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“Oggi ho meno rimpianti e nostalgie”: Veronica Raimo si racconta

Veronica Raimo

C’è una bambina che si annoia mortalmente in una casa che cambia continuamente conformazione; passa i pomeriggi a riempire pagine di numeri con il fratello, tirando i dadi nella speranza che esca il cinque – e se non esce si può aiutare, perché in fondo cosa è più importante? Il cinque o quello che racconta?

In Niente di vero, nuovo romanzo di Veronica Raimo uscito per Einaudi, l’autrice riprende i fili della propria giovinezza, mettendo in scena il padre, con la sua ossessione di erigere muri in mezzo alle finestre, la madre in grado di raggiungere telefonicamente i figli in capo al mondo e il fratello enfant prodige, Christian, anche lui scrittore.

All’interno della famiglia si ricade nei ruoli che vengono assegnati, che si concretizzano per l’accumulo di aneddoti, che siano veri o abbelliti, a sostegno della tesi: in questo senso, una famiglia, come un qualsiasi aggregato di persone, è una narrazione, una storia che ci si racconta a vicenda. Raimo gioca sul sovrapporsi continuo tra quella che è la memoria e quelle che sono le invenzioni che contribuiscono a portarci da un punto A a un punto B: quelle invenzioni ci rendono chi siamo tanto quanto quello che accade.

Tra pagine ricche di situazioni esilaranti, che più sono paradossali più sono convincenti, perché nelle più precise manie si ritrova la verità di ogni ménage, cresce il personaggio Veronica, ma anche lo stesso romanzo, che si compie sotto i nostri occhi.

Veronica Raimo, come mai a questo punto del suo percorso si misura con un testo così tanto autobiografico?
“Me lo sto chiedendo io stessa. In tutti i libri che ho fatto c’era sempre una qualche trasfigurazione, una personificazione di me. In genere mi ritrovo a scrivere cose molto diverse dalle precedenti: non è intenzionale, è più una questione di curiosità. L’ultimo romanzo (Miden, Mondadori, ndr) era una specie di distopia, ambientata in un posto finzionale, con una scrittura fredda, asettica. Raccontare se stessi e la propria storia ha bisogno di un tempo che permetta anche una distanza da quel racconto. Non significa che sia necessaria un’elaborazione più profonda ma, almeno per me, serve proprio quello spazio per poter giocare di più anche con dei registri diversi, in questo caso il comico. Non avrei scritto quello che ho scritto in questo modo a vent’anni, ma nemmeno a trenta”.

Se inventare è trovare, un ricordo è qualcosa che viene ritrovato, e reinventato: nel momento in cui troviamo nel già accaduto, esiste ancora un confine tra i fatti e il loro potenziale?
“Mi rendo conto, e anche questo è un dato probabilmente legato all’età, che sto perdendo la memoria. La memoria è sempre stata una mia rivendicazione molto forte, per me è eticamente importante essere la persona che ricorda. Ora sto cominciando a dimenticare le cose, e dimenticare le cose significa compiere anche delle sostituzioni: non restano dei vuoti, ma dei ricordi sfumati, e in quelle sfumature si costruisce qualcos’altro. È una sostituzione simile a quella che accade nei sogni, in cui hai degli elementi fattuali che vengono rimescolati, e ricollocati in maniera diversa. È come se il fatto rimanesse un elemento residuale, mentre il resto è costruzione, e invenzione”.

La noia che si prova da bambini è una noia che non si ripete più: da adulti non ci dà lo stesso accesso alla creatività?
“Questo è molto vero, e molto doloroso. Da adulti si impara a gestire la noia come si impara a gestire il dolore, la sofferenza: si mettono in atto dei meccanismi di difesa per preservare se stessi. Da bambini si è davvero dentro l’esperienza, e quando l’esperienza è la noia si finisce per soccombere, non avere le armi e serve sviluppare determinate strategie. Oggi mi viene da dire che le strategie le ho già sviluppate, e le metto in atto, quindi se mi annoio e so che mi sto annoiando sono consapevole che a un certo punto mi tirerò fuori da quel pantano. Adesso la noia è un’esperienza come un’altra, non è quell’universo gigantesco che ti dà la spinta per trasformarla in altro, e per trasformarla in maniera creativa”.

È un libro divertente, che lascia lo spazio anche a una sorta di nostalgia. É questa la posizione di chi scrive, essere sempre dentro e fuori dalle cose?
“Per me è abbastanza così, e forse non soltanto nella scrittura. A volte è un incubo essere sempre dentro e fuori, avere in sé questa specie di continua autocorrezione, di continua rettifica. Quando si parla di concetti come l’immediatezza rimango perplessa, mi sembra che nella mia vita sia tutto talmente mediato, se non dagli altri da me stessa, e questo si trasla a maggior ragione nella scrittura, che già di per sé è utilizzare un mezzo. È la mia cifra dell’essere al mondo: a volte mi genera un forte sentimento di straniamento, ma è l’unico modo in cui faccio esperienza delle cose, attraverso questa ambivalenza”.

Ricorrono nel testo diversi modi di dire, comuni all’interno della famiglia e del gruppo di amiche: è un’altra forma di narrazione che ci tiene insieme?
“I miei rapporti più stretti, che siano sentimentali o di amicizia, spesso si sviluppano intorno a dei tormentoni condivisi, inside jokes. La capacità di creare insieme un nuovo vocabolario mi piace tantissimo e mi fa sentire molto vicina alle persone. Una cosa che amo è giocare, e in particolare giocare con le parole, fare dei giochi che ti portano a risemantizzare le parole credo sia uno degli accessi più belli e privilegiati agli altri”.

La famiglia è anche il luogo della disfunzione, eppure è ancora presa a modello come nucleo della società: c’è un modo di superare questa concezione?
“Me lo auguro tantissimo. Nel mio piccolo e nella mia esperienza di vita penso di aver sostituito la famiglia con la comunità. Le amicizie e le persone che si scelgono diventano la famiglia. È stato un processo inconsapevole, ma ho adottato questa sostituzione nella mia vita. Nella speculative fiction si immaginano famiglie che sono percepite più come delle reti, delle comunità, dove l’elemento genetico ha un peso minore, o è modificabile, c’è una sorta di fratellanza, o sorellanza ‘alternativa’. Mi piace pensare che più di un’idea di discendenza ci sia un’idea di comunanza. Non è un pensiero ideologico, lo sento molto nella mia vita, e sono felice che sia così. Spesso questa cosa si riduce al voler allargare il concetto di famiglia, invece di farlo esplodere”.

Qual è il suo aneddoto preferito?
“Nel romanzo?”.

Anche fuori dal romanzo, qualcosa che non è entrato nelle pagine.
“Poco fa stavo scrivendo un pezzo a quattro mani con mio fratello, per una rivista. Ci siamo rimpallati un po’ di domande a vicenda sulla scrittura e sulla nostra famiglia. Lui ha tirato fuori qualcosa che tutti e due ricordavamo male: quando eravamo piccoli c’era nostro nonno che ci raccontava storie strampalate. Era un po’ come la serialità televisiva: cominciava la storia, poi la riprendeva la sera dopo, e la sera dopo ancora: non avevano né capo né coda, non c’era nessun criterio di storytelling, ma le seguivamo, e facevamo aggiustamenti, domande…Una volta ero in dormiveglia, o stavo proprio dormendo, e sono intervenuta dicendo ‘Vi dirò tutto, vi dirò tutto, tranne il prezzo!’. Ancora adesso mi chiedo cosa stavo sognando, chi era quella creatura che diceva una cosa del genere?”.

Se il nostro futuro è già passato, qual è il futuro di Veronica, prendendo le mosse da questo romanzo?
“Aiuto. Per una volta tanto che sono abbastanza a mio agio con il mio presente… Adesso riesco ad avere meno nostalgie. Non dico che sono venuta a patti con me stessa, ma ho meno rimpianti di qualche anno fa. Il mio presente, le relazioni costruite, la comunità che ho intorno sono cose che spero di portarmi nel futuro, ma sto abbastanza bene, anche se non mi azzardo a dire che sono felice”.

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