“Quando tutto sarà finito”, romanzo d’esordio di Audrey Magee, è ambientato tra la Berlino in guerra e il fronte russo a Stalingrado – Leggi i primi due capitoli

All’estero ha fatto molto parlare il romanzo d’esordio della giornalista irlandese Audrey Magee, Quando tutto sarà finito, che ora arriva nelle librerie italiane per Bollati Boringhieri.  Il libro racconta (per dialoghi)  la storia di un “amore per caso”: da una parte la Berlino in guerra, dall’altra  il fronte russo a Stalingrado.

E veniamo ai personaggi: Peter Faber è un soldato semplice, un insegnante spedito sul fronte orientale. Katharina Spinell è una ragazza di Berlino, con un lavoro poco attraente e genitori oppressivi. I due si sposano senza essersi mai conosciuti: è un matrimonio di assoluta convenienza, che garantisce a lui una licenza di dieci giorni, a lei una pensione Peter
dovesse morire in guerra. Inaspettatamente, i due ragazzi si innamorano a prima vista, e al momento della
separazione si scambiano promesse di fedeltà e di un futuro insieme.

Il ricordo dei brevi giorni passati con Katharina e il sogno di una vita familiare al ritorno, sono le uniche cose che permettono a Peter di resistere agli orrori del fronte russo, raccontati nei dettagli, quasi sempre per dialoghi con il gruppetto di commilitoni che lo accompagnerà fino a “quando tutto sarà finito». Anche Katharina, a Berlino, si ripete che “quando tutto sarà finito” riuscirà a crearsi una vita con Peter e il bambino che nel frattempo si accorge di aspettare, e soprattutto a sfuggire al controllo ossessivo di un padre convinto seguace della dottrina nazista: è questo il personaggio che meglio di tutti rappresenta la Germania del tempo, quella della “banalità del male”, quella della gente comune che ritiene legittimo impadronirsi delle case degli ebrei deportati, stanare i fuggiaschi e continuare a brindare alla vittoria e a godere dei privilegi conquistati all’interno del regime anche quando la realtà annuncia la sconfitta.

Sempre più stanco e disilluso Peter, sempre più ansiosa per il proprio destino e quello del figlio Katharina, continuano a scambiarsi lettere e promesse, fino alla fine della guerra e di ogni speranza, attraverso le vicende spaventose che sconvolgono tutti i cittadini della nazione sconfitta…

Su IlLibraio.it i primi due capitoli del romanzo

1.

Allontanò il filo spinato dal palo e fece spazio sulla terra riarsa dal sole. Tirò fuori la fotografia dalla tasca della giubba, la schiacciò contro il palo e la legò con uno spago, coprendo i capelli e il collo della ragazza ma non il volto. Il volto lo vedeva ancora, vedeva ancora quegli occhi cupi, quelle labbra imbronciate. Strinse il nodo e sputò. Doveva farsela andar bene.

Si sdraiò sulla schiena per assorbire gli ultimi raggi di sole, senza badare ai mulinelli di polvere e terriccio, desideroso soltanto di riposare, di vivere il momentaneo nulla dell’attesa. Poi però si rimise seduto. Troppo duro il terreno, troppo caldo il sole dell’estate. Si accese una sigaretta e fissò il riverbero della calura finché non individuò una figura pienotta, un furioso agitarsi di braccia e gambe che produceva ben poca velocità. L’uomo alla fine lo raggiunse, brontolando e ansimando, gocce di sudore sul bianco del collare da prete.

«Perché così lontano, dannazione?» gli chiese.

«Volevo un po’ di intimità».

«Ah be’, qui ce l’hai di sicuro. Tutto pronto?»

«Sì».

«Diamoci da fare, allora» disse il cappellano. «Dovremmo essere giusto in tempo».

Ripescò dalla tasca una matita e un foglio di carta stropicciato.

«Chi è lo sposo, soldato?»

«Io».

«E ti chiami?»

«Peter Faber».

«I testimoni?»

«Laggiù» rispose indicando tre uomini rannicchiati nel sonno.

Il cappellano si avvicinò e li scalciò per svegliarli.

«Sono ubriachi».

Faber soffiava anelli di fumo verso l’azzurro del cielo.

«Anche tu, Faber?»

«Non ancora».

Il cappellano scalciò più forte. I tre si ridestarono, a malincuore.

«Bene, ci siamo. Spegni la sigaretta. E alzati in piedi. Abbi un minimo di rispetto».

Faber schiacciò il mozzicone, pigiò a terra le lunghe mani affusolate e lentamente si tirò su.

«Scosta i capelli dagli occhi, forza» disse il cappellano. «Chi è che intendi sposare?»

«Katharina Spinell».

«È lei? Quella della foto?»

«A quanto ne so».

«A quanto ne sai?».

«Non la conosco».

«Però la vuoi sposare».

«Sissignore».

«Non vedi l’ora».

«Di scappare da questo puzzolente letamaio».

Il cappellano scrisse qualcosa, rimise in tasca il pezzo di carta e la matita.

«Possiamo cominciare» annunciò. «Il tuo elmetto, Faber?»

«È quello per terra. Accanto alla fotografia».

«Avvicinatevi, soldati. Mano destra sull’elmetto».

Si strinsero tutti e quattro in cerchio attorno all’elmetto sudicio e ammaccato, gomiti contro gomiti, ginocchia contro ginocchia.

«Lo sposo prima».

Faber posò la mano sul metallo ma la tolse all’istante.

«Scotta, dannazione».

«Rimettila» ordinò il cappellano. «Manca un minuto a mezzogiorno, in patria».

Faber si tirò il polsino fin sul palmo. «La carne della mano, Faber. Non la stoffa».

Il cappellano raccolse un pugno di terra e la lasciò cadere sull’elmetto.

«Ecco».

«Grazie».

Faber rimise la mano sull’elmetto subito imitato dagli altri, mentre il cappellano cominciava a recitare la formula. Nel volgere di pochi minuti fu sposato a una ragazza di Berlino che non conosceva. Contemporaneamente, a quasi duemila chilometri di distanza, la ragazza partecipava a un’analoga cerimonia, testimoni il padre e la madre: siglando a sua volta un patto di guerra che garantiva a lui una licenza matrimoniale e a lei una pensione nel caso fosse rimasta vedova.

«Fatto» disse il cappellano. «Sei un uomo sposato».

Tutti gli strinsero la mano.

«Devo bere» disse Faber.

Recuperò l’elmetto ma non la foto, e fece ritorno verso l’accampamento.

 

2.

 

La fissò, ben oltre il limite della buona educazione, prima di presentarsi.

«Sono Peter Faber».

«Lo so. L’ho riconosciuta dalla foto».

«Tu sei Katharina?»

La ragazza annuì e lui le strinse la mano, sorpreso dalla sua pelle morbida, dalla cascata di capelli neri oltre le spalle. Katharina diede uno strattone.

«La mano» disse. «Posso riaverla?»

«Scusa».

Faber mollò la presa e fece un passo indietro, tornando vicino allo zaino e al fucile depositati sul marciapiede. Lei rimase dov’era, il fianco insinuato nel varco del portone.

«È stato un lungo viaggio, signor Faber?»

«Sì. Sì, davvero. Molto lungo».

Katharina lo scrutò, la mano sollevata per ripararsi dal sole.

«Quanto tempo rimane?»

«Dieci giorni».

La ragazza spalancò il portone.

«Si accomodi».

Raccolta la roba, Faber entrò nell’androne buio, privo di finestre. Katharina si coprì il naso e la bocca. Puzzava. Si allontanò da lui e imboccò le scale.

«Siamo al secondo piano».

«Siamo chi?»

«Io e i miei genitori».

«Non sapevo che vivessi con loro».

«Non mi pagano abbastanza per potermi permettere di vivere da sola».

«Immagino. Che lavoro fai?»

«Gliel’ho scritto nella lettera. Lavoro in banca. Come dattilografa».

«Ah già, l’avevo dimenticato».

La seguì su per i logori gradini di linoleum, osservando le natiche carnose che spostavano di qua e di là la stoffa della gonna. Katharina si girò a guardarlo.

«Ha bisogno d’aiuto?»

«No, grazie».

«Non vedono l’ora di conoscerla».

Katharina aprì la porta dell’appartamento e Faber si fece scivolare lo zaino dalla spalla.

«Lo prendo io» disse lei.

«Pesa».

«Ce la faccio».

Trascinò il bagaglio in una stanza dietro la porta e tornò a prendere il fucile. «Questo lo tengo io» disse Faber.

«Qui siamo a Berlino».

«Preferisco averlo con me».

Attraverso l’angusto corridoio, entrarono in una piccola cucina che scintillava di condensa. I genitori scattarono in piedi e fecero il saluto, il gesto vivace, entusiasta.

«Sono Günther Spinell. Il padre di Katharina».

Faber gli strinse la mano.

«Siamo davvero orgogliosi di avere un secondo militare in famiglia».

Faber guardò il tavolo. Apparecchiato per quattro, tazze e piattini sbeccati, diversi uno dall’altro.

«Mio figlio sta più a nord rispetto a lei, signor Faber. Dalle parti di Mosca».

«Poveraccio».

«Johannes è molto coraggioso».

La madre di Katharina, capelli ricci attraversati dalle prime striature grigie, indicò una sedia.

«Prego, signor Faber».

Faber sganciò l’elmetto, la giberna e il tascapane dalle cinghie e li ammonticchiò sullo striminzito piano di lavoro accanto ai fornelli. Si sedette e si grattò la schiena contro il legno.

«Sta comodo?»

«Perfetto».

«Fatto buon viaggio?»

«Di notte il treno era molto freddo».

«Non avete il pastrano? Un paio di guanti?»

«Ancora no».

«Crede che Johannes li abbia?»

«Non saprei».

La signora Spinell sfilò un fazzoletto dal polsino e si coprì il naso e la bocca. Tossì, si schiarì la gola.

«Apri la finestra, Katharina».

Faber la osservò spingere il vetro e sporgersi, sedere all’insù. E mentre Katharina restava a respirare l’aria fredda di ottobre, lui le fissava i fianchi, larghi e morbidi.

«Il signor Ewald sta già impilando le cassette» disse lei.

Faber sentiva sbattere legno contro legno.

«È il nostro fruttivendolo» spiegò il padre. «Un uomo di provata fede».

«Chiude prima del solito» osservò la signora Spinell.

«Non c’era granché oggi» disse Katharina.

Si voltò.

«Dài, mamma. Prepariamo il caffè».

Faber accese una sigaretta e la signora Spinell appoggiò sul tavolo un posacenere a forma di svastica.

«È di Johannes, signor Faber, ma lo usi pure».

Senza aggiungere altro, le due donne si misero al lavoro.

«Era mai stato a Berlino?» gli chiese il signor Spinell.

«No».

«Più tardi Katharina le farà fare un giro della città».

Mentre la signora Spinell versava il caffè, Katharina tagliò una fetta di torta e gliela servì.

«È al limone».

«Grazie».

Faber si portò il caffè al naso, lo posò sul tavolo e prese la torta, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. Tutti risero.

«Scusatemi» disse lui. «Non sapete da quanto tempo».

«Prego, prego» lo invitò la signora Spinell. «Mangi».

Diede un morso al pandispagna e lo accompagnò con un sorso di caffè. La scarica di dolce e di amaro lo fece sospirare ancora. Risero di nuovo tutti.

«Che buono, signora».

«È caffè vero» precisò il signor Spinell. «Viene dal dottor Weinart, un mio amico».

«E una vicina di casa ci ha dato le uova per la torta» aggiunse la moglie. «Come regalo di nozze».

«Quella è una comunista» disse il signor Spinell.

«La signora Sachs è una brava persona, Günther».

«È così che si camuffano, Esther. Con questi favori tra vicini».

Katharina sorseggiò il caffè ma spinse verso Faber la sua fetta di torta.

«La prenda lei. Le va più che a me».

Dopo aver divorato la fetta di Katharina e addirittura una terza, Faber si adagiò allo schienale della sedia e accese un’altra sigaretta.

«Dove insegna, signor Faber?»

«Alle elementari, signora Spinell».

«Ha un posto fisso?»

«Sì. Nella scuola che frequentavo da bambino».

«E glielo tengono?»

«Certo».

«Peccato che lo stipendio da maestro non sia granché. Pensa di poter provvedere adeguatamente a mia figlia?»

Faber si sentiva addosso tutti i loro occhi. Il signor Spinell fece una risatina di sufficienza.

«La madre di Katharina si preoccupa sempre» disse.

«Sto solo cercando di proteggere nostra figlia, Günther» ribatté lei. «Di risparmiarle quello che ho dovuto passare io dopo l’ultima guerra».

«Non è il momento, Esther».

«Sì che è il momento. Dovevo raccattare il cibo per strada, signor Faber, frugare nei bidoni della spazzatura perché i miei figli piangevano per la fame. Non sa quanto strepitava, Johannes. E ha ancora fame, ne sono sicura».

«Johannes sta benissimo, mamma».

«Tu non puoi capire, Katharina. Capirai soltanto quando soffriranno anche i tuoi figli, finita quest’altra guerra».

«Stavolta sarà diverso, Esther» disse il marito. «Adesso ci temono tutti. La vittoria sarà rapida».

«Ma lui resterà pur sempre solo un maestro».

Tutt’a un tratto, Faber provò fastidio per le mattonelle che trasudavano, per la sedia dura, per le tazze sbeccate. Si drizzò dallo schienale.

«Mio padre fa il maestro da una vita e ha provveduto a noi senza problemi» disse.

«Ma sarà ancora sufficiente?»

«Per mia madre lo è stato».

«È una donna di poche pretese?»

«È una donna come tutte le altre, signora Spinell, che ha dedicato la propria vita al marito e ai figli».

«Lo stesso può attendersi da Katharina» affermò il signor Spinell. «Sarà un’ottima moglie. E un’ottima madre».

«Per esserlo avrà bisogno di un marito con un buon lavoro, Günther».

«Insegnare, nel nostro nuovo mondo, sarà una professione altamente stimata, Esther. Bene, giovanotto, ora ci racconti del fronte. Ci racconti di Kiev».

Faber si accese una terza sigaretta e trascinò il fumo in fondo ai polmoni, assorbendo in silenzio il suo bruciore prima di rilasciarlo, lentamente, nell’aria. Scrollò la cenere e si schiarì la voce.

«I russi sono tenaci, ma nulla possono contro i moderni armamenti tedeschi».

«Sarà tutto nostro entro Natale» disse il signor Spinell. «Trecento chilometri appena da Mosca… siamo invincibili».

«Stiamo andando bene».

«Sono molto fiero di lei e di tutti i nostri soldati».

Faber aspirò un’altra boccata e annuì indirizzando il fumo verso il soffitto.

«Grazie, signor Spinell».

«A guerra finita, avremo spazio, cibo, acqua e petrolio a sufficienza per secoli. Lei e mia figlia potrete prendervi tutta la terra di cui avrete bisogno».

«Faremo questo?» chiese Katharina.

«Cosa?»

«Prenderci la terra? Trasferirci a est per restarci?»

Faber la fissò. Stava sudando, nonostante facesse ormai fresco.

«La Russia è povera, sudicia e piena di contadini che vivono in case di fango» disse. «Se sono qui è proprio perché quel paese mi fa schifo».

«Loro lavoreranno per voi» spiegò il signor Spinell. «Potrete abbatterle, quelle catapecchie, fare piazza pulita e costruire una meravigliosa casa tedesca. Immagini, una fattoria tutta vostra».

«Io non so niente di agricoltura».

«Ci sarà un addestramento. Dopo la guerra, ai giovani verrà insegnato come diventare agricoltori, come produrre cibo per la Germania».

«Signor Spinell, sono felice di servire il mio paese, ma una volta finita la guerra tornerò a Darmstadt e riprenderò la mia vita da maestro».

«Potrebbe anche fare altro. Guadagnare di più».

«A me il lavoro di maestro piace».

«Sembra un uomo in gamba».

«Sono un maestro in gamba».

«Ma ci sono tanti altri impieghi, specie a Berlino. Potrà sempre insegnare in vecchiaia, dopo essersi gonfiato per bene le tasche».

Faber schiacciò il mozzicone nel posacenere e si guardò intorno.

«Come ha fatto lei, signor Spinell».

Katharina cominciò a sparecchiare.

«La porto a fare un giro in città» disse. «Prima che cali il buio».

«Le mie fortune stanno per cambiare, signor Faber. E potrebbero cambiare anche le sue».

«Io sono soddisfatto della mia vita, signor Spinell».

«Lasci che le presenti il dottor Weinart. È un uomo di grande rettitudine e con molte conoscenze».

Faber si alzò.

«Ci penserò».

Raccolse il fucile.

«Lo lasci pure lì» disse Katharina.

«Preferisco averlo con me».

«È meglio lasciarlo a casa. Stiamo andando al parco».

«Lo prendo lo stesso».

Fece per avvicinarsi alla porta.

«Potrebbe almeno aspettarmi. Devo prendere il cappotto» disse Katharina.

Faber uscì senza di lei e scese le scale del palazzo. In strada, il fruttivendolo stava smontando la bancarella davanti al negozio. I due uomini si salutarono con un cenno del capo. Faber saltellava sulla punta dei piedi e si strofinava le maniche della giubba, dando colpetti alle braccia per contrastare gli effetti del vento pungente. Katharina sbucò dal portone. Si stava abbottonando un cappotto troppo corto per la gonna che indossava.

«Torno a prenderle il paltò di mio fratello?»

«Sto bene così».

«Sembra infreddolito».

«Ho detto che sto bene».

Katharina lo superò avviandosi verso una città a lui sconosciuta.

«Dove stiamo andando?»

«Al lago. Nel parco».

«Potresti almeno aspettarmi».

«E perché? Lei non si è mica degnato di aspettare me».

Faber si arrestò, le spalle appena incurvate.

«Scusami. Avevo proprio bisogno d’aria».

«I miei genitori fanno quell’effetto».

«È stata dura. Più di quanto mi aspettassi».

«È sempre così».

«Come riesci a sopportarli?»

«Anni di allenamento. Ma non sono cattivi. E gli sei simpatico».

«Tua madre mi odia».

«No. È che vuole solo il meglio per me».

«Non vado abbastanza bene, eh?»

«Sono la sua unica figlia».

«E pensava che potevi trovarti di meglio di un maestro».

«Più o meno».

«Cosa si aspettava? Un medico? Un avvocato? Quelli non sposano certo un’impiegata di banca».

«Credo di no, signor Faber».

Di nuovo Katharina accelerò il passo. Lui la raggiunse.

«Scusami».

«L’agenzia ci ha fornito la sua scheda e quella di altri quattro uomini, tra cui il figlio ciccione di un medico».

«E tua madre avrebbe voluto lui?»

«Precisamente».

Faber rise.

«E invece si è beccata un inutile maestro allampanato».

«Così pare».

«Be’, dove si trova? Il figlio ciccione del medico. È qui? A Berlino?»

«No. Sul fronte russo, non so bene dove».

«Allora la ciccia l’ha persa tutta».

Risero entrambi, e Faber le offrì il braccio. Lei lo prese.

«Tuo padre, invece? Cosa pensa?»

«Gli vai a genio. Dall’inizio».

«E allora perché vuole trasformarmi in contadino?»

«Ogni tanto gli vengono queste idee. Weinart però dovresti conoscerlo. Che male c’è?»

«Ho detto che ci avrei pensato».

Katharina lo tirò per il braccio e lui accorciò il passo per tenere il suo ritmo. Fece un respiro profondo e cominciò a camminare appoggiando i piedi dal tacco alla punta, godendosi la solidità del marciapiede, la distanza dalla Russia. La sentì stringersi a sé.

«Anzi, a mio padre sei proprio simpatico».

«Come lo sai?»

«Sei un soldato, stai combattendo al fronte. Per lui è più che sufficiente».

«Sì, in effetti si è capito. E tu? Cosa pensi di me?»

«Non ho ancora deciso».

«Devo provare a convincerti?»

«Prova un po’».

Faber la prese per le spalle e la guidò all’indietro, verso l’ingresso di un negozio già chiuso. La baciò. Katharina lo respinse e tornò sul marciapiede, la mano destra sulla bocca, disgustata dal tanfo.

«Mi stavi punzecchiando, con tutte quelle fibbie» disse.

Lui le sorrise.

«Sei proprio buffa. Dài, vediamo questo parco».

Katharina si aggrappò di nuovo al suo braccio. Varcarono i cancelli e andarono a sedersi su una panchina sulla sponda del lago. Tre bambini sfruttavano le ultime luci del giorno per spingere le rispettive barchette con lunghi bastoni.

«È bello tornare a sedersi in mezzo agli alberi. Le foreste della Russia sono buie e sconfinate. Fanno paura. Le odio».

«C’è qualcosa che ti piace della Russia?»

«Prima ero in Belgio, lì è tutto civilizzato, comodo. La gente è uguale a noi. La Russia invece è diversa. Dura e ostile».

«Tanto manca poco».

«È un paese enorme. Sembra non finire mai».

«Tanto meglio per noi».

«Sarà».

La baciò ancora e lei glielo permise, per pochi istanti.

«Pensavo che ai militari fosse vietato baciare in pubblico» disse.

«Sono sicuro che perdoneranno un soldato di fanteria in luna di miele».

Faber guardava il laghetto, l’acqua che lambiva i piedi dei bambini. Katharina gli posò la testa sulla spalla, il viso rivolto dalla parte opposta.

«Perché ti sei sposato?» gli chiese.

«Volevo una licenza. E tu?»

«Secondo mia madre era una buona idea. Un minimo di sicurezza, immagino. Il titolo di moglie. Un sacco di ragazze lo stanno facendo».

«E perché hai scelto me?»

Katharina sorrise.

«Non lo so. Mi piaceva la tua foto. Le tue mani, in particolare».

Faber si guardò i palmi, poi i dorsi.

«Che hanno le mie mani?»

«Non lo so».

Gli sfiorò il pollice.

«Sono forti. Asciutte. A me piacciono così».

«Già, è vero, non ti piace il grasso».

Risero entrambi e lui la baciò di nuovo.

«Sei più carina di quanto pensassi. I capelli, gli occhi. Il sorriso. Perché non sorridevi nella foto?»

«Secondo mia madre era meglio non farlo. Magari un uomo poteva trovarlo sconveniente».

«Sarà il caso di smetterla di dar retta a tua madre».

«Se le avessi dato retta, non saresti qui».

Faber le aprì il cappotto e le passò le mani sui seni.

«Sei molto più carina di quanto mi aspettassi».

«L’hai già detto. Cosa ti aspettavi?»

«Una più scialba».

«E perché volevi sposare una ragazza scialba?»

«Va’ a sapere».

Risero, e Katharina si alzò.

«Dobbiamo andare» disse.

Passarono accanto ai bastoni abbandonati dai bambini.

«E i tuoi, che cosa pensano del nostro matrimonio?» gli domandò.

«Non gliel’ho ancora detto».

«Approveranno?»

«Ne dubito. Non ti conoscono».

«Nemmeno tu mi conosci».

«Già, ma io ho intenzione di conoscerti per bene».

«Davvero, signor Faber? Sembra molto sicuro di sé».

La prese per il braccio.

«Sbrighiamoci. Mammina ti starà aspettando».

 

Dall’estremità del corridoio, la signora Spinell indirizzava Faber verso il bagno con ampi cenni del braccio. La vasca era già piena.

«Non sprechi il dentifricio e il sapone, per favore» gli disse. «È tanto difficile procurarseli».

«D’accordo».

«E lasci pure i vestiti in bagno».

«Grazie».

Faber rivolse un sorriso a Katharina, chiuse la porta e cominciò a spogliarsi. Sul pavimento cadeva la terra arsa della Russia mentre, uno strato dopo l’altro, si liberava dei vestiti irrigiditi dal sudore. Si guardò allo specchio, osservò il petto e il viso abbronzati, le gambe pallide e i piedi infiammati, screpolati, ricoperti di vesciche dopo i tanti mesi trascorsi a marciare su quel suolo aspro e duro.

Entrò nell’acqua bollente e sommerse la testa, beandosi del caldo e del silenzio, della distanza che lo separava dai suoi commilitoni. Si schizzò il torace, col sollievo di essere lontano dal frastuono, dal caos, dalle esplosioni, dal ronzio delle mosche, dal crepitio delle mitragliatrici, dalla voce del padre di Katharina che gli programmava il resto della vita. Non gli serviva un altro padre. Un’altra coppia di genitori.

Piegò le gambe e affondò di nuovo la testa sott’acqua. Lontano dai vermi che strisciavano dai cadaveri, dal nauseabondo fetore dolciastro della morte. Imbozzolato nell’acqua. Nel silenzio. Nel nulla. Avrebbe voluto restarci ma riemerse per prendere fiato, agguantò lo straccio e il sapone dal bordo della vasca e si strofinò finché l’acqua non divenne marrone.

Su uno sgabello accanto al lavandino, la signora Spinell gli aveva lasciato vestiti puliti, un rasoio, dentifricio e spazzolino. Faber trascinò la lametta consumata tra la barba ruvida e si lavò i denti, così malmessi che la schiuma rosa prese un colore rosso acceso. I pantaloni erano corti, la camicia invece gli stava abbastanza bene. Esitò di fronte al maglione con la svastica su entrambe le maniche ma alla fine lo indossò, gustandosi il tepore della lana battuta.

Non appena ebbe riaperto la porta del bagno, dalla cucina accorse la signora Spinell.

«È bello sentirsi di nuovo puliti» disse lui.

La vide osservare il pavimento.

«Potrebbe almeno svuotare la vasca?»

«Certo».

«La cena è pronta».

«Purtroppo ho usato tutto il sapone».

«E il dentifricio?»

«Be’, di quello ce n’era poco comunque».

Katharina e il signor Spinell erano già seduti a tavola, divisi da un’unica pentola nera dal cui traballante coperchio usciva uno sbuffo di vapore.

«Si accomodi» disse il signor Spinell. «Mangi con noi».

La signora Spinell ammonticchiò le verdure stufate sul piatto del marito e scelse tre pezzi di carne da sistemare sulla montagnola. Servì a Faber un identico piatto; per sé e per la figlia, invece, solo due pezzi. Faber mangiò in silenzio, biascicando la carne di infima qualità, asciugando il sughetto acquoso con il pane di segale. Dopo aver finito si adagiò sullo schienale della sedia, la fame di mesi tutt’altro che saziata.

(continua in libreria…)

© 2014 Audrey Magee
© 2015 Bollati Boringhieri editore, Torino. Traduzione di Carlo Prosperi

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