Leggi un capitolo da “Le infradito di Buddha – Guida orientale per disorientati” di Zap Mangusta

Zap Mangusta, attore e regista teatrale, autore di programmi televisivi di successo, voce di “Così parlò Zap Mangusta” su Radio2, nel suo nuovo libro, “Le infradito di Buddha” (Ponte alle Grazie) si rivolge a chi ama gli sguardi inediti ed è attirato dall’idea che una cultura agli antipodi della nostra possa condurci per mano in un’eccitante ricerca di prospettive nuove…

Ed ecco un estratto da “Le infradito di Buddha – Guida orientale per disorientati” di Zap Mangusta, pubblicato per gentile concessione di Ponte alle Grazie

Siete mai andati ad Atlantide con la moto, in solitaria? Avete mai aiutato a partorire un pastore inglese femmina? Siete mai saliti su un aliante,
lasciandovi trasportare dal vento? Siete mai stati atterrati in area dal
difensore della nazionale dei frati cappuccini? Vi siete mai ritrovati
rinchiusi in un cunicolo di tronchi d’albero interrati nella radura, per
seguire le orme di un celebre regista polacco (Grotowski)? Siete mai andati a fare trekking sull’Himalaya? L’enorme maggioranza delle persone, o forse sarebbe meglio dire chi ha un briciolo di sale in zucca, tutte queste cose non le fa. La gente nomale studia, si fidanza, cerca un lavoro, un partner con cui fare un figlio, si compra uno smartphone per comunicare con lui, poi accende un mutuo e (se glielo concedono) va all’IKEA. Anche io queste cose le ho fatte, ma ritengo che ogni tanto nella vita sia necessario compiere qualche atto di volontario deragliamento che imprima una forte deviazione alla quotidianità,
modificandone il percorso. Perché? Beh, io credo che questo tipo di esperienze regali alla coscienza delle occasioni insolite per setacciarsi dentro e fare l’inventario delle proprie risorse. Dobbiamo continuare a evolverci. Non è questo il formidabile karma del genere umano? La spinta è data dalla conoscenza, ma anche dall’incapacità di accontentarsi di quel tanto che basta per andare avanti, tranquilli e sicuri.

Sia chiaro, non ho nulla contro chi si ritira in campagna a coltivare pomodori, si trasferisce su una barca di venticinque metri o si fa inghiottire dal divano davanti alla televisione. Solo che nel primo caso bisogna avere l’orto fuori città, nel secondo è necessario mettere da parte un bel po’ di quattrini (barca, posto, nafta, cantieri ecc.), nel terzo si va incontro a un’inevitabile deflagrazione interna, poiché, da Starsky e Hutch a Dexter, dopo un po’ le serie diventano prevedibili.

Io invece penso che ogni giorno dovremmo porci delle sfide, piccole magari, per rinnovare le nostre potenzialità. Mi piace immaginare che lo sviluppo delle risorse dell’animo umano non abbia mai fine e che si debba andare a stanarlo là dove si è rintanato. Ecco perché, guidato dall’istinto di un uccello migratore, nei periodi di particolare confusione mi stacco da terra, per fare rotta verso latitudini sconosciute, dove andare a recuperare qualche nuovo stimolo. In effetti, l’ultima volta non sono andato molto lontano: a Bordeaux, nella casa di Montaigne, forse il più grande scettico della storia. Un tipo che aveva fatto incidere sulle travi del suo soffitto le cinquantasette frasi più belle e significative del cosmo, in modo che lo proteggessero o, più probabilmente, che lo sbeffeggiassero dall’alto, mentre cercava di scoprire i segreti dell’animo umano: «Io non comprendo» (Sesto Empirico), «Le cose del mondo sono troppo difficili perché l’uomo possa comprenderle» (Ecclesiaste), «Sono un uomo e
nulla di ciò che è umano mi è indifferente» (Publio Terenzio Afro).

Un saggio che scrive i saggi non può non ricevere visita da uno che saggio non è, ma gli piacerebbe tanto diventarlo, quanto meno per capire, una volta per tutte, che è il caso di lasciar perdere. E mettersi l’animo in pace. Così, grazie a una fortunata coincidenza e a una convocazione imprevista, sono partito per un viaggio di venti giorni sull’Himalaya. Con un gruppo di persone di età compresa tra i trentacinque e i cinquantasei anni. Perché proprio l’Himalaya? Forse avrei potuto scegliere qualcosa di meno impegnativo, ma certe volte sembra che la vita ci dia una spintarella sul deltoide per condurci dove le pare. Che poi è sempre il posto migliore in cui avremmo dovuto trovarci, al momento. In realtà, negli ultimi tempi mi ero un po’ attardato nella scrittura di un saggio sull’«Illuminazione», che, a dispetto dell’argomento, procedeva
tra luci e ombre e tra frenate e ripartenze, come una vecchia Dyane 2 cavalli: moderatamente a singhiozzo.

Alla fine, con decisione improvvisa, mi era saltato in mente di organizzare un viaggio in Cornovaglia. Per andare dal mio guru di viaggi motociclistici e collaudare al meglio il progetto «Tierra del Fuego – Alaska», con tratto di foresta impenetrabile tra Colombia e Panama e spedizione del mezzo bicilindrico in aereo o in nave.

Quand’ecco che all’improvviso, mentre fuori dalla finestra esplodeva una di quelle straordinarie giornate di sole primaverile, un uragano si generò
improvvisamente dentro casa mia. Anzi, a essere più precisi: sopra la mia cucina.

Che si possa formare una tempesta nella propria cucina è cosa non facile da credere. E nemmeno da accettare. Come non è facile credere che un essere umano normale, come voi e me, possa raggiungere, di botto, l’Illuminazione. E cioè: comprendere all’istante tutto quello che c’è da capire su sé stesso, la vita, l’amore, l’universo e sulle questioni fondamentali di cui, di solito, non capiamo un accidente. Eppure, se nel corso della storia è successo a non pochi illustri esponenti della razza umana (per quanto di spiccata matrice orientale), vuol dire che è cosa che può accadere. Sta di fatto che, a poco a poco, gli oggetti ordinari che abitavano la mia cucina e che sino ad allora si erano comportati piuttosto amichevolmente nei miei riguardi o che almeno si erano tenuti sul piano di una serena e reciproca indifferenza, un giorno si sono ritrovati a dimostrare un’improvvisa quanto accesa ostilità, opponendosi con decisione ai miei soliti gesti quotidiani.

Il
frigo, che di solito mi fa compagnia col suo ronzio bonario da custode del cibo e fabbricante di ghiaccio, prese a sobbalzare, scatarrando, non appena cominciai a cercare sullo smartphone il nome della località della Cornovaglia dove intendevo pernottare. Dal rubinetto del lavandino, l’acqua cominciò a sgorgare rossastra. La bottiglia del chinotto, fino ad allora allegra complice delle mie pause di lavoro, fece uno scoppio di quelli che fanno gli involucri di plastica quando la pressione del gas interno aumenta. Subito dopo, la radio lanciò il suo gracidante allarme al massimo del volume (l’avevo programmata per le ore 9). Il latte uscì dal suo pentolino e il cacao nel medesimo istante si riversò in terra, formando una larga chiazza sul pavimento. Sono cose che capitano e possono capitare, quando qualcuno si muove sbadatamente, come me, in cucina. Anzi, bisogna dire che a me capitano sovente. Ma tutte contemporaneamente: mai.

Il fatto era davvero singolare. Pur non essendo superstizioso, ne dedussi che la Cornovaglia poteva aspettare. Del resto, non è di una parola definitiva sul mito di re Artù che si sente il bisogno in questo momento storico e nemmeno di uno squarcio di luce improvvisa sui tanti misteri di Atlantide (che, per gusto di informazione, pare si trovi dalle parti dell’isola di Madera in Portogallo o a Santorini in Grecia), ma di capire se la spiritualità dei monaci o dei sadhu induisti possa in qualche modo aiutarci a riparare i tanti danni inflitti alla nostra anima dal crollo delle ideologie e dal susseguente avvento della tecnocrazia digitale.

Quindi, ripresi in mano la lettera che mi aveva indirizzato pochi giorni prima un’associazione culturale indiana.

Un certo avvocato Ananda Sar si rivolgeva a me. Non so esattamente come avesse saputo della mia esistenza. Non credo fosse al corrente dei miei libri e degli svariati articoli pubblicati da quando mi occupo di filosofia. Delle più di cinquecento puntate radiofoniche sull’argomento negli ultimi anni o dei seminari tenuti all’università. O magari lo sapeva. Sta di fatto che mi aveva contattato affinché scrivessi e facessi sapere in Italia di un traffico di oggetti sacri e di culto trafugati da molti monasteri e luoghi mistici dell’India, che ora rischiavano di finire a far bella mostra di sé nel salotto di qualche danaroso collezionista occidentale. Strappati senza anestesia dal patrimonio culturale di un continente che molti si ostinano a considerare ancora un sottopaese, con una sottocultura immaginifica e una sottofilosofia mitico-leggendaria.

«Le saremmo grati se potesse far conoscere anche nel suo Paese l’incresciosa situazione in cui rischia di trovarsi il nostro patrimonio religioso e artistico», scriveva con cortesia tutta indiana l’avvocato Sar. A tutta prima, pensai che avrei potuto sbrigare il lavoro con una certa facilità, cercando notizie in rete, su siti internazionali, e coinvolgendo alcuni amici. Del resto, mettere insieme il giusto  know how  senza muoversi dal proprio desk è uno dei tanti benefit dell’infomarket di cui siamo tutti valued customer e dunque clienti affezionati. Con tanti saluti all’idioma nostrano. Però c’era qualcosa che non quadrava: le parole di Ananda Sar mi offrivano suggestioni che non riuscivo a decifrare, ma che mi battevano in testa come insistenti mosconi sui vetri. E, non appena presi in mano la lettera, tutto si placò. O almeno a me sembrò così. Il frigo riprese il suo tranquillizzante e pacioso ronzio, l’acqua
del rubinetto uscì fresca e chiara, l’allarme della radio sparì, lasciando che
l’apparecchio diffondesse dai suoi altoparlanti le note morbide e trascinanti di Mind games di John Lennon. Ero stupito. E non per la curiosa coincidenza col titolo del brano. Ma perché era piuttosto evidente che tutti questi eventi non avevano alcun legame tra loro. O che, se c’era, lo vedevo soltanto io.

A ogni modo, la convinzione che queste circostanze fossero concatenate bastò a spingermi a mandare un’e-mail affermativa all’avvocato Sar: «Accetto la proposta». Quindi, siccome la «sarabanda cucinesca» sembrava suggerirmi un esito favorevole, decisi di rilanciare: «… tuttavia, per documentarmi adeguatamente, prego organizzare una visita al principale monastero buddhista della zona. E un incontro con il capo monaco del luogo». La risposta non si fece attendere e dopo dieci minuti: «Saremo lieti di organizzarle una visita ai luoghi principali
della spiritualità indiana…». «Ecco svoltati una ventina di giorni in Ladakh…», pensai. Come minimo. Era la mia occasione per cono-scere da vicino alcuni aspetti della filosofia indiana che sinora non ero riuscito ad approfondire. Ma, intanto, Rakesh Kumar, il tutor universitario che mi stava dando una mano per le mie ricerche sulla Illuminazione,
era partito per una serie di convegni e dunque non potevo chiedergli di farmi un corso intensivo sulla spiritualità indiana.

Così diedi una rinfrescata alle mie nozioni-guida. Dunque: l’induismo è la religione più antica tra quelle conosciute, ha qualcosa come trenta milioni di divinità, che arrivano a trecento milioni se si conteggiano anche gli avatar, ossia le incarnazioni in cui il dio si manifesta. Già, l’induismo. Però il monastero di cui parlava Ananda è un monastero buddhista. Mi toccava dunque riprendere in mano le mie conoscenze sul Risvegliato: sul dio-non-dio dal serafico sorriso. Che si era preso la briga di mollare tutto per raggiungere la verità e farcene dono.

Il buddhismo in fondo si può riassumere in poche parole: gli esseri umani sono tormentati dal dukkha, dal dolore connesso alle preoccupazioni della vita, e così preferiscono restare aggrappati alle illusioni create da Maya e cioè ai soldi,  alla carriera, alla ricerca del successo, insomma a tutte le realtà che credono di vedere intorno a loro. Ma tutto questo è avidya, ignoranza sopra la quale ognuno di noi deve elevarsi. Se lo facciamo, ci liberiamo dal karma e sconfiggiamo il samsara, ossia la seccatura infinita del ciclo delle rinascite che non ci permette di arrivare alla beatitudine eterna. Continuando di questo passo, raggiungiamo il nirvana e ci fondiamo col dharmakaya che è quell’entità sconosciuta da cui proveniamo e a cui ritorneremo. Punto. E tanta gioia infinita, a tutti.

Certo è una versione decisamente stringata, ma il resto mi sarebbe venuto in mente strada facendo. Avrei verificato di persona, come fece l’ungherese Csoma de Korös, il primo esploratore a essersi avventu-rato in quelle terre nel 1834. Come poi avrebbe fatto il monaco zen Ekai Kanogouchi, travestito da cittadino cinese, o la famosa esploratrice francese Alexandra David-Néel, fingendosi tibetana. Sarei andato a visitare sul posto monasteri, santuari e luoghi di culto e magari avrei incontrato uno dei tanti yogin che vivono da quelle parti. E, grazie alla organizzazione degli amici di Ananda Sar, non avrei dovuto
nemmeno travestirmi. O meglio avrei dovuto travestirmi, sì, ma da alpinista provetto, senza averne le capacità e nemmeno l’esperienza.

Così cercai anzitutto su Google il nome di un’agenzia di viaggi che mi traghettasse prima sino a Delhi e poi a Leh, all’inizio del percorso, in Ladakh. E tanti saluti alla Cornovaglia, e al giro nella Terra del Fuoco, in moto. Sarà per la prossima volta. Il mio sedere ringrazia. Certo, a prima vista, potrà apparire strano che gente come me, che sta largamente approfittando del secondo trancio della sua vita, se ne vada in giro per vette inaccessibili, alla ricerca di «non si sa cosa». Vero è infatti che il picco di curiosità e di resistenza varia da individuo a individuo, ma non c’è dubbio che sia meglio fare a trent’anni quello che ci viene ancora bene a cinquanta. Tuttavia, io credo che sia proprio a quest’età che vadano fatte certe esperienze. Prima conviene impegnarsi «sul pezzo», per cercare di combinare qualcosa di buono nel proprio spazio di competenza: settore Credibilità & Rapporti. Quale che sia. Magari più tardi si può spaziare verso esperienze nuove e pro-getti diversi, che potrebbero
provocare cambiamenti inattesi. Ognuno poi fa come meglio crede. Per quel che mi riguarda, io, intorno al giro di boa, ho sentito agire dentro di me, in modo sempre più incalzante, qualcosa di nuovo e di superiore che premeva spasmodicamente per venire alla luce. E che ora l’avvocato Ananda Sar, con l’incarico della sua associazione, mi offriva inaspettatamente. Una specie di impulso fisico all’elevazione personale che la mia testa percepiva nitidamente e che, siccome si muoveva dal basso verso l’alto, pensavo che sull’Himalaya si sarebbe finalmente placato.

Del resto «Dalle Montagne a Montaigne: andata e ritorno», mi sembrava una proposizione intrigante per raccontare il succedersi dei miei viaggi. E
comunque, devo ammetterlo, andare avanti con gli anni non è affatto una
tragedia. Anzi, è un’esperienza nuova, non fosse altro che per tutti quegli
imprevisti fisici e quelle riletture della realtà a cui la vita ti sottopone,
con incisiva evidenza. E che facciamo tutti un po’ di fatica a riconoscere,
impegnati come siamo a utilizzare ogni mezzo possibile per cercare di
scordarcene. La nostra società ha infatti furbescamente quanto insensatamente annacquato quei riti di passaggio, quelle tappe di crescita, come la maturità, il primo lavoro, il matrimonio o il primo nipote, che caratterizzavano le diverse fasi della nostra esistenza. La vita è diventata una striscia continua, un eterno presente in cui, di conseguenza, ci si illude di restare giovani per sempre. Con risultati discutibili se guardiamo a quante facce da video, pateticamente stirate, ci sono in giro. Un po’ di chirurgia estetica, labbra al botulino, sfiancanti sedute di palestra e diete: qualsiasi cosa, pur di truccare la partita e camuffare l’inevitabile processo.

Va da sé che, se avessi già sperimentato l’invecchiamento e ne avessi considerato rischi e perdite, ci vedrei più chiaro e potrei darvene conto con maggiore precisione. Ma siccome le cose nella vita non vanno in questo modo e mai nessuno è già arrivato alla sua età prima ancora di arrivarci, non posso far altro che raccontarvi nel dettaglio le curiose modalità di questo viaggio. Che ho cercato di affrontare con lo stesso piglio con cui tutte le mattine si affronta il supplizio della sveglia, il tormento del traffico, l’avvilente routine dell’ufficio, ossia con lo stesso placido atteggiamento che si nutre nei confronti della fissità del cielo, o della stabilità delle montagne o del corso dei fiumi. Li accettiamo per quello che sono. O che ci sembra siano. Ma questo lo scopriremo insieme, più avanti. Per quanto riguarda il resto, non si può mai
dire con esattezza cosa ci riserva il futuro. Qualche decina d’anni fa, quando ero più giovane, avrei concepito con grande difficoltà questo bizzarro presente. E non parlo solo dell’apericena, del wedding-planner e del selfie, la nuova abitudine di autofotografarsi ovunque.Insomma, immaginare che nel giugno 2013 sarei andato a fare un reportage sull’Himalaya, fornito di tablet con bussola, musica e fotocamera incorporata, sarebbe stato come figurarsi di andare su Plutone col teletrasporto. Di certo, non sono stato il solo a non avere le idee chiare sul proprio futuro. Sembra che, quando un giornalista straniero chiese a un Mick Jagger giovane se si vedeva ancora a cantare sul palco superati i
cinquanta, lui gli rispose che preferiva cento volte essere morto. Ora che ha superato da un pezzo le 280 stagioni, sgambetta ancora su e giù dal palco, accompagnato dall’inossidabile Keith Richards: il che suona ancora più incredibile. «L’ideale sarebbe morire da giovani il più tardi possibile», ha detto qualcuno. Rende bene l’idea. E comunque chissà quante frescacce dobbiamo aver detto tutti quanti a venticinque anni: «Non farò mai questo, non mi piegherò mai davanti a quest’altro». Parole che oggi sarebbe imbarazzante spiegare ai nostri figli e che il primo squinternato biografo che ci facesse il torto di ripescare potrebbe farci rimangiare, a tocchi. Ma siccome non siamo star del rock, né calciatori, né politici (non c’è più molta differenza), nessuno stenderà le nostre biografie. Il che significa che non ci verranno neanche rinfacciate le nostre incoerenze. Ecco uno dei pochi vantaggi di non essere diventato un personaggio di spicco dello star system. Oltre al fatto che nessuno ti dice che non hai più la stessa voce di un tempo o che, da vicino, sei più piccolo (o più alto) di statura.

Una cosa però è certa: ciò che ti spinge a fare tutte queste cose è la tua testa. Con le sue sofisticate strutture. Ossia, quell’agglomerato di miliardi di cellule che si differenziano in svariati tipi e che, insieme alla morfogenesi, condizionano il tutto. Dal collo in su. Vale a dire tutti quei procedimenti che si occupano della selezione delle cellule, che vengono poi suddivise in tessuti, organi, cartilagini conferendo a tutte le parti una forma precisa e una relazione reciproca. Non mi è ancora chiaro come tutto ciò avvenga (pare che sia una questione di molecole), ma non c’è dubbio che accade secondo un procedimento straordinariamente organizzato. Sennò non staremmo qui a parlarne. Raramente infatti le cellule della lingua prendono il posto di quelle del naso e quelle
della retina finiscono in mezzo all’orecchio. Anche perché sono unite da un autostrada di relazioni, di adesioni cellulari, proteine e geni regolatori
superiori, per i quali il termine «geni», per una volta, appare appropriato.
Insomma, per creare le nostre piccole teste sono necessarie milioni di
istruzioni dettagliate e altrettante ne servono per fare in modo che, in
quest’istante, io possa comunicare con voi e che voi possiate capirmi. Ci deve essere senz’altro qualcosa di magico in tutto questo. Per quanto noi lo si ritenga normale.  È la testa che comanda. E questo spiega perché noi bipedi eretti cerchiamo di soddisfare le tante richieste e le innumerevoli sfide che essa ci pone. Va detto, peraltro, che anche il resto del corpo ha le sue belle responsabilità in questo processo. La testa infatti è solo uno dei tanti elementi che concorrono a una decisione importante. È la parte più significativa, certo, beneficiaria di una miriade di circostanze casuali che le hanno permesso di presiedere ai meccanismi del corpo. E di diventarne il capo (definizione questa che le calza come un basco).
Ma provate a prendere una qualsiasi decisione impegnativa quando avete mal di denti, uno spasmo biliare o una colica renale. Non ci riuscirete. Avrete la stessa capacità di concentrazione di una fontana a spruzzi. La testa è al suo posto, ma il cervello non riesce a trasmettere nulla. Dove mai potrebbe andare da sola, la testa, senza che i polmoni, il cuore e il fegato, tanto per fare un esempio, collaborino attivamente e decidano di assecondarla?

Tutto questo giro di parole per dire che ho accettato di occuparmi di una storia di traffici di reliquie indiane, mentre ero in preda a un profondo ripensamento riguardo il mio benessere, la mia identità e il mio futuro. Infatti, dopo essermi chiamato Rebecca su Internet, dopo aver alimentato il chiacchiericcio stream-of-consciousness di Twitter e aver fatto girare l’ennesima raccomandazione d’ascolto dell’ennesimo remix di Qualcuno, con annessa richiesta di solidarietà per i dissidenti birmani, e l’aver provato a salvare il mondo cinque volte nei diciotto minuti di cinque mini-conferenze stampa «Ted Talk», dopo essermi dedicato a una malsana ossessione per l’osteopatia, per qualsiasi dettaglio irrilevante di statistiche, numeri e sondaggi, per le tabelle dell’intolleranza alimentare, e aver cercato di capire, inutilmente, le schizofreniche strategie politiche del mio Paese, dopo aver fatto questo e altro ancora, ho deciso che l’unica soluzione era quella di allontanarmi per un po’ e cercare di vedere tutte queste cose da lontano.

Subito dopo, però, ho pensato che, se volevo andare a fare trekking sull’Himalaya con qualche possibilità di tornare indietro in condizioni appena decenti, fosse necessario occuparsi sì della testa ma anche (e tanto) del resto del corpo. Si tratta infatti di dormire in campi tendati, senza i nostri acquisiti comfort, quali la doccia, un letto, il caffè, una telefonata ecc., ben sapendo che si può camminare per più di otto-nove ore al giorno. E dunque bisogna occuparsi anche e soprattutto dei piedi. Le trascurate estremità dissidenti che stanno dalla parte opposta del capo. Per questo, prima di partire, mi sono recato in un negozio di articoli sportivi dove ho comprato caldi maglioni, pile windstopper, magliette in tessuto tecnico, una giacca-guscio pesante. Quindi, un sacco a pelo per le basse temperature, guanti, sciarpe, una borraccia da un litro, una
torcia frontale, occhiali da sole e varie. Infine, ho comprato scarponcini
resistenti e di buona qualità. Ne ho provati diversi, poiché non sapevo
distinguere la differenza. Il risultato è che ne ho scelti due paia che nel
complesso mi parevano adeguati, per quanto il cuscino sul tallone, al primo impatto, mi sembrasse un po’ duro. Ai piedi fanno una discreta figura, anche se pro-babilmente ne esistono di migliori, e danno la sensazione di essere elastici, dunque affidabili. Sebbene la mia non è che l’opinione di un neofita. E dunque non va tenuta da conto.

Dopo tutti questi scrupolosi acquisti, ho avuto quella che solitamente può essere definita una brillante intuizione, che in quanto tale, come tutte le brillanti intuizioni, può anche venir vista come una solenne castroneria: non togliere più le preziose calzature dai piedi, per una settimana. Nemmeno per dormire. Ora, indossare gli scarponcini una settimana prima di partire per l’Himalaya può sembrare una sciocchezza (e forse lo è), ma io penso che prendere confidenza con le cose sia una buona abitudine. Bisognerebbe sempre acclimatarsi, così come si fa con l’altitudine. A mio avviso, sarebbe da fare anche con le persone, prima di intraprendere un qualsiasi viaggio della durata superiore ai tre giorni. E anche con qualsiasi relazione. Noi della nostra generazione siamo stati sin troppo fortunati in questo. Abbiamo avuto la possibilità di avere rapporti prematrimoniali, di comprare le auto in leasing e di riportarle pure indietro. Praticando la convivenza. Diciamolo, in questo modo, si parte avvantaggiati. Ho sempre pensato che fosse un’idiozia quella di
non avere esperienze sessuali prima del matrimonio, come facevano i nostri genitori. Non conoscere niente di intimo della persona che poi dividerà il tuo letto, la tua vasca da bagno e il tuo bancomat. Tuffarsi e basta. I rischi sono dietro l’angolo e la vita è già così complicata quando si prendono tutte le precauzioni del caso, che non vale la pena di rischiare ulteriormente. E comunque per questo genere di salti nel buio, non c’è scarponcino con elaborata grip che possa mantenerti saldo. Ad esempio, noi occidentali dovremo acclimatarci al nuovo ordine economico che si sta costruendo, in parti-colare noi europei. Per anni, infatti, ci hanno riempito di suv, tatuaggi, cellulari, super televisori al plasma e tutta una serie infinita di altre cazzate, a rate, facendoci vivere al di sopra delle nostre possibilità, e poi ci hanno sottratto lentamente la possibilità di usufruirne, tanto che ora non sappiamo più chi siamo. Né cosa siamo. E in cosa crediamo. Il problema è squisitamente culturale, più che economico. Se anche azzeccassimo venti Superenalotto di fila, non cambierebbe niente. È la testa che è confusa. Il resto del corpo non può che arrancare e seguire da presso. Essa ha smarrito la strada. Quindi dovremmo far sì che la ritrovi. Dovremmo ridisegnargli la mappa. Agevolarle il percorso. Anche in altre lingue, semmai. Dovremmo allestire un programma di piccole modifiche, da rendere poi, col tempo, duraturo. Dopodiché avremmo due possibilità: fare tesoro di quello che abbiamo imparato in questi anni di temporanea sospensione delle nostre abitudini e scoprire che non ne abbiamo poi sofferto così tanto. Oppure riprendere la nostra solita vita, identica a prima,non appena il periodo di crisi sarà terminato. Senza che questa eloquente prova del destino ci abbia insegnato assolutamente niente. È proprio quello che dovremmo evitare. Dovremmo approfittarne, invece, facendola diventare un’occasione. Guardandoci intorno, insomma. Accettando suggerimenti da altre culture. Esplorando altri modi di vedere l’esistenza. E sgraffignando da questi ciò che ci può essere utile per migliorare la nostra vita. Ma perché andare a cercarli in India e in particolare sull’Himalaya, vi starete chiedendo? Semplice. Perché lassù bisogna portarsi dietro le cose essenziali, fare attenzione a distribuire i carichi, essere sufficientemente lenti nell’incedere, ma abbastanza veloci nel capire ciò che accade. Perché è un posto dove i sentieri possono essere sbarrati a ogni istante, i tracciati modificati,  le comunicazioni sospese. Senza contare che in un giorno passano quattro stagioni e le condizioni del tempo possono influire drasticamente sulle difficoltà, insieme agli smottamenti del terreno, alla corrente dei fiumi, ai crepacci, alle valanghe. E persino gli animali, come il leopardo di montagna, possono riservare delle sorprese. Per non parlare dello Yeti. Insomma, un posto molto più sicuro, prevedibile e meno pericoloso… di casa nostra.

(continua in libreria…)

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