“‘Tasmania’ è una storia sincera, senza convenevoli. Che poi, alla fine, non cerchiamo tutti questo nel rapporto con gli altri? Non abbiamo la sensazione di perdere tantissimo tempo con dialoghi privi di senso? Ecco, questo libro vuole essere un dialogo di senso con le persone vicine”. In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Paolo Giordano, ilLibraio.it ha intervistato l’autore, con cui ha parlato della complessità del presente (dalla crisi climatica a quella affettiva), delle preoccupazioni per il mondo in cui viviamo e per il nostro futuro, di genitorialità, di sofferenza e di scrittura: “La sofferenza altrui a me interessa, forse è la cosa che mi interessa di più, però spesso mi sovrasta anche. Per questo scrivo…”

Si aspettava da molto un libro capace di raccontare la complessità del presente, tenendo insieme i grandi temi della contemporaneità. Si aspettava e, al tempo stesso, si temeva: come si temono gli specchi, o le fotografie che sono in grado di cogliere la nostra vera natura. Tasmania (Einaudi) è un libro che parla di noi, di quello che viviamo ogni giorno e che ci spaventa – o che non ci spaventa abbastanza.

Un libro sulla crisi – climatica, morale, affettiva – che però non vuole essere critico; un libro sulla disperazione e sulla consapevolezza, sul futuro e sulla speranza. È un libro “in emersione“, come lo definisce il suo autore, Paolo Giordano, in cui tutto è detto senza ricorrere a mezzi termini. E non potrebbe essere altrimenti viste le ambizioni e i temi affrontati, vista la spinta che permea ogni pagina e che sembra dire al lettore: apri gli occhi.

tasmania paolo giordano

Presentazioni necessarie, ma del tutto superflue: Giordano è tra le firme più note del panorama letterario italiano. Torinese classe ’84, vincitore del Premio Strega a soli 26 anni, ha debuttato nel mondo delle lettere con un esordio memorabile e di grande successo, La solitudine dei numeri primi (Mondadori), per poi proseguire la sua carriera con Il corpo umano (Mondadori), Il nero e l’argento (Einaudi), Divorare il cielo (Einaudi) e Nel contagio (Einaudi), un breve saggio uscito durante la pandemia. “Ho iniziato questa carriera da privilegiato, vivendo cose incredibili e irripetibili. Ma era un altro mondo, un mondo meno frammentato di quello attuale. Credo che oggi le dinamiche editoriali siano più complesse e meno prevedibili di un tempo, tuttavia questo è anche un momento prezioso, in cui è possibile aprire attorno ai libri delle conversazioni intime e di valore”.

È stata proprio questa la cifra del dialogo che abbiamo intrattenuto con l’autore, il giorno stesso dell’uscita di questo nuovo romanzo che ha scardinato ogni certezza per chi ha letto Giordano fin dalla prima uscita, rivelando ancora una volta l’unicità e il talento del suo autore.

Tasmania è un libro inaspettato, molto diverso rispetto ai suoi precedenti, specialmente dal punto di vista della struttura.
“È vero, è un libro molto poco programmato e programmatico. Un libro nato da un istinto, da una situazione”.

Quale, di preciso?
“Anni fa ho seguito per il Corriere della Sera la conferenza sul clima di Parigi. Non c’era ancora Greta Thunberg sulla scena, la questione ambientale era considerata un tema laterale, noioso e di scarso interesse. Pochi giorni dopo ci sarebbe stato l’attento al Bataclan, uno degli episodi più bui della nostra storia recente. Questo è diventato il punto zero da cui iniziare il libro. Non sapevo bene in che direzione sarei andato, ma avevo chiara un’ambizione: fotografare come siamo entrati in quel momento così strano e di estremo turbamento che è stato per noi il 2020”.

E com’è stato scrivere seguendo questo istinto?
“Per me – ma non credo di essere l’unico – è sempre molto spaventoso scrivere senza sapere cosa scriverai, ma solo con una spinta incomprensibile che ti porta a continuare”.

Sembra un po’ il cuore del suo romanzo: non sappiamo dove stiamo andando, non vediamo un futuro possibile, ma desideriamo comunque andare avanti.
“C’è un’energia particolare nella narrazione, ma non è un’energia depressiva: è la consapevolezza di vivere in un’epoca di crisi, un’epoca che ha un contatto diretto e costante con la morte”.

In effetti, leggendo i fatti riportati nel libro, si avverte una profonda sensazione di angoscia: come se si prendesse consapevolezza di quello che davvero stiamo vivendo.
“Sì, ma se ci pensi non ho scritto niente di nuovo: il cambiamento climatico, la povertà, le guerre… Sono notizie che tutti conosciamo, che fanno parte della nostra memoria condivisa”.

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Forse siamo così sottoposti a un bombardamento di notizie da non riuscire a metabolizzarle nel modo corretto?
“Io stesso, scrivendo, mi stupivo di quanto veloci siano diventati i nostri cicli di rimozione. Siamo talmente in contatto con un clima di sofferenza, che abbiamo un’alta capacità di accoglienza della tragedia: archiviamo ferite e paure continuamente”.

In quella che molti definiscono l’epoca dell’ipersensibilità, sembriamo essere diventati troppo poco sensibili.
“Quando ci sei dentro è strano, perché i fatti appaiono meno aberranti di quello che sono realmente. E questo per me è il senso dell’arte: riuscire a comprendere l’enormità delle situazioni che stai vivendo”.

Come si può riuscire a comprenderle senza esserne brutalizzati?
“Attraverso una controparte affettiva, umana. Il libro, infatti, è intriso della vita del narratore e della vita delle persone di cui è circondato. E questo perché le piccole cose quotidiane pesano sempre di più rispetto alle grandi calamità, davanti a cui siamo abituati a mettere dei freni. La nostra anima misura le distanze in modo distorto: gli oggetti vicini diventano immensi e le cose che invece dovrebbero toglierti il sonno la notte – come il cambiamento climatico – non lo fanno”.

E allora?
“Bisogna partire da ciò che ci commuove, ripartire dalla commozione. È una frase molto intima, ma che prova a dire qualcosa di più largo, qualcosa di politico e non solo di personale”.

Per questo ha deciso di esporsi così tanto all’interno del romanzo?
“Sì, Tasmania è molto autobiografico, investe parti di me pericolose, poco accettabili. Ma per raccontare ciò che desideravo avevo bisogno di espormi. È strano. Sono raramente disinvolto nel parlare di ciò che mi riguarda. Questo libro, però, è nato come una conversazione profonda con il lettore, che speravo avrebbe colto quello che stavo dicendo. Tutta la letteratura, in fondo, si basa proprio sul processo di definizione del rapporto di fiducia tra chi scrive e chi legge. Tasmania vive di questa idea, sia nella forma, sia nei contenuti. È una storia sincera, senza convenevoli… che poi, alla fine, non cerchiamo tutti questo nel rapporto con gli altri? Non abbiamo la sensazione di perdere tantissimo tempo con dialoghi privi di senso? Ecco, questo libro vuole essere un dialogo di senso con le persone vicine”.

Quindi apprezza le narrazioni che mettono al centro l’io?
“In generale ho una certa sospettosità nei confronti del parlar di sé soltanto per il gusto di parlar di sé, per il piacere di mettersi in scena. Questo sì, mi crea imbarazzo. Mi sono chiesto io stesso da dove provenisse il bisogno di essere al centro questa volta. La risposta è stata chiara e immediata. Nel momento in cui ho deciso di parlare di sofferenze altrui – anche un po’ rubandole – sentivo che era necessario pagare un pegno da parte mia. Un pegno di privatezza. E questo pegno poteva passare solo così, attraverso un uso dell’io più esposto”.

Al di là delle questioni legate all’ambiente e alla società, largo spazio nel libro è dedicato anche alle relazioni e alla genitorialità. Paolo, il protagonista di questa storia, deve fare i conti con il fatto che non potrà mai generare un figlio.
“Il tema della paternità avuta o non avuta è sicuramente centrale, e strettamente autobiografico. Ho scritto questo romanzo quando ho capito che quella cosa per me non sarebbe successa o, almeno, non sarebbe successa così come la immaginavo inizialmente. È stata una lunga elaborazione di un lutto senza morte”.

E a cosa ha portato?
“Sento di averla archiviata. Penso che alla fine traspaia un atteggiamento abbastanza sereno, in questo senso. È un romanzo che, di fatto, ridimensiona l’idea generale di diventare genitori”.

In che senso?
“Di solito si pensa che la vita ci conceda o non ci conceda qualcosa. Per esempio: la vita mi ha concesso una paternità acquisita, come quella raccontata nel libro, mentre mi ha negato una paternità biologica. E potrebbe essere vero, detto così, ma potrebbe anche essere vero che sono io che ho fatto in modo di non concedermela. Non lo so. Ma la trovo una domanda interessante, soprattutto quando poi la questione della genitorialità viene messa in relazione all’idea di tramandarsi in un futuro, nel momento in cui l’idea stessa di futuro è messa in discussione”.

E lei è preoccupato per il futuro?
“Sono uno che si preoccupa tantissimo. Mi preoccupo di quello che succede fuori, ma soprattutto di quelli che mi sono vicino. Vado molto in ansia per l’incolumità delle persone a cui voglio bene, ma non la vedo necessariamente come una condizione di generosità. È solo una cosa per cui sono stato programmato”.

Un po’ questo suo lato caratteriale si percepisce.
“Nel libro sono andato alla ricerca dell’origine familiare ed emotiva di questa mia perenne preoccupazione”.

La risposta?
“È più che altro un tentativo di risposta. Forse, semplicemente, sono stato educato a occuparmi e preoccuparmi. Tanto che la sofferenza altrui a me interessa, forse è la cosa che mi interessa di più, però spesso mi sovrasta anche”.

E quindi?
“Quindi scrivo. La scrittura, in particolare quella di questo libro, per me, è un modo di fare i conti con la sofferenza”.

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Fotografia header: Paolo Giordano Getty Editorial Novembre 2022

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