“Lo schiavista” di Paul Beatty un romanzo provocatorio e attuale. Il protagonista è un uomo di colore che intende ripristinare la segregazione razziale nel ghetto per restituire identità alla comunità allo sbando. E per questo finisce davanti alla Corte Suprema…

La storia di Bonbon comincia con una dichiarazione di fronte alla Corte Suprema. “So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato”.

lo schiavista

Nato a Dickens – ghetto alla periferia di Los Angeles – Bonbon  è rassegnato al destino infame di un un uomo di colore della lower-middle-class. Cresciuto da un padre single, controverso sociologo, ha trascorso l’infanzia prestandosi come soggetto per una serie di improbabili esperimenti sulla razza che certamente, prima o poi, avrebbero risolto i problemi economici della famiglia. Ma quando il padre viene ucciso dalla polizia in una sparatoria, l’unico suo lascito è il conto del funerale. E la situazione presto peggiora. A Dickens la gentrificazione dilaga, causando grande imbarazzo allo Stato della California, che decide quindi di cancellare letteralmente la cittadina dalle carte geografiche.

È troppo. Bonbon dà così il via al suo ennesimo esperimento, lanciandosi nella più oltraggiosa delle azioni concepibili: ripristinare un po’ schiavitù e la segregazione razziale nel ghetto per restituire identità alla comunità allo sbando. È proprio quest’idea a farlo finire davanti alla Corte Suprema.

paul beatty_GREGG DELMAN FOR THE WALL STREET JOURNAL

L’autore

Lo schiavista (Fazi) è il nuovo libro di Paul Beatty, classe 1962, di Los Angeles, che nel 2010 aveva già pubblicato Slumberland, sempre sul tema della differenza razziale. Il suo è un romanzo di forte attualità rispetto a quanto sta accadendo negli Stati Uniti alla comunità afroamericana. Una satira pungente sulla razza, la vita urbana e la giustizia sociale. Beatty, che con questo romanzo si è aggiudicato il National Book Critics Circle Award 2016 ed è tra i favoriti per la vittoria del prossimo Man Booker Prize, dà sfogo a una prosa audace, con punte di forte, sarcastica di comicità.

A novembre l’autore sarà in Italia per presentare il suo libro: il 17 al Circolo dei Lettori di Torino e il 20 alla Triennale di Milano, in occasione di BookCity.

Su ilLibraio.it un estratto, per gentile concessione dell’editore

So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive di salario minimo. Non ho mai svaligiato una casa, né rapinato un negozio di alcolici. Non mi sono mai seduto in un posto riservato agli anziani su un autobus o su un vagone della metropolitana strapieni, per poi tirare fuori il mio pene gigantesco e masturbarmi fino all’orgasmo con un’espressione depravata e un po’ avvilita sul volto. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, con l’auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra.

Sono stato convocato tramite una busta dall’aria ufficiale col timbro «IMPORTANTE!» in grossi caratteri rossi, come l’avviso di una vincita alla lotteria, e da quando sono arrivato in questa città non ho mai smesso di stare sulle spine.

«Gentile signore», diceva la lettera.

«Congratulazioni, lei potrebbe aver già vinto! Il suo ricorso è stato selezionato tra centinaia di altri per un’udienza di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Che grande onore! Le raccomandiamo caldamente di presentarsi con almeno due ore d’anticipo rispetto all’orario previsto per l’udienza, che si terrà alle ore dieci del mattino del 19 marzo, nell’anno del Signore…». Seguivano le istruzioni per raggiungere la Corte Suprema partendo dall’aeroporto, dalla stazione ferroviaria e dall’autostrada, e una serie di buoni da ritagliare per l’ingresso omaggio ad alcune attrazioni turistiche, ristoranti, bed and breakfast e simili. Non c’era firma. Solo una frase di commiato:

Cordiali saluti,

Il Popolo degli Stati Uniti d’America.

Il giudice capo presenta il caso. Il suo contegno spassionato da uomo del Midwest contribuisce parecchio ad allentare la tensione in aula. «Il primo dibattimento della mattinata riguarda il caso 09-2606…». Fa una pausa, si strofina gli occhi, poi si ricompone. «Il caso 09-2606, Me contro gli Stati Uniti d’America». Nessun subbuglio. Solo un po’ di risatine, qualcuno che alza gli occhi al cielo e qualcun altro che esclama, schioccando la lingua: «Ma chi si crede di essere quel bastardo?». Lo ammetto, «Me contro gli Stati Uniti d’America» suona un po’ come un’autoesaltazione, ma cosa posso farci? Io sono Me. Letteralmente. Un discendente non particolarmente orgoglioso dei Mee del Kentucky, tra le prime famiglie nere a stabilirsi a sud-ovest di Los Angeles. Posso far risalire il mio albero genealogico fino al primo bastimento che sfuggì alla repressione autorizzata dagli Stati del Sud: il Greyhound. Ma quando sono nato mio padre, seguendo la tradizione distorta degli intrattenitori ebrei che cambiano nome, e dei neri ansiosi con un impiego al di sotto delle proprie capacità che li invidiano, decise di abbreviare il nostro cognome, abbandonando quell’ultima e ingombrante come Jack Benny abbandonò Benjamin Kubelsky e Kirk Douglas Issur Danielovitch Demsky; come Jerry Lewis abbandonò Dean Martin, Max Baer mise al tappeto Schmeling, i 3RD Bass si convertirono ai brani impegnati e Sammy Davis Jr all’ebraismo. Non avrebbe permesso a quella vocale in più di ostacolarmi, come era successo a lui. Papà amava ripetere che non aveva anglicizzato né americanizzato il mio cognome, ma l’aveva attualizzato; che io ero nato avendo già realizzato pienamente il mio potenziale e potevo quindi saltare la piramide dei bisogni di Maslow, la terza classe e Gesù.

fazi

Consapevole che le stelle del cinema più brutte, i rapper più bianchi e gli intellettuali più stupidi sono spesso gli esponenti più rispettati della loro professione, Hamp, l’avvocato difensore che somiglia a un delinquente, posa con gesto sicuro lo stuzzicadenti sul leggio, passa la lingua sopra la capsula d’oro di un incisivo e si sistema il completo, un doppiopetto bianco come i denti da latte e cascante come un caftano, che gli pende dalla figura magra come una mongolfiera sgonfia e, a seconda dei vostri gusti musicali, si intona oppure fa a pugni con la permanente chimica nera come l’aspide di Cleopatra e la tinta scura della pelle da kappaò al primo round di Mike Tyson. Quasi mi aspetto che si rivolga alla Corte dicendo: «Cari amici magnaccia ambosessi, magari avrete sentito dire che il mio cliente è disonesto, ma è facile parlare così, perché in realtà il mio cliente è un criminale!». In un’epoca in cui gli attivisti sociali conducono spettacoli televisivi e guadagnano milioni di dollari, non ne sono rimasti molti come Hampton Fiske, fessi pro bono che credono nel sistema e nella Costituzione, ma rimangono consapevoli del divario tra la realtà e la retorica. E anche se non sono sicuro che lui creda davvero in me, ho la certezza che quando comincerà a difendere l’indifendibile non farà alcuna differenza, perché Hamp è un uomo che sul biglietto da visita ha scritto il motto: «Per i poveri ogni giorno è un casual Friday».

Fiske ha appena finito di dire: «Col permesso della Corte», quando il giudice nero avanza quasi impercettibilmente sul sedile. Nessuno se ne sarebbe accorto, ma il cigolio di una rotella della sedia girevole lo ha tradito. E a ogni richiamo a qualche oscura sezione del Civil Rights Act, o a un precedente legale, il giudice si agita con impazienza, e la sedia cigola sempre più forte mentre il peso di quel corpo irrequieto continua a spostarsi da una floscia chiappa diabetica all’altra. Si può integrare l’uomo, ma non la pressione sanguigna, e la vena che pulsa furibonda al centro della fronte lo tradisce. Mi sta rivolgendo quello sguardo folle, penetrante, arrossato, che a casa mia chiamiamo lo sguardo Wil- lowbrook Avenue, dove Willowbrook Avenue è il fiume Stige a quattro corsie che nella Dickens degli anni Sessanta divideva i quartieri bianchi da quelli neri. Ma ormai, in questi tempi post bianchi, post “chiunque abbia due centesimi in tasca se l’è svignata”, l’inferno si estende su entrambi i lati del viale. Le rive del fiume sono pericolose, e mentre sei fermo all’incrocio in attesa che cambi il semaforo anche la tua vita può cambiare. Qualche abitante di passaggio del quartiere, che rappresenta un determinato colore o una gang, o magari una qualsiasi delle cinque fasi del lutto, può sporgere lo shotgun fuori dal finestrino del passeggero di una coupé bicolore, lanciarti l’occhiata feroce da giudice negro della Corte Suprema e chiederti: «Da dove vieni, coglione?».

La risposta giusta, naturalmente, è: «Da nessuna parte», ma qualche volta non ti sentono in mezzo al baccano del motore senza marmitta, della rissosa udienza di conferma, dei media liberal che mettono in dubbio la tua credibilità, della subdola stronza nera che ti accusa di molestie sessuali. Qualche volta “Da nessuna parte” non è una risposta sufficiente. Non perché non ti credano, o perché “Chiunque viene da qualche parte”, ma perché non ti vogliono credere. E adesso, dopo aver perso la sua patina di civiltà aristocratica, questo giudice dal volto incazzato, seduto sulla sedia girevole dallo schienale alto, non è diverso dal gangster che scorrazza su e giù per Willowbrook Avenue, seduto sul sedile del passeggero solo perché ha uno shotgun in mano.


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E per la prima volta durante il suo lungo mandato presso la Corte Suprema, il giudice nero ha una domanda da porre. Non è mai intervenuto prima d’ora, perciò non sa esattamente come fare. Lancia un’occhiata al giudice italiano come per chiedere il permesso, poi alza lentamente la mano paffuta, con le dita che sembrano sigari, ma è troppo infuriato per aspettare che gli diano la parola e sbotta: «Negro, sei pazzo?», con una voce sorprendentemente acuta per un nero della sua stazza. Ormai privo di obiettività ed equanimità, picchia sullo scanno il pugno grosso come un prosciutto con tale violenza che l’elegante, gigantesco orologio placcato d’oro appeso al soffitto proprio sopra la testa del giudice capo comincia a oscillare come un pendolo. Il giudice nero si avvicina troppo al microfono e inizia a urlare perché, anche se sono seduto a soli pochi metri di distanza dal suo scanno, le nostre differenze ci rendono lontani anni luce. Pretende di sapere com’è possibile che ai giorni nostri un nero possa violare i sacri principi del tredicesimo emendamento possedendo uno schiavo. Come ho potuto ignorare deliberatamente il quattordicesimo emendamento e sostenere che qualche volta la segregazione unisce le persone. Alla maniera di tutti coloro che credono nel sistema, vuole delle risposte. Vuole credere che Shakespeare abbia scritto davvero tutti quei libri, che Lincoln abbia combattuto la Guerra civile per liberare gli schiavi, che gli Stati Uniti abbiano partecipato alla seconda guerra mondiale per salvare gli ebrei e creare un mondo sicuro e democratico, e che Gesù e le proiezioni da due film al prezzo di uno stiano per tornare. Ma io non sono un panglossiano americano. E quando ho agito come ho agito non stavo pensando ai diritti inalienabili, all’orgogliosa storia del nostro popolo. Ho agito così perché funzionava, e da quando in qua un po’ di schiavitù e di segregazione hanno fatto male a qualcuno?, e anche se così fosse, chi cazzo se ne frega.


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Qualche volta, quando uno è sballato come me in questo momento, il confine tra pensiero e parola si fa confuso. E a giudicare dalla bava alla bocca del giudice nero, evidentemente devo aver pronunciato l’ultima frase ad alta voce: «…chi cazzo se ne frega». Si alza in piedi come se volesse prendermi a pugni, con una bolla di saliva che gli sale dalle più remote profondità degli anni di studio alla Yale Law School sulla punta della lingua, pronta a partire. Il giudice capo urla il suo nome, e il giudice nero si trattiene e ricade sulla sedia, ingoiando la saliva, se non l’orgoglio. «Segregazione razziale? Schiavitù? Razza di bastardo senza palle, lo so benissimo che i tuoi genitori ti hanno educato meglio di così, cazzo! Avanti, andiamo a prendere la corda per impiccarlo!».

(continua in libreria…)

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