“Ormai sembra che sia sufficiente postare una foto con addosso una maglietta con uno slogan per essere femminista. In realtà è una performance: ti permette di acquisire follower, soldi, opportunità di lavoro, ma…”. ilLibraio.it ha intervistato Jessa Crispin, autrice del pamphlet “Perché non sono femminista. Un manifesto femminista”, in cui denuncia le carenze del femminismo “mainstream”, che rischia di essere fin troppo edulcorato e connivente con il patriarcato. Tanti i temi affrontati, tra cui il dibattito su #metoo, su cui l’autrice esprime opinioni destinate a far discutere: “Mi piacerebbe che avesse idee su come cambiare davvero le cose, anziché fare solo ciò che ha fatto finora, ossia condannare un abuso dopo l’altro. Vediamo uomini perdere il lavoro e la loro posizione di potere in base alle accuse, ma c’è bisogno di costruire un sistema capace di investigare e riconoscere gli abusi denunciati. Faccio fatica a supportare un movimento così poco mirato al futuro e alle sue conseguenze. Se sostituiamo gli uomini di potere con le donne, non risolviamo nulla. Il potere può ancora essere abusato, a meno che venga cambiato il sistema”

Jessa Crispin, saggista, blogger e attivista americana, è femminista, ma non si sente rappresentata dal nuovo femminismo – di cui molto si parla nei media e sui social – che definisce “mainstream” e che viene inteso sempre più spesso come uno “stile di vita alla moda”. Per questo ha deciso di scrivere un pamphlet, Perché non sono femminista. Un manifesto femminista (Sur, traduzione di Giuliana Lupi).

In poco più di un centinaio di pagine, l’autrice, fondatrice delle riviste online Bookslut e Spolia, spiega al lettore perché non si sente parte di un certo femminismo che si autodefinisce universale, ma che è ancora pensato per le donne bianche e istruite. Un movimento che, per Crispin, sembra voler evitare ogni forma di contrasto e scomodità: “Le femministe universali vogliono un femminismo che non richieda di cambiare il modo in cui vestiamo, pensiamo o ci comportiamo”.

Jessa Crispin

Nel breve saggio critica anche il potere patriarcale che il femminismo di ultima ondata non sembra voler combattere. Piuttosto, all’autrice risulta palese che le femministe “mainstream” desiderino subentrare agli uomini nelle cariche di potere, con il rischio che “ci si scambi di posto, adottando lo stesso comportamento” dell’oppressore.

La soluzione proposta da Jessa Crispin? “Se vogliamo creare un mondo migliore, bisogna che le basi siano diverse, non le stesse su cui è stato eretto il patriarcato”, perché “il femminismo non deve limitarsi a reagire alla cultura dominante, ma ha il potere di trasformarla“. Una risposta che a tratti rischia di essere semplicistica, se non utopistica, almeno per come viene esplicata dall’autrice, che chiede al lettore di partire da piccoli cambiamenti “locali”, ma che resta comunque radicale. Il pamphlet di Jessa Crispin rappresenta però una lettura interessante, in quanto svela i punti dolenti di un femminismo che rischia di diventare fin troppo “alla moda” e piacevole. Per approfondire questi temi ilLibraio.it l’ha intervistata.

Quando il femminismo è diventato uno stile di vita?
“C’è sempre stato un lato più mainstream, in conflitto con le frange più radicali. Personaggi interni al movimento che si sono opposti all’attività di altre donne interessate a teorizzare e sviluppare nuove strutture. Sembra che a un certo punto, però, il femminismo mainstream abbia fagocitato quello più radicale. Il fenomeno si potrebbe datare intorno all’11 settembre, perché in quel momento si è iniziato a dare credito a femministe che promuovevano l’intervento militare in Iraq e in Afghanistan senza che il resto della comunità femminista vi si opponesse”.

Riguardo alla recente ondata di femminismo “pop”, quanto è stata influenzata dall’avvento dei social media?
“Non so se i due fenomeni siano direttamente connessi, ma i social hanno aiutato il femminismo a diventare uno stile di vita. Sembra che sia sufficiente postare una foto con addosso una maglietta con uno slogan per essere femminista. Questo tipo di femminismo per me è soprattutto una performance: ti permette di acquisire follower, soldi, opportunità di lavoro… Però credo che questo avvenga in ogni movimento: ci sono attivisti molto visibili nel Black Lives Matter che però scompaiono quando le cose si fanno difficili e ci sono quelli che fanno il lavoro duro. Non è un problema che riguarda solo il femminismo”.

Ha scritto il saggio prima dell’elezione di Trump. Cosa è cambiato in questi due anni?
“Sinceramente non molto; è solo diventato più difficile da ignorare. Anche prima di Trump il governo americano era guidato da ideologie e patriarcati. Mi spiego: oggi, siccome Trump è una versione esagerata di tutto ciò, è semplicemente più difficile ignorare il problema. Tutto è molto più ovvio. E siamo costretti ad affrontare quello che le generazioni prima di noi hanno finto di non vedere: le conseguenze dei nostri comportamenti. Non solo gli abusi e la misoginia, ma anche il razzismo, le guerre oltreoceano, il problema ambientale. La domanda è: cosa fare ora che sappiamo tutto ciò?”.

Cosa pensa di movimenti come #metoo e Time’s up?
“Mi piacerebbe che #metoo avesse idee su come cambiare davvero le cose, anziché fare solo ciò che ha fatto finora, ossia condannare un abuso dopo l’altro. Vediamo uomini perdere il lavoro e la loro posizione di potere in base ad accuse, ma c’è bisogno di costruire un sistema capace di investigare e riconoscere gli abusi denunciati. Faccio fatica a supportare un movimento così poco mirato al futuro e alle sue conseguenze. Se sostituiamo gli uomini di potere con le donne, non risolviamo nulla. Il potere può ancora essere abusato, a meno che venga cambiato il sistema”.

Una realtà che anche nel saggio racconta di aver visto da vicino nell’editoria…
“Ho seguito la questione sulla sostituzione di Lorin Stern della Paris Review, accusato per anni di molestie. Quando si è dimesso, c’è stata subito una corsa alla sua poltrona. Nessuno ha dedicato del tempo a riflettere su come sia stato possibile che un uomo abbia abusato delle proprie collaboratrici restando impunito per più di dieci anni, o di come la comunità letteraria abbia giustificato questi comportamenti, o ancora, di come in alcuni ambienti la competizione sia tale da rendere accettabili per alcune donne le avances di uomini di potere in cambio di stabilità economica e lavorativa. Questi sono gli argomenti di cui bisogna parlare: fare i nomi dei molestatori non è sufficiente”.

Nel saggio suggerisce una soluzione radicale: opporsi al patriarcato e alle sue strutture con un sistema più attento alla comunità. Ma come si può attuare questo rinnovamento su scala globale?
“Per prima cosa è necessario partire dalle piccole realtà. Dobbiamo impegnarci a sperimentare alternative e prendere spunto dal passato. La crisi degli immobili, che affligge qualsiasi grande città americana, è un problema femminista: prendendo esempio dalle comuni e dai conventi potremmo sperimentare un modello in cui si suddividono i lavori domestici e anche gli aspetti finanziari che gravano su chi vive in una grande città. E opporsi all’ideale della proprietà privata. In generale, non credo che il cambiamento possa arrivare attraverso delle leggi. L’uguaglianza arriva nel momento in cui si trattano gli altri con rispetto. I problemi del nostro tempo – ambiente, misoginia, razzismo, brutalità della polizia, abuso di potere, disparità di classe – vanno invece affrontati come sfide da superare con immaginazione e creatività. Bisogna iniziare dal proprio quartiere e poi espandersi”.

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