Stefano D’Andrea, esperto di storytelling, nel suo libro racconta storie di bambini, di genitori, di insegnanti, di giochi, di paure… E ai lettori de IlLibraio.it consiglia una serie di letture (in cui non mancano i testi illustrati), accompagnate da ricordi e aneddoti autobiografici: da Topolino ai Gialli dei ragazzi, passando per Marcovaldo, Eta Beta e…

 di Stefano D’Andrea *

Mio nonno mi cantava canzoncine in tedesco, che era la sua lingua, e in napoletano, che gli piaceva. Mia madre mi leggeva storie che non ricordo ma che mi facevano stare bene. Mio padre riempiva la casa di melodie, ritmo e armonie. E la televisione iniziava a mostrare immagini in movimento. Negli anni ‘70, quelli della mia infanzia, ero uno spettatore, un ascoltatore, un fruitore, una specie di utilizzatore finale involontario. Poi, crescendo, ho cominciato a capire cosa mi piaceva di più, cosa mi incuriosiva veramente, cosa volevo conoscere meglio. Ho imparato a leggere e a mettere i dischi sul piatto, a girare la manopola della radio e a chiedere a mio nonno di non cantarmi più le canzoni di Carosone. Ho scoperto i fumetti e i libri illustrati. E ancora oggi forse è proprio quando mescolo le parole alle immagini che riesco a vedere più in profondità, a comprendere meglio, a sentire con maggiore forza.

Nei miei primi dieci anni ho vissuto a Roma e a quel periodo associo in particolare certi titoli e certi autori. Quando sfogliavo i libri di Richard Scarry ero affascinato da quel mondo che non esisteva prima che girassi la copertina, e che poi mi sembrava che esistesse solo quello. Orsetti poliziotti, gattini guidatori, maialini vigili del fuoco e conigli contadini. Non c’erano storie complesse ma un intero universo fatto di poche parole e piccoli disegni sorridenti.

Poi ho iniziato a leggere Topolino, a odiarlo per preferirgli Paperino, poi a preferirgli Paperon de’ Paperoni perché non mi sembrava cattivo in fondo aveva i suoi soldi e ci voleva nuotare dentro. Sono piacevoli le storie sempre simili e sai già come vanno a finire, sono rassicuranti.

Un giorno ho scoperto che si poteva anche disegnare senza mettere il colore. Che un personaggio poteva sembrare vero anche se non era un animale capace di fare cose da uomo, ma un essere che arriva dal futuro o dallo spazio, una forma di vita completamente inventata: Eta Beta, che mangiava la naftalina. E’ suo l’unico albo che tengo sempre nel cassetto.

Quando ho scoperto i giornaletti che si chiamavano Guerra d’eroi c’è stata una rivoluzione nella mia mente. Sono arrivati gli uomini e, tutto d’un tratto, ho cominciato ad appassionarmi alle storie di persone in carne e ossa, nella situazione più dolorosa e incomprensibile: uccidere o venire uccisi. Erano libretti in bianco e nero che leggevo mille volte e coloravo coi pennarelli, che mi facevano conoscere vari punti di vista, il senso della fratellanza, l’esistenza di codici di comportamento e i dubbi sul senso di quel che si fa quando si indossa una divisa cioè, se vogliamo, sempre. E comunque, com’è come non è, i tedeschi sono sempre i cattivi.

Arrivato a Milano ho scoperto Marcovaldo. Non ho avuto consapevolezza dell’esistenza di una persona chiamata Italo Calvino fino a molti anni dopo ma è così che deve essere, perché a me interessava solo quel mondo strano ma così simile a quello che mi stava intorno, che trovavo nelle pagine di un libro pieno di situazioni apparentemente impossibili a dirle ma che se le incontrassi non ti stupiresti. E’ il bello della città. Ho imparato a guardare le cose con le lenti colorate, come se avessi sempre un po’ di acido in corpo (ma poco).

Un’estate in montagna sono passato davanti a un’edicola e mi sono ritrovato attratto da un libro che in copertina aveva una fotografia di un uomo stravolto. Non potevo permettermelo e quindi l’ho rubato. Ne avevo bisogno e l’ho considerato come il furto di una mela come quando si ha fame. Non sapevo cosa ci fosse dentro ma l’ho scoperto aprendolo. C’erano le immagini di Eugene Smith, e i loro titoli. Era il periodo in cui mia sorella, più piccola di me di nove anni, era diventata la cosa più bella che esistesse nel mondo, quindi quando ho visto la foto dei due bimbi, lui più grandino lei più piccina, mano nella mano, di spalle, nel bosco, un’opera dal titolo Walking to the Paradise, ho pensato che fosse il miglior libro che avessi mai comprato (cioè comprato si fa per dire).

I miei mi hanno regalato I Quindici, grossi libri illustrati dal dorso multicolore e dal contenuto vagamente enciclopedico, di cui ognuno trattava un tema che andava da Racconti e fiabe a Come funzionano le cose, da Personaggi da conoscere a Voi e il vostro bambino (quello per i genitori, ma che leggevo anche io). Mi faceva sentire grande poter imparare le cose dei grandi. Hanno fatto molto di più loro che 13 anni di scuola.

E poi ho incontrato Thor e Devil, per cui Stan Lee, Frank Miller, Walter Simonson, Jim Shooter e Chris Claremont. Mi sono innamorato di New York senza saperlo e avevo come eroi un giovane medico zoppo e un avvocato cieco che, smessi i panni dell’uomo comune, combattevano il Male con coraggio e senza aspettarsi riconoscimenti.

Intanto leggevo anche i Gialli dei ragazzi e quindi Leslie McFarlane, Edward Stratemeyer, Alfred Hitchcock e Terrance Dicks. Mi sentivo figo in mezzo storie di crimini e inseguimenti, mi immedesimavo nei giovani che si improvvisavano investigatori.

Ma devo confessare la lettura che, in adolescenza, mi ha aperto davvero la mente: L’amante di Lady Chatterley, di D.H. Lawrence. Il dorso mi guardava dalla libreria dei miei da anni e un giorno in cui ero da solo in casa decisi di prenderlo e aprirlo, perché la curiosità personale è l’unico motore delle buone azioni. Le parti a sfondo erotico furono importanti, non lo nego, ma fu soprattutto la scoperta della passione insensata come tema del mondo degli adulti a sorprendermi. Come se fosse fin lì stato impossibile immaginare che una persona potesse compiere gesti irrazionali, superata una certa età. E invece no. Lì un po’ crebbi io e un po’ vidi rimpicciolire loro, fatto sta che tra me e gli adulti la distanza si accorciò molto, io mi sentii forte e poi decisi anche che da grande avrei fatto il guardacaccia.

Corbaccio

*Dal 12 febbraio in libreria per Corbaccio La vita è una pizza di Stefano D’Andrea, che nel libro racconta storie di bambini, di genitori, di insegnanti, di giochi, di paure, di affetti, di aspettative, di frustrazioni. E che con le sue storie apre squarci luminosi sul nostro essere stati bambini, su cosa pensavamo della scuola, del cibo, della mamma, degli amici, sui nostri sentimenti, sull’allegria e la tristezza…

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