“Volevo che il mio scrivere ricordasse lo stile di Beckett, senza cadere nella parodia o nel pastiche…” Jo Baker, autrice di “Longbourn House”, dedica il suo nuovo romanzo, “L’Irlandese”, proprio a Samuel Beckett. E nell’intervista con ilLibraio.it parla, tra le altre cose, del complesso rapporto tra l’autore di “Aspettando Godot” e Joyce

Nato a Dublino nel 1906, Samuel Beckett si trova a Parigi durante la Seconda Guerra Mondiale. Non è ancora diventato il celebre autore che oggi ricordiamo: si è trasferito in Francia per allontanarsi da un’Irlanda soffocante nella sua placidità, per prendere le distanze dall’ingombrante James Joyce, per trovare uno spazio che fosse suo. Torna a Parigi nonostante lo scoppio della guerra e, durante l’occupazione tedesca della città, si unisce alla Resistenza: lavora come corriere, raccoglie e confronta i messaggi in codice dei compagni, che tiene nascosti nel manoscritto a cui sta lavorando. Lo chiamano l’Irlandese.

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Da questo soprannome prende il titolo il nuovo libro della scrittrice inglese Jo Baker, che di Samuel Beckett racconta la biografia: L’Irlandese (Einaudi, traduzione di Giulia Boringhieri) è un romanzo biografico che ripercorre le tappe fondamentali della vita di Beckett, in uno scenario romanzesco ma costellato da personaggi reali, storici che, in un modo o nell’altro, hanno influito sulla vita dello scrittore. Dagli intellettuali parigini a James Joyce, con il quale il rapporto fu sempre difficoltoso, fino alla relazione con Suzanne Dechevaux-Dumesnil, la compagna di vita che diventerà sua moglie. Un personaggio, quello di Suzanne, che assume molta importanza nel libro; la stessa autrice, intervistata da ilLibraio.it, confessa di aver voluto “concentrare l’attenzione su di lei più di quanto non si faccia altrove, con simpatia: non era una relazione facile, e Suzanne viene spesso rappresentata dalla parte del torto. Volevo mostrare un’altra faccia della medaglia. E volevo esplorare quella dolorosa ma necessaria relazione: sono rimasti insieme finché morte non li ha separati”.

Jo Baker è nota soprattutto per il suo precedente romanzo, Longbourn House (Einaudi, traduzione di Giulia Boringhieri), che trae ispirazione dalle vicende di Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen per raccontare la storia della servitù di casa Bennet. Come in Longbourn House anche ne L’irlandese la narrazione prende le mosse da una trama preesistente, in un caso la vita di uno scrittore e nell’altro le vicende di un classico, e la scrittrice spiega che “entrambi i libri sono nati dallo stesso desiderio: esplorare un mondo e passarvi del tempo in un modo che non sarebbe stato possibile al di fuori del contesto romanzesco”.

l'irlandese jo baker einaudi copertina

Quel contesto romanzesco è in gran parte una biografia, storica; ma allo stesso tempo, il libro assume le forme di un romanzo di formazione: il lettore si trova davanti a Samuel Beckett uomo, prima che scrittore, e ha modo di rivivere le esperienze fondamentali che ne faranno l’autore che leggiamo e studiamo oggi: “Volevo mettermi nei suoi panni, fare quel viaggio con lui, provare alcune delle sue emozioni. Non so se questa sensazione traspiri nella lettura del libro, ma è quello che ho provato scrivendolo”.

Jo Baker, come è nata l’idea di scrivere il romanzo biografia di Samuel Beckett?
“È una cosa che mi ronzava in mente, senza che io me ne accorgessi, da circa vent’anni. Ho studiato Beckett negli anni ’90, dopo la laurea, ed ero rimasta affascinata dalla differenza che correva tra i suoi primi lavori, fortemente influenzati da Joyce, e i lavori successivi, quelli più propriamente ‘beckettiani’. Volevo esplorare cosa intercorresse tra le due fasi, cosa avesse innescato il cambiamento. Ed è così che è nato L’irlandese”.

Un romanzo biografico, dovendo seguire le linee di una storia già determinata, lascia meno spazio all’immaginazione: preferisce muoversi nelle fila di una storia che ha già scritta la sua conclusione, per concentrarsi su altri aspetti della scrittura?
“Trovo che questo tipo di struttura preesistente sia molto utile. La costrizione è liberatoria: so cosa è successo e cosa no, non rischio di perdere tempo in aspetti della trama che potrebbero rivelarsi vicoli ciechi. Detto questo, gli eventi del libro sono stati attentamente selezionati e deliberatamente evidenziati; sono stati scelti con attenzione, tra i tanti che hanno composto una vita ricca di molti altri accadimenti”.

È una biografia romanzata.
“Sì: non tutto quello che è successo viene raccontato e non tutto quello che viene raccontato è necessariamente successo come lo immagino. Questa è una scelta deliberata: mi sono permessa un certo grado di libertà narrativa all’interno del romanzo”.

Nel suo libro, sin dal titolo (in inglese A country road, a tree corrisponde alle prime parole dell’opera), vi sono diverse citazioni appartenenti all’opera più famosa di Beckett, Aspettando Godot. Il romanzo vuole essere anche una narrazione della genesi di quel libro?
Aspettando Godot è ovviamente molto importante nel romanzo, essendo l’opera che ha affermato Beckett come scrittore, l’opera che lo definisce per molti lettori. Quindi Godot diventa la meta verso cui si muove il personaggio, anche nei momenti in cui tenta di sopravvivere e fare la sua parte nel nezzo degli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Per questo è così presente nel testo, dal titolo ad alcuni eco stilistici, fino al passo degli stivali. È l’opera che sta aspettando che lui diventi lo scrittore che è destinato a essere, lo scrittore capace di portarla alla luce”.

Anche il suo stile di scrittura, in questo romanzo, sembra mutare per avvicinarsi ad alcune caratteristiche dello scrivere di Beckett. 
“Sì, è stata una scelta consapevole. Volevo che il mio scrivere ricordasse il suo stile, in suo onore, senza cadere nella parodia o nel pastiche, che trovo irrispettoso. Senz’altro anche l’entrare così a stretto contatto con il suo lavoro e passare del tempo nel suo mondo mi ha permesso di assorbire meglio il suo stile”.

Quanto ha influito nella vita di Beckett il difficile rapporto di ammirazione e risentimento che aveva con Joyce?
“Non era certo un rapporto facile. L’influenza di Joyce è molto forte nei primi scritti di Beckett: se fosse stato catturato allora dalla Gestapo e fosse morto in un campo di concentramento, come molti altri in quella cellula di resistenza, oggi lo ricorderemo soltanto come un satellite minore nell’orbita di James Joyce. Dovette sbarazzarsi di quell’influenza – insieme agli abiti di seconda mano che Joyce gli aveva dato come ricompensa per il suo lavoro su La veglia di Finnegan – così da poter diventare indipendente e sviluppare la propria voce. Credo sia stata una scelta sofferta ma liberatoria, che riguardava l’accettare una propria particolare oscurità, aspetti di se stesso e della sua scrittura che non appartenevano a Joyce”.

Ciò nonostante, l’ammirazione di Beckett per Joyce non termina con il rapporto lavorativo.
“La sua ammirazione per lo scrittore rimane intatta: quando gli fu assegnato il Premio Nobel, la prima reazione di Beckett fu affermare che quel premio sarebbe dovuto andare a Joyce, che Joyce avrebbe dovuto essere vivo per riceverlo. Era la reazione generosa da parte di un uomo straordinariamente generoso”.

Anche il personaggio di Suzanne è molto importante nella vicenda di Beckett. Si tratta di un personaggio femminile piuttosto moderno, per certi aspetti: lo ha ricostruito tramite i documenti o l’ha plasmato dalla sua fantasia?
“Suzanne è un personaggio piuttosto triste, credo. È piuttosto straordinaria nel suo campo: è una musicista di talento, politicamente impegnata e creativa, ha vissuto un’esistenza relativamente non convenzionale. Questo è tutto vero, non ho inventato nessuno di questi aspetti. Ma per via della persona con cui vive, perché si ritrova al fianco di quest’uomo straordinario, quasi scompare”.

A proposito di personaggi femminili, il suo precedente romanzo Longbourn House si ambienta nella stessa scena domestica di Orgoglio e Pregiudizio. Voleva essere un tributo a Jane Austen? 
“Ho sempre amato le opere di Jane Austen, perdermi nei suoi romanzi, ma so di non appartenere a quel mondo. La mia famiglia ha lavorato a servizio: mia nonna e le sue sorelle hanno tutte prestato servizio come cameriere. Non posso immaginare me stessa nei panni di Elizabeth Bennet, ma posso immaginarmi a lavarglieli, quei panni. Così descrivere la vita dei servitori di quella casa era un modo di trovare un posto per me stessa nel suo mondo, un modo che mi sembrasse reale e possibile. Quindi credo di si, era un tributo, ma anche una trattativa”.

Jane Austen e Samuel Beckett: sono questi gli autori che influenzano la sua scrittura?
“Trovo molto difficile determinare quali scrittori mi influenzino, sono come una gazza ladra e penso di trarre ispirazione da tutto, dai grandi scrittori riconosciuti come tali, come nel caso di Jane Austen e Beckett, fino ad altri scrittori contemporanei. So per certo che anche la poesia ha un impatto sulla mia scrittura, così come la cultura pop, la televisione e i film. Ma mi rendo anche conto che talvolta cerco di ribellarmi a queste influenze: capire cosa non si vuole essere, cosa non si vuole fare e come non si vuole sembrare può essere molto utile, a volte”.

Quali sono gli scrittori, contemporanei e non, che preferisce?
“Sono riluttante all’idea di rispondere a questa domanda, che mi viene posta troppo spesso! Passo diverse fasi, dall’innamoramento nei confronti di un particolare scrittore al leggermi tutte le sue opere per poi passare oltre. L’unica autrice della quale non smetto mai di innamorarmi è Hilary Mantel (la prima donna a vincere due volte il Booker Prize nel 2009 con Wolf Hall e nuovamente nel 2012 con Bring Up the Bodies, ndr). È così incredibilmente brillante. Una volta eravamo nella stessa stanza a un evento letterario e volevo solo avvicinarla e dirle ‘Salve, credo che lei sia grandiosa’. Ma ero troppo timida. Il che è stupido, perché a nessuno darebbe fastidio sentirsi dire che è grandioso”.

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