“Si incuneava in un mezzo tradizionale come la tv e lo piegava alla sua identità, trasmetteva ciò in cui credeva cantando e ballando. Non ha mai abdicato alla sua libertà”. In occasione dell’uscita del libro “L’arte di essere Raffaella Carrà”, abbiamo intervistato l’autore, Paolo Armelli. Che si è soffermato sulla rivoluzione rappresentata dalla carriera e dall’approccio dell’artista (“per lei non c’era niente di male, e quel niente di male è stata la rivoluzione”), spesso in grado di anticipare i tempi (“quale altro personaggio aveva nel suo repertorio una hit che poi è diventata virale su TikTok?”), e considerata un’icona gay (“si è sempre esposta fino in fondo a favore della comunità Lgbtq+”). Armelli, tra le altre cose, ci parla di come la Carrà viveva gli insuccessi (“scrollava il caschetto e voltava pagina. I grandi fanno così”), del rapporto con gli uomini (“non aveva bisogno di una spalla, la figura maschile non era necessaria alla sua realizzazione”), di quello con il lavoro (“non ha mai preteso di ottenere risultati senza impegnarsi. Era una stakanovista”), di quello con dolore (“nell’ultimo periodo, quand’è stata male, ha deciso di non caricare il pubblico e le persone che l’amavano di questo fardello”) e dei tanti (attualissimi) messaggi lanciati con le sue hit…

“Durante la scrittura di questo libro, mi è comparsa ovunque […] Il mondo è ancora pieno di Raffaella Carrà e probabilmente non smetterà mai di esserlo”.

Così Paolo Armelli, classe ’88, esperto di libri, televisione e spettacolo, collaboratore di testate come Wired, Vogue, Vanity Fair e co-fondatore di QUiD Media, una piattaforma di cultura e informazione Lgbtq+, ci consegna il suo primo libro.

L’arte di essere Raffaella Carrà, pubblicato da Blackie Edizioni, è un manuale “per essere liberi, felici e rumorosi. E far l’amore con chi hai voglia tu”. In copertina, una meravigliosa Carrà pronta ad accogliere il lettore nel viaggio della sua vita e della sua spettacolare carriera.

Ma ogni manuale ha le sue regole e queste sono quelle della Raffa, una donna che ha cambiato tante vite facendo quello che le riusciva meglio, “essere favolosa”.

“Prenditi i tuoi tre minuti di celebrità”, “sei molto più del tuo ombelico”, “nessuno ha le caviglie troppo piccole”: Armelli ci guida attraverso dieci principi, dieci piccoli insegnamenti per imparare a essere leggeri e determinati, ad amare la propria unicità, a farsi rispettare. In definitiva, a essere liberi.

Raffaella Carrà è una filosofia, un modo di stare al mondo, e questo libro è l’ambizioso tentativo di farlo nostro, anche solo un po’.

ilLibraio.it ha incontrato l’autore.

l'arte di essere raffaella carrà

Com’è approdato alla scelta di scrivere un libro su Raffaella Carrà?
“L’idea è venuta a Blackie, e io mi ci sono gettato a capofitto – in Italia, dopotutto, come non partire da Raffaella Carrà? È un personaggio totale, leggendario, l’emblema di un tipo di cultura pop che lega alto e basso, popolare e ricercato, camp e istituzionale”.

Mette d’accordo tutti.
“Ha avuto una carriera lunghissima e ha conosciuto tanti pubblici diversi, da quello più familiare, istituzionale e generalista di Rai1 ai talent di Rai2. Ha avuto un’eco internazionale con le sue hit tra gli anni ’60 e ’80, e anche più di recente – la colonna sonora del film premio Oscar La grande bellezza è sua. Era un personaggio profondamente italiano, tant’è che continuava a ribadire le sue origini romagnole, ma anche internazionale – chi altri è stato intervistato da David Letterman? A parte Maurizio Costanzo. Univa tutti questi opposti e li fondeva in un modo che per lei sembrava spontaneo. Anche nella preparazione del libro, non credo di aver incontrato nessuno che dicesse ‘no, non la conosco, non mi interessa’. Tutti hanno un ricordo o un aneddoto legato a lei”.

Infatti lei ha raccolto all’interno del libro i ricordi e le esperienze di persone che hanno lavorato con Carrà o che semplicemente le hanno voluto bene. Ce n’è uno che l’ha colpita in particolare?
“La suggestione di Laila Al Habash. È una cantautrice giovanissima che ha una venerazione per Raffaella Carrà, mi ha raccontato di avere proprio un altarino in camera sua con tutti i suoi vinili e giornali dell’epoca con lei in copertina… È la testimonianza che questo libro ha senso. Alcune parti della Carrà si sono eternate e sono interessanti anche per i giovani d’oggi”.

Un personaggio transgenerazionale.
“Quando a un certo punto ho visto che nel programma Il Principe Azzurro aveva cantato Bongo Cha Cha Cha con Christian de Sica a me si è aperta la testa. Quale altro personaggio aveva nel suo repertorio una hit che poi è diventata virale su TikTok?”.

Il libro è “un manuale per essere liberi, felici e rumorosi”, per “imparare a volersi bene”. È un concetto che in questo periodo ritorna molto, quello dell’accettazione di sé. Cos’ha da dirci in più Raffaella Carrà?
“Due cose: la prima, che bisogna essere liberi e determinati nell’inseguire ciò che si vuole. Nel programma Io, Agata e tu del 1970 lei chiese tre minuti per dimostrare quanto valeva. Tre minuti da sola sul palco. Il resto della sua carriera è stato un costante replicare questi tre minuti, che poi sono diventati interi programmi, interi tour, un intero Festival di Sanremo. Nella determinazione nell’essere se stessa, lì Carrà ha trovato la realizzazione”.

E la seconda cosa?
“Il duro lavoro. Non ha mai preteso di ottenere risultati senza impegnarsi. Era una stakanovista, la prima ad arrivare in studio e l’ultima ad andarsene, attenta a ogni dettaglio. Ecco, credo che queste due cose, la libertà di essere se stessi e l’impegno per ottenere i risultati desiderati siano due lezioni universali. Ci raccontano anche una certa etica nel porsi al mondo che forse ogni tanto sottovalutiamo”.

“Ho più paura che la gente dica ‘ancora tu’, piuttosto che ‘dov’è andata a finire?’. Questo dice Raffaella. Con i social invece siamo ossessionati dalla necessità di essere sempre visibili per non sparire.
“Sono convinto che se Raffaella avesse avuto i social, sarebbe stata una regina. Però ci ha lasciato un’importante lezione di regolazione dell’immagine pubblica. Nell’ultimo periodo, quand’è stata male, ha deciso di non caricare il pubblico e le persone che l’amavano di questo fardello. Nessuna esibizione del dolore. E poi la rigida separazione tra vita privata e professionale… Non era una persona mondana, preferiva stare a casa a preparare il ragù e giocare a scopone scientifico. Un anti-performativismo che, invece, nell’epoca attuale ci ostiniamo a inseguire forsennatamente”.

L’ultimo principio del libro è proprio “il rumore va bene finché decidi tu”.
“Esatto. Era anche anti-diva, in un certo senso. Diva assoluta quand’era sul palco, riempiva lo spazio come solo lei. E invece nel privato decideva di non fare rumore. E ci insegnava anche questo, va bene sparire piuttosto che sfinire le persone con la propria presenza”.

A un certo punto individua come sua qualità principale “l’essere vera”. In che modo era vera Raffaella Carrà?
“‘Essere vero’ è un concetto che di per sé mi fa abbastanza orrore, perché è spesso abusato e frainteso. Ormai la verità sembra un’esibizione di qualsiasi anfratto della propria intimità. Invece lei era vera perché non sembrava che facesse le cose con sforzo. Intervistava personaggi internazionali in una lingua straniera dopo aver ballato il Tuca Tuca, o dopo aver ricongiunto famiglie divise dagli oceani. Tutto con una naturalezza e una predisposizione che sembravano ultraterrene. Tra lei e il suo pubblico non c’erano sovrastrutture”.

Che è ancora più interessante se si pensa a quanto fosse gelosa e riservata sulla sua dimensione privata.
“Negli anni ’80 in Pronto, Raffaella? rispondeva al telefono. E con quel gesto semplicissimo lei abbatteva le barriere: tu alzavi il telefono e dall’altra parte trovavi Raffaella Carrà. Una metafora potentissima”.

Epico il momento della prima apparizione dell’ombelico carrariano durante Canzonissima, che lei definisce “un’epitome di liberazione inaspettata”. Era il 1970.
“È stata una rivoluzione sotterranea. Esibire l’ombelico per Carrà era semplicemente indossare un costume di scena che prevedeva un top e dei pantaloni, senza la parte che copre la pancia. L’ha fatto con il suo solito candore, con la sua solita spontaneità, per esigenze di scena. E invece ha dimostrato che certi limiti si potevano superare. Non c’è stato niente di male, e quel niente di male è stata la rivoluzione”.

Come quando ha rivendicato il diritto delle donne di dire “mi piaci mi piaci mi pià”. O di trovarsi “un altro più bello, che problemi non ha”. Un po’ una precursora della cultura della sex positivity…
“Sì, perché no. Lei non si è mai mossa in modo ancillare rispetto all’uomo. Non aveva bisogno di una spalla, la figura maschile non era necessaria alla sua realizzazione, e anche di questo cantava nelle sue canzoni. ‘A far l’amore comincia tu’, prendi l’iniziativa. Ha smontato l’idea monogamica della donna che si lega a un uomo e gli resta fedele per sempre”.

E lei andava in Rai a mandare questo messaggio.
“Anche se noi adesso guardiamo indietro e ci sembra che negli anni ’70 e ’80 fosse tutto in bianco e nero e che ci fossero tanti retrogradi vittime della censura, cosa in qualche modo vera, credo che, per certi versi, ci fossero sprazzi di modernità più evidenti di quelli di oggi”.

Invece oggi a che punto siamo?
“C’è una scollatura profonda tra chi fa attivismo sui social e non lascia passare nemmeno una virgola, e la mentalità conservatrice che certi mezzi mainstream continuano a proporre. E non vedo in giro tante Raffaella Carrà. Lei si incuneava in un mezzo tradizionale e lo piegava alla sua identità, trasmetteva ciò in cui credeva cantando e ballando. Non ha mai abdicato alla sua libertà, invece oggi mi pare che le persone siano meno disposte a rischiare”.

All’interno del libro parla anche dei momenti in cui Carrà sbaglia, inciampa, fa retromarcia. Perfino una figura come lei è fallibile.
“Quando le persone famose muoiono credo sia un istinto naturale ricordare solo le cose positive. Invece ci sono state critiche, polemiche, chi ce l’aveva duramente con Raffaella Carrà. Ha avuto delle défaillances, dei piccoli insuccessi. Quando tentò di andare nelle reti Fininvest, ce la mise tutta per far andare bene i suoi programmi, ma fu costretta a tornare in Rai. Dopo Carramba, un programma epocale da ogni punto di vista, provò a fare Sogni, poi Amore, poi The Voice, poi Forte Forte Forte“.

Non ha funzionato.
“No, non riusciva più a intercettare il favore del pubblico. Ma lei scrollava il caschetto e voltava pagina. I grandi fanno così”.

La narrazione dell’insuccesso, però, non ha molto spazio.
“Gli insuccessi sono sempre meno tollerati nella nostra società. A nessuno è permesso di sbagliare. Mi viene in mente il programma di Alessandro Cattelan su Rai1, Da grande, che per alcuni non ha raggiunto gli obiettivi prefissati e quindi basta, croce sopra senza possibilità di appello. Quella è una narrazione che non corrisponde alle dinamiche della vita vera. Tutti abbiamo successi e insuccessi, e una società che ci prepara solo a essere glorificati è una società che ci inganna e non ci racconta la verità”.

Carrà si definiva “icona gay suo malgrado”. Le persone della comunità LGBTQ+ l’hanno riconosciuta, tu scrivi, “come quando si distingue tra la folla un volto familiare”.
“Sì, ‘suo malgrado’ non perché fosse dispiaciuta per questo titolo, ma perché non capiva cosa avesse fatto per meritarselo. In realtà già in questa frase ha compreso benissimo il concetto di icona gay: le icone vengono scelte per ragioni insondabili. Certo, ci sono delle caratteristiche: che fosse appariscente, carismatica, che sfidasse le convenzioni, che avesse anche qualche ombra, qualche sfumatura drammatica”.

È stato un amore reciproco.
“Al contrario di tante altre sue colleghe, si è sempre esposta fino in fondo a favore della comunità Lgbtq+. Ha sempre difeso l’idea che le persone potessero inseguire il proprio orientamento e la propria identità sessuale senza che la società si mettesse di mezzo. È stata una paladina, una grandissima alleata. Poteva stare zitta, non dire niente, e invece si è sempre esposta. Noi le saremo sempre grati per questo”.

Si è schierata perché lei era così, “vera”, appunto, e quello era ciò in cui credeva.
“Raffaella Carrà non è mai stata una femminista, un’attivista o una combattente nel senso letterale del termine. Al di là delle etichette, era molto pragmatica: ha preferito fare le cose, dirle, e così ha ottenuto grandi risultati”.

All’interno del libro i principi sono dieci. Quello che sente più vicino?
“Istintivamente ‘Fai l’amore con chi hai voglia tu’. Le persone queer ci mettono tanto per accettare che ciò che provano sia lecito e che possa essere vissuto senza limiti. ‘Fai l’amore con chi hai voglia tu’ è una cosa che ancora adesso dobbiamo ripeterci con insistenza. Ci riguarda tutti: ogni persona può scegliere con chi fare l’amore e nessuno può giudicarla per questo. È uno degli insegnamenti più rivoluzionari di Raffaella Carrà, e forse non l’abbiamo ancora assorbito fino in fondo”.

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