Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Loredana Limone (i cui romanzi sono ambientati a Borgo Propizio, un paese in collina in un’Italia un po’ fuori dal tempo…)

di Loredana Limone

Parlare di gioia e letizia risulta difficile quando il clima è cupo, quando il mondo si sgretola, specie troppo vicino a noi e non solo metaforicamente, quando la frenesia e la stanchezza ci affliggono, quando non riconosciamo il sentore di abeti e tradizioni, di agrumi e canditi, né il loro significato. O quando la stella pellegrina dimentica di essere cometa e si smarrisce, e ci smarrisce: poco serve che i Magi brontolino, ogni anno accade uguale. Anzi, ogni anno appare peggio, ché la violenza della realtà sempre più ci spaventa, ci confonde, ci depista. Talvolta ci sconfigge.

Bisognerebbe trovare un luogo che fosse rifugio e desse asilo, dove accendere candele (se non temiamo di scottarci) e rinnovare preghiere (se non abbiamo perso la fede). Un luogo che contenga, scolpita sulle pietre eterne delle sue case, la buona storia di ieri da leggere oggi e ricordare domani: letterariamente parlando, un posto ameno – come, uno su tutti, il mondo piccolo del grande Giovannino Guareschi – che ci regali sorrisi, che ci strappi risate. Emotivamente parlando, invece, bisognerebbe scovare quel borgo propizio che io, per mia fortuna, ho trovato in punta al cuore, ma che penso ognuno abbia dentro. Purtroppo non tutti lo sanno o il pertugio appare piccolo per entrarvi.

Ma il Natale va vissuto realmente e, per quello che è il mio ideale, narrativo e non solo, vi esorto a visitare di persona uno dei mille (così inventariati, però sono di più) borghi che troviamo come gemme nei castoni disseminati in ogni angolo del Belpaese e che, mai come nelle festività, diventano veri presepi; luoghi dove ritornare a quel che eravamo o saremmo stati, in alcuni casi alle nostre origini, sicuramente alla natura, a un inverno che non sappia di smog e di ansia, bensì di bacche e muschio non sintetici; luoghi dove nutrire l’anima, ma anche il corpo con cibi antichi eppure nuovi, cotti a lungo, perché lentamente va assaporata l’atmosfera borghigiana.

Sono luoghi d’incanto, che è impossibile menzionare uno per uno, ma tutti d’incantevole semplicità, dove poterci ancora imbattere in quelli che oggigiorno, nel nostro immaginario, per la stragrande maggioranza sono mere statuine di terracotta: il fabbro, l’impagliasedie, il canestraio, la lavandaia, il vasaio, il pastorello… Magari anche un angelo musicante.

A proposito di musica, che dire delle ormai dissipate melodie di un tempo? Ricordo un’indimenticabile e toccante canzone della tradizione classica napoletana, vetusta già quando io ero bambina, che narra la storia di un giovane zampognaro di paese il quale, sopra un misero biroccio, si recò in città per suonare la novena. Lì, frastornato, si perse nel caos delle strade prima e nello sfarzo di una ricca dimora poi, dove, catturato da una vana infatuazione, dimenticò la fidanzata e disattese le promesse. Chissà se, tornando agli antichi luoghi e scostando con l’unghia la patina del tempo, non riusciremo a incontrarlo, cresciuto e ravveduto. E a incontrare noi stessi, in un più savio bozzolo di mondo.

E chissà che stavolta Gesù Bambino, scendendo dalle stelle, non infonda a chi di dovere la buona volontà di sbloccare la legge per la ripresa economica e demografica di questi incomparabili gioielli italiani ferma nei meandri burocratici. La pascoliana fanciulla che è in me e ancora scrive la letterina natalizia l’ha chiesto. Arriverà a destinazione?

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