hippie fino a quando è stata affidata ai servizi sociali. A distanza di anni, le due donne si incontrano di nuovo… – Su ilLibraio.it un capitolo

In Tanto tempo fa, proprio adesso (Harper Collins) Joshilyn Jackson, scrittrice originaria della Georgia, racconta, con tono ironico, di Paula e di sua madre Kai: la loro è una storia che parla di come le storie che raccontiamo ci uniscano, ci dividano, ci definiscano, e di come l’inizio e la fine che scegliamo per esse possano a volte distruggerci, ma siano anche in grado, altre volte, di renderci completi.

Veniamo alla trama del libro. Fino all’età di dieci anni Paula Vauss è vissuta con la madre Kai, un’hippie affascinata dalla mitologia Hindu, che le ha dato il nome della dea indiana Kali, e le ha fatto trascorrere un’infanzia nomade e ai limiti della legalità, cambiando città e compagno ogni anno. Ma il loro rapporto si è interrotto quando la madre è finita in prigione e lei è stata affidata ai servizi sociali.

Ora Paula ha trentacinque anni e si è “reicarnata” in una donna determinata e di successo, socia di un affermato studio legale di Atlanta che gestisce divorzi milionari. Da quindici anni non vede la madre, finché un giorno riceve da lei un messaggio con cui Kai le comunica di avere poche settimane di vita. Decisa a rintracciare la madre prima che sia troppo tardi, Paula, che è un’esperta nel separare le famiglie, si ritrova a doverne rimettere insieme una: la propria.

madre

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo su ilLibraio.it un estratto del libro:

Posai il piattino con il tonno sul pavimento. Henry ci si avventò sopra famelico. Ripresi il cellulare per mandare un SMS all’inglese e fu allora che notai l’angolo di una busta color crema che spuntava dalla pila di posta. La presi e vidi che sopra c’erano impressi in marrone il mio nome e il mio indirizzo. Il numero della casella postale di Kai in Texas era scribacchiato con la mia grafia quasi illeggibile. Era proprio la busta che avevo gettato nella posta in uscita quando mancava meno di un’ora alla fine di San Valentino. Erano state aggiunte solo tre parole scritte in rosso, sul davanti. Era la grafia di mia madre.
    Restituire al mittente.
I miei pensieri si paralizzarono. Il respiro fece altrettanto. La vittoria mi schizzò via dalla mente. E insieme a lei i progetti per la serata. Il mio gatto e i miei stessi appetiti… puff, andati. Non sentivo nemmeno più la musica.
Trascorse del tempo. Mezzo minuto, o forse pochi secondi. Chissà.
Sentivo il basso, rumoroso brontolio nel petto di Henry che lui stesso percepiva solo come una vibrazione. Lo sentivo gustarsi il tonno. Girai la busta e vidi che era stata richiusa con del nastro adesivo. Quello non ce l’avevo messo io.
All’improvviso le mani si fecero gonfie e impacciate. Tremavano con una violenza tale che quasi non riuscivo ad aprirla.
Dentro c’era il mio assegno. Ci aveva scritto ANNULLATO con la stessa penna rossa.
Una risposta diversa, finalmente. Ma perché proprio adesso? Le avevo spedito un assegno ogni mese per quasi sedici anni, ripetendo ogni volta la stessa domanda. Dapprima assegni piccolini, mentre frequentavo i primi due anni dell’università in Indiana e nel contempo lavoravo. Una settimana le avevo spedito cinque dollari e il mio conto era finito in rosso. Si erano fatti un po’ più cospicui quand’ero riuscita a entrare alla scuola di legge Notre Dame e poi alla Emory, e si erano rimpinguati ancora di più dopo la laurea e a mano a mano che la mia carriera decollava. Negli anni avevo spedito a Kai oltre centottanta assegni e tutti, uno per uno, avevano posto sempre la stessa domanda: Siamo pari adesso?
La sua risposta era sempre stata incassarli. Senza mai saltarne uno. Pur spostandosi di continuo, sempre in viaggio. Una o due volte all’anno ricevevo uno di quei biglietti impersonali che annunciavano allegri un cambio di indirizzo, o nel suo caso un cambio di casella postale, e il trasferimento in un’altra città. Ciononostante si era sempre premurata di ritirare e incassare ogni singolo assegno.
E ora quello, annullato, mi tremava fra le dita. Lo girai e notai che sul retro mia madre aveva scritto qualcosa:

No, grazie. Ho abbastanza soldi da farmeli bastare finché campo.
Scherzo. Il cancro si era già diffuso ancora prima che me ne accorgessi, quindi il finché campo sarà di breve durata. Questione di settimane, se sono fortunata. Farò un viaggio, Kali. Tornerò alle mie origini; la morte non è la fine. Tu sarai la fine. Ci rincontreremo, e ci saranno altre storie.
Lo sai come agisce il karma.

Non era un semplice messaggio.
Era un epitaffio. O una poesia. O una minaccia. Questo sapevo dopo averlo letto.
Rilessi, e mi accorsi di cosa mancava. Il perdono.
A pensarci bene ogni parola sembrava studiata per farmi arrabbiare. Odiavo le missive criptiche, e la misticità, e il sussiego. Cacchio, certo che lo sapevo come agiva il karma, solo che non ci credevo. Non credevo nemmeno nella reincarnazione, né nel fato o che il tempo fosse una sorta di ruota, e questo lei lo sapeva bene.
Tolte tutte quelle idiozie, capii che cosa intendeva. Che il mio debito andava oltre la morte. La sua e la mia. Entrambe saremmo morte e diventate polvere, e la mia polvere sarebbe stata comunque in debito con la sua.
Era un’altra la cosa che non riuscivo a capire: a quasi duemila chilometri di distanza, in Texas, mia madre stava morendo.
Era questa l’informazione che non riuscivo a elaborare.
«Mia madre sta morendo» dissi a Henry, tanto per sentire come suonava. Parole che in bocca sentivo dure e giuste, ma che avevano il sapore della verità.
Nel sentirle, comunque, non provai nulla. Un nulla così immenso, che mi saliva dentro nero e compatto, da non la¬sciarmi nemmeno sbattere le palpebre. Avevo gli occhi secchi, mi prudevano. Il tempo si dilatò quasi fosse infinito.
L’assegno aveva impiegato una settimana per arrivare in Texas e tornare indietro. Kai sarebbe potuta essere già morta.
A quel pensiero provai uno schietto senso di sollievo alle spalle e al contempo una sgradevole sensazione di man¬can¬za, come quando cade un dente, e l’im¬pel¬len¬te bisogno di in¬filarci la lingua. Sentii le viscere stonare alla discordanza. Se era morta, ormai appartenevo solo a Henry.
Il messaggio riempiva tutto il retro dell’assegno, tuttavia notai altre letterine che correvano lungo un margine. Le dita intorpidite riuscirono a rigirare il pezzettino di carta e mi misi a leggere. Altre sette parole strette contro il bordo, senz’altro l’ultima cosa che mi aveva scritto. Forse l’ultima che mi avrebbe mai scritto.
(Ovviamente non voglio che tu venga qui.)
Mia madre stava morendo e non mi voleva al suo capezzale.
«Per me va bene» le risposi, o forse mi stavo rivolgendo a Henry.
Non ero mai stata tanto felice che il mio gatto fosse sordo, perché così non avrebbe sentito quella brutta verità. Da lontano mi giunse la mia stessa risata: dio mio che grande sciocchezza. Davvero pensavo che un gatto normale avrebbe capito quello che dicevo? Ridevo, e Kai stava ancora morendo, mi diceva di non raggiungerla, e poi smisi di ridere, perché il mio corpo aveva smesso di respirare.
L’assenza di Kai mi si attorcigliò intorno al petto e al collo. Mi strizzava ogni via respiratoria. Sentivo le costole ripiegarsi, comprimersi all’indentro per schiacciarmi il cuore. Avevo un braccio indolenzito. Pensai, con assoluta calma: Sto avendo un infarto.
Barcollai in avanti per prendere il telefono, ma le mie dita si erano fatte così grosse… lo guardai cadere sul pavimento. Osservai con distaccato interesse la ragnatela che si disegnava sullo schermo mentre andava in frantumi. Non ero impaurita. Ero qualcosa di peggio. Ero blu e diventavo sempre più blu. Annegavo nell’aria.
Poi mi ritrovai in ginocchio, cercavo di raggiungere il telefono a tentoni. Riuscii a visualizzare la tastiera e, per la seconda volta in vita mia, mi ritrovai a comporre il 911. Ricapitava proprio in quel momento: che macabra ironia… Non che credessi che quella telefonata avrebbe potuto salvarmi la vita.
Sentivo il cordone ombelicale riavvolgersi intorno alla gola, succhiarmi via il colorito. Scivolai su un fianco. Il cuore mi cadde nel petto e incespicò. Le braccia e adesso anche le gambe perdevano sensibilità. La voce di donna che chiedeva: «Qual è la sua emergenza?» era talmente lontana…
Avrei voluto dirle che stavo avendo un infarto. Avrei voluto chiederle di mandare un’ambulanza. Ma non riuscivo a rispondere. Non a quella domanda. L’ultima volta che l’avevo fatto, avevo dato inizio a un lungo, lungo processo di uccisione di mia madre. Un processo che si stava concludendo solo adesso.
La voce di donna era più forte, calma e ferma. «Pronto? Può parlare? Qual è la sua emergenza?»
Mi mancava l’aria per rispondere. Non ci provai nemmeno. Spinsi via il cellulare, che scivolò sul parquet lucido mentre la voce incorporea continuava a chiamarmi. Mi voltai dall’altra parte, verso le tenebre, dopotutto il karma esisteva. Lasciai che mi accadesse tutto quello che meritavo. Lasciai che mi accadesse, finalmente.

Abbiamo parlato di...