“Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa” è il nuovo libro di Luis Sepúlveda. Lo scrittore, giornalista e attivista cileno, molto amato dai lettori italiani, si ispira al celebre “Moby Dick” di Herman Melville per dare voce al punto di vista della balena, “il grande capodoglio del colore della luna”. In un’intervista con ilLibraio.it, l’autore parla della sua scrittura (“quando scrivo sento come uno stimolo a lasciar correre l’immaginazione”) e dalle scelte stilistiche per la sua ultima opera (“ho voluto usare un linguaggio ricco di immagini e di metafore”). Tra i tanti temi affrontati, l’attualità politica internazionale, il rapporto tra l’uomo e la violenza, l’utopia, l’impegno (“oggi la vita politica si è trasformata in qualcosa di estraneo, si è sviluppata questa sorta di individualismo, di personalismo, e la gente si affida a feticci come internet e i social network: tante persone, scrivendo su Facebook e Twitter ‘non sono d’accordo’, pensano che quello basti a cambiare il mondo. Ma non è così”)

Cresciuto a pane e romanzi d’avventura, Luis Sepúlveda, nato a Ovalle il 4 ottobre 1949, è uno scrittore e giornalista cileno amatissimo in Italia, autore di romanzi come La fine della storia e Le rose di Atacama, storie di resistenza, e Patagonia Express, un diario di viaggio (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani). Sepúlveda è anche autore di diverse favole per tutte le età, come Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare e Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani), fino al più recente Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani).

Luis Sepulveda storia di una balena bianca raccontata da lei stessa

Questo nuovo libro si ispira al celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick, per raccontarne gli eventi da un punto di vista nuovo, quello della balena: è l’immenso cetaceo bianco e solitario a prendere la parola nel libro, narrando il suo continuo muoversi nelle profondità del mare in totale solitudine, accorrendo ai richiami del suo simile e osservando, dal pelo dell’acqua, il comportamento degli uomini. Il grande cetaceo racconta il proprio compito di guardiano del mare e difensore dei suoi abitanti, messi in pericolo dalle baleniere degli uomini, e descrive il rapporto delle balene con i lafkenche, la popolazione degli “abitanti del mare”.

La favola, traboccante allegorie e metafore, segue l’immenso capodoglio bianco negli abissi e attraverso le correnti, ascoltandone l’antica voce ancestrale, fatta di immagini e formule ricorrenti, presentando la balena come un pacifico protettore delle creature marine, mentre nuota nell’immensità sognando acque libere dalla caccia degli uomini, che stanno sterminando i suoi simili.

ilLibraio.it ha intervistato Luis Sepúlveda per parlare con l’autore del suo nuovo libro.

In Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, lei riscrive la storia di Moby Dick dal punto di vista del cetaceo, una creatura pacifica e un protettore per gli altri abitanti del mare. In questo caso, le balene diventano un’allegoria di tutte le minoranze perseguitate dagli uomini sulla terra?
“Questa è una lettura possibile, ma la mia idea principale era quella di un capodoglio che rappresenta la diversità del mare, questa infinità che è anche una forma di vita molto particolare, un animale che non vive in grandi gruppi, ma quasi sempre in solitudine, che percorre grandi distanze in un continuo movimento migratorio. Migra sempre, costantemente, un po’ come accade nella storia dell’umanità, che poi è la storia di grandi migrazioni che avanzano da un punto all’altro secondo la necessità di sopravvivere”.

Oggi più che mai è bene ricordarlo.
“Oggi più che mai, in tutte le favole c’è sempre una metafora. Ma il lettore è libero di scoprire e interpretare nella sua maniera, secondo la sua realtà, la sua cultura e la sua sensibilità, il senso di questa metafora”.

Cambiare il punto di vista, come in questo caso, può ribaltare completamente la percezione che il lettore ha di una stessa storia. Secondo lei è questo il compito della letteratura, e di uno scrittore? Mostrare il mondo da un punto di vista diverso?
“Sì, certamente, ma è diverso perché quando scrivo, scrivo in maniere diverse: quando lavoro a un saggio o a un articolo giornalistico sicuramente sto lavorando con un senso quasi rigoroso della razionalità. Ma quando sono alle prese con qualcosa di creativo, lascio correre l’impulso della creazione pura, mi piace arrivare a uno stato in cui sento che sta nascendo una forma di scrivere e di pensare solamente come creazione letteraria. Questo non ha una spiegazione così razionale. Possibilmente uno studioso di letteratura di un’università americana può trovare una spiegazione intellettuale, analitica, eccetera, eccetera”.

Per lei è istinto.
“Per me sì, è un impulso istintivo a raccontare in una certa maniera, a seconda di cosa scrivo, se scrivo un romanzo che ha un rapporto di stretta vicinanza con la realtà cerco di creare un equilibrio fra la mia immaginazione, la parte creativa, finzionale, e la razionalità, mediando i due estremi. Ma quando scrivo un romanzo, come nel caso di questa favola, sento come uno stimolo a lasciar semplicemente correre l’immaginazione”.

Nel suo libro, la balena rimane profondamente colpita dallo scoprire che gli uomini sono l’unico animale ad attaccare i suoi simili, a combattersi e uccidersi tra loro, e nel momento in cui la violenza degli uomini si volge verso gli abitanti del mare la balena stessa diventa, per necessità, crudele e vendicativa, nel tentativo di proteggere i suoi simili. È così? La violenza genera altra violenza?
“Il male non ha una generazione spontanea, ha sempre una motivazione molto specifica. Quando questo capodoglio vede le navi che si avvicinano e vede scoppiare un combattimento navale, non ne conosce la motivazione. Possibilmente una nave trasporta oro e argento, una è una nave corsara, ma il capodoglio non lo sa. Ma questa violenza ha una motivazione, sempre”.

Quale?
“Da una parte bisogna pensare a da dove arrivano oro e argento, frutto della violenza contro i veri proprietari, e dall’altra parte alla violenza dei corsari che attaccano la nave per appropriarsi di questa ricchezza. Certamente questo è male, ma bisogna identificarne la radice: non credo che l’uomo sia intrinsecamente perverso come qualche religione sostiene. Credo invece che l’uomo sia intrinsecamente generoso, solidale, fraterno, ma ci sono tanti fattori che lo allontanano da tutto questo, dalle buone azioni, e lo conducono alla violenza e all’egoismo”.

“Sognavo quel posto in cui tutte noi balene saremmo andate sotto la guida dei lafkenche”, dice il capodoglio bianco, pensando a quel luogo dove tutte le balene saranno al sicuro. È un luogo che non raggiungerà mai, ma l’importante è credere che esista.
“Il luogo è un’utopia. In questo caso, i balenieri uccidono le quattro balene che trasportavano i corpi all’isola preparando l’incontro definitivo, quando l’ultimo lafkenche sarà morto, in questo territorio libero, felice e pacifico. Ammazzando le quattro balene il luogo non può essere trovato. Questo territorio è certamente un’utopia, ma si sa che l’utopia è irraggiungibile, si allontana in diretta proporzione alla distanza percorsa, si fa un passo in direzione dell’utopia e quella, automaticamente, si allontana”.

Come l’orizzonte.
“Esattamente, ma quello che importa è che rimanga questa idea di un altro luogo, un’altra forma di esistenza, un’altra forma di confrontarsi con la vita senza la violenza, senza l’egoismo, senza paura di vivere. Questa, che è l’utopia di una piccola porzione dell’umanità, come nel caso dei lafkenche, se ci si pensa è anche la grande utopia che ha ogni giorno tutto il genere umano: arrivare a un punto della vita in cui tutto è migliore, pacifico”.

Lei, nel suo libro, fa largo uso di espressioni formulari, che si ripetono identiche come gli epiteti dei poemi omerici, andando a creare un linguaggio mistico, ancestrale. A cosa è dovuta questa scelta stilistica?
“Quando ho deciso di raccontare la storia dal punto di vista della balena, quando ho lasciato alla balena raccontare la sua stessa storia, ho scelto un linguaggio così pieno di immagini perché nessuno sa come pensa e come si esprime una balena, ma ho immaginato che la forma di espressione di un abitante del mare sia così, con le metafore che hanno un riferimento diretto”.

Ad esempio?
“Il colore della balena è lo stesso colore della luna, quando parla del colore delle isole che circondano il suo habitat parla del colore del mare, della luce della superficie e della profonda oscurità. Ho cercato di creare un linguaggio per la balena. Sicuramente c’è una reminiscenza della narrazione classica, in fondo uno ha sempre con sé le sue letture, quello che leggiamo rimane con noi, fa parte del nostro bagaglio culturale”.

Il suo libro ha anche un evidente valore politico, oggi più necessario che mai. Lei crede che i libri e la letteratura possano giocare un ruolo negli eventi storici e politici della contemporaneità? Possono fungere da guida e da strumento di cambiamento?
“Leggere fa bene. Sempre. Ti apre la testa, ti dà sempre una nuova possibilità di interpretare le cose, e questo aspetto della lettura nasce dall’atto della scrittura. Però non lo so, ho sempre pensato che l’unica maniera di cambiare la realtà, l’unico modo di cambiare tante cose che vanno male, non sia come scrittore, come intellettuale, ma come cittadino. Partecipando attivamente alla vita politica e sociale. E oggi la vita politica si è trasformata in qualcosa di estraneo, si è sviluppata questa sorta individualismo, di personalismo, e la gente si affida a feticci come internet e i social network: tante persone, scrivendo su Facebook e Twitter ‘non sono d’accordo’, pensano che quello basti a cambiare il mondo. Ma non è così”.

E come si cambia il mondo?
“Partecipando attivamente alla vita sociale, appoggiando uno sciopero o una protesta che si ritengono giusti, questo non si deve perdere: la cultura della resistenza. Certamente aiuta se qualcuno contribuisce scrivendo, anche per liberare il pensiero, va bene. Ma dal mio punto di vista non mi sono mai sentito quello che viene definito lo scrittore o l’intellettuale ‘impegnato’, perché se un autore si impegna, si disimpegna con altrettanta facilità. Preferisco partecipare come cittadino e solo quando l’ho fatto sento di avere il diritto e il tempo di dedicarmi alla scrittura”.

Cosa ne pensa di quello che sta succedendo adesso, sia in America sia in Europa, con l’emergere di forze di destra che raccolgono un consenso sempre maggiore?
“Credo che sia molto preoccupante questo estremismo, che in fondo è xenofobia pura, l’odio dei poveri, il suprematismo bianco, è odio verso chi è diverso. Quello che si vede in Europa, in paesi come l’Ungheria, la Polonia, ma anche in Italia, non è un odio per lo straniero che arriva perché è straniero o di colore, è odio per la povertà. La povertà che minaccia la ricchezza del primo mondo. È un preoccupante populismo di destra, che è un populismo feroce, lo abbiamo conosciuto nel corso della storia, il fascismo stesso è una forma di populismo feroce. Ed è preoccupante perché è il risultato di qualcosa che manca”.

Cosa manca?
“Manca una riflessione intelligente del perché questo sistema politico ed economico funziona male e del perché è così. E, soprattutto, manca la formulazione coerente di un’alternativa, un’alternativa al neoliberismo, qualcosa di diverso. Questa è la grande sfida, la formulazione di un’alternativa”.

La sua è una favola, non intesa come libro per bambini, ma come l’intendevano gli antichi, una forma letteraria breve che si fa carico di un insegnamento universale. Come mai questa scelta?
“La prima volta che ho deciso di scrivere una favola per tutti i lettori è stata quando ho lavorato a Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. Il fatto è che dopo aver letto tantissimi libri per bambini mi sono accorto che si trattava principalmente di letture facili, che non erano scritte per una persona di pochi anni. Un bambino è questo, una persona di pochi anni, ma che si va a sviluppare, che cresce, e bisogna parlargli con rispetto e intelligenza. E la maggioranza dei libri per bambini che avevo letto erano scritti per piccoli cretini, senza immaginazione, senza la possibilità di interpretare la lettura in diverse maniere e direzioni. Questo è il fascino della letteratura, il fatto che non ci sono due lettori simili”.

Ogni lettore è diverso.
“Sì, e hanno in mente qualcosa di diverso quando stanno leggendo. E sentire la rabbia mi ha portato a dire no, non è possibile, voglio scrivere una storia guardando con rispetto a questo piccolo lettore, che crescerà. L’unica maniera per farlo era scrivere pensando di non rivolgermi soltanto a un un ragazzino, ma pensando di avere davanti un bimbo che oggi ha otto anni, ma domani ne avrà ottantotto. E allora, siccome uno è sempre figlio di tutto quanto ha letto, mi ricordavo le storie lette da ragazzo e sentivo un grande legame con il genere della favola, per l’umanizzazione degli animali, allontanare l’essere umano per guardarlo meglio, da un’altra prospettiva. Questa è la ricetta”.

Qual è, invece, la morale della favola?
“Credo che tutto il mondo abbia la possibilità di trovare una morale della favola. Non voglio tradire l’idea finale della scrittura, e della lettura”.