“Io, come essere umano, non mi capacito della non esistenza di Dio. Dato che da bambina ci ho creduto con forza, quando non sono più stata in grado di farlo mi sono sentita orfana. Tutti noi siamo orfani di Dio, semplicemente perché tutti siamo gettati nel mondo senza averlo chiesto e senza riparo possibile dal dolore”. In occasione dell’uscita di “Mi limitavo ad amare a te”, un romanzo che prende le mosse dal conflitto in Bosnia-Erzegovina degli anni ’90, ilLibraio.it ha intervistato la vincitrice del Premio Campiello 2018 Rosella Postorino, con cui ha parlato di abbandono, di salvezza, di cura e del senso di esistere su questa terra: “Per anni mi sono interrogata sul fare o non fare figli. Mettere al mondo qualcuno significa costringerlo a sapere che la morte esiste e non potrà sfuggirle. Per me quella responsabilità era troppo difficile da sostenere. Ovviamente ha implicato un buco, dentro di me, non è stata una scelta serena. Ma tra mettere al mondo una nuova vita e provare a salvare le vite che già esistono, forse la genitorialità – se un giorno mi sentirò all’altezza di praticarla – per me sta lì, nel dare sollievo a chi al mondo c’è già. La cura, non la creazione…”

Vincitrice del Premio Campiello 2018 con Le assaggiatrici, Rosella Postorino (nella foto di Sara Lando, ndr) è tornata in libreria con il romanzo Mi limitavo ad amare te, edito da Feltrinelli.

Una storia il cui argomento principale – il conflitto in Bosnia-Erzegovina degli anni ’90 – è così vasto e complesso che la prima sensazione che si prova prendendo il libro tra le mani è che ci si possa perdere. Si tratta, in fondo, di una delle guerre più tragiche della storia recente, una guerra che abbiamo avuto tanto vicina ma di cui, forse, non abbiamo mai percepito davvero la portata.

Postorino ci porta lì con le sue parole dosate e liriche, aprendo la narrazione su una realtà lacerata dalle bombe, dal freddo e dalla paura. Fa male, leggere le pagine di questo romanzo, così simili a scenari che abbiamo sotto gli occhi quotidianamente – ma di cui, forse, ancora una volta, non riusciamo a percepire la portata.

La prima conseguenza che porta con sé una guerra è la deflagrazione di ogni cosa: abitazioni, strade, certezze, famiglie. E anche il romanzo allora si scompone in tante storie, tanti occhi quanti sono i personaggi principali del racconto: Omar, Nada, Danilo e tutti gli orfani che, un giorno d’estate, vengono strappati via dalla loro terra salendo su un pullman che si dirige verso l’Italia. Ognuno è diverso, ognuno vive una tragedia tutta intima, ognuno cerca di ribellarsi, di adattarsi, di restare o di tornare a casa. Ognuno sembra sigillato in un dolore solitario e incomprensibile, eppure, ognuno sa che solo nell’altro c’è una possibilità di salvezza.

Sono tante le porte che Mi limitavo ad amare te spalanca, tante porte che conducono a riflessioni non solo sulla guerra (che è anche, sempre, una questione privata), ma sull’umanità, sulla carne e sulla fragilità, sull’amicizia e sulla crescita. Ma, soprattutto, sul senso di essere nati e di essere vivi.

Per seguire i profondi sentieri che ha tracciato nel suo lavoro, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice calabrese, che ha esordito nel 2007 con La stanza di sopra (Neri Pozza) e che ha pubblicato, tra gli altri, L’estate che perdemmo Dio (Feltrinelli), Il corpo docile (Feltrinelli), il libro per ragazzi Tutti giù per aria (Salani) e Io, mio padre e le formiche (Salani).

mi limitavo ad amare te

Mi limitavo ad amare te è un romanzo che si sviluppa sullo sfondo di uno degli eventi più tragici della Storia europea. È particolarmente duro leggere di violenza, di scontri, di esplosioni e di terrore in questi giorni in cui il conflitto ucraino diventa sempre più aspro. Quando e come mai ha scelto di raccontare questa storia?
“Ho pensato per la prima volta di scrivere questa storia nel 2019, anche se – come spesso mi capita – le ho fatto resistenza per un anno e mezzo, credendo di accantonarla e lasciandola invece lievitare dentro di me. Mi era capitato di leggere un articolo di ‘Osservatorio Balcani Caucaso’ che parlava dei bambini di Sarajevo portati in Italia nel 1992 per sfuggire alla guerra e mai più ritornati. La salvezza ha significato per loro anche la perdita di tutto ciò che conoscevano fino a quel momento, e dell’amore delle madri: è stata questa contraddizione a spingermi a scrivere. La guerra in Ucraina è scoppiata quando stavo finendo la quarta e ultima parte e a quel punto ho pensato fosse stato giusto raccontare la storia di Mi limitavo ad amare te“.

A proposito di Storia: non è la prima volta che un evento storico è cornice e centro del suo lavoro. Le assaggiatrici era ambientato durante la Seconda guerra mondiale e vedeva protagonista una delle assaggiatrici del Führer. In entrambi i casi, lei si è ispirata a storie realmente accadute, che ha fatto proprie costruendoci intorno romanzi di finzione. Da dove nasce questa esigenza?
“Mi interessa la realtà. La letteratura è lo strumento che ho, che hanno gli esseri umani, per indagare la realtà, che è complessa, atroce, contraddittoria. Mi interessa molto il modo in cui eventi che affollano i giornali (e che prima o poi diventeranno pagine di un libro di Storia) si riverberano sulle esistenze private, intime, delle persone. Il modo in cui condizionano i loro sentimenti, le loro relazioni”.

Ma veniamo al cuore di questo romanzo: l’essere figli. Perché, come scrive in un suo post di Instagram: “Nella vita possiamo diventare madri, oppure no, padri, oppure no, possiamo essere mogli e mariti, oppure no. Ma tutti, proprio tutti, siamo figli, semplicemente perché siamo nati”. E l’essere figli presuppone – quasi naturalmente e inevitabilmente – un abbandono. Tutti noi nasciamo, cresciamo e viviamo sapendo che, presto o tardi, saremo abbandonati. Come si affronta questo abbandono?
“In verità abbandoneremo, oltre che essere abbandonati. Abbandoniamo il corpo di nostra madre per esistere, per essere vivi, e abbandoneremo il nido, la famiglia, per essere adulti. Abbandoneremo anche tutti i sé che nel corso della vita saremo. La vita è una forma costante di tradimento”.

Proprio perché tutto gira attorno all’abbandono, Mi limitavo ad amare te sembra un romanzo che si costruisce sulle assenze: quella di una madre, di un padre, di un fratello, di una terra dove non si può più tornare. Sono assenze così ingombranti da risultare più reali e concrete delle presenze, perché determinano e scandiscono le scelte dei protagonisti. È la tensione a quello che non abbiamo (o che abbiamo perso) a tenerci in vita?
“A tenerci in vita è il desiderio. Che sia il desiderio di qualcosa che non abbiamo ancora avuto o di qualcosa che abbiamo perso, il punto è la mancanza. Il futuro non è altro che proiezione, desiderio proiettato. Senza desideri, la vita è pura biologia, sopravvivenza. Penso al titolo del più famoso romanzo di Peter Handke, Infelicità senza desideri, che parla della madre suicida e che ho riletto mentre scrivevo Mi limitavo ad amare te“.

Una buona parte del romanzo si svolge all’interno di un orfanotrofio. Si affrontano le questioni dell’affido e dell’adozione internazionale, realtà che sempre di più sono oggetto di discussione poiché spesso “romanticizzate” e mai raccontate per quello che sono realmente. Come ha scelto di addentrarsi in questi territori?
“Il romanzo comincia nell’orfanotrofio perché davvero la maggioranza dei bambini che sono partiti per l’Italia nel 1992 viveva all’orfanotrofio di Bjelave. Solo che non erano tutti orfani, molti avevano genitori che incontravano con una certa frequenza, ma che li avevano affidati alla struttura perché non potevano occuparsene, soprattutto per ragioni economiche. Alcuni di quei bambini sono stati dati in affido o adottati da famiglie italiane, nonostante i genitori biologici fossero vivi, ma il disastro della guerra e dell’immediato dopoguerra ha reso in molti casi impossibile rintracciare i parenti, e ciò ha generato infatti una diatriba fra Bosnia e Italia. A interessarmi però non è tanto questo aspetto – a me interessa sempre quel che più profondamente un evento simboleggia, rivela. Per esempio, che ogni salvezza implica un sacrificio. Che si può tentare di fare del bene senza riuscirci, ottenendo il contrario. Che anche l’amore può essere soffocante. Che ogni cosa che facciamo, siccome la facciamo con altri o ad altri, è contraddittoria. Che con la contraddizione dobbiamo convivere”.

Presente, fin dall’inizio, è l’elemento religioso. Non solo perché l’istituto in cui si trovano i protagonisti è gestito da una comunità di suore, ma anche attraverso molti discorsi che escono dalla bocca di Nada. Che rapporto ha con la religione?
“Nel romanzo l’istituto che ospita i ragazzi bosniaci è cattolico perché nella realtà è stato così. Io ho una formazione cattolica, come la maggioranza degli italiani, e intorno ai vent’anni, sebbene temessi molto di ammetterlo a me stessa, ho accettato di essere agnostica. La religione cattolica fa comunque parte del nostro bagaglio, è un pilastro della nostra cultura: per questo motivo, e perché il tema della teodicea è un’ossessione per me, nei miei romanzi ci sono spesso personaggi di formazione cattolica. Così era Rosa Sauer de Le assaggiatrici, così è Nada di Mi limitavo ad amare te. La guerra di Bosnia è stata anche una guerra di religione, ma fondamentalmente è stata una guerra di aggressione, in cui l’aggressore ha giocato a infervorare l’odio per le differenze, quando in città come Sarajevo la gente era abituata a convivere con culture diverse e i matrimoni misti (tra musulmani e ortodossi, per esempio) erano la normalità. La religione entra nel romanzo per evocare questo, ma soprattutto ci entra perché io, come essere umano, non mi capacito della non esistenza di Dio. Dato che da bambina ci ho creduto con forza, quando non sono più stata in grado di farlo mi sono sentita orfana. Tutti noi siamo orfani di Dio, semplicemente perché tutti siamo gettati nel mondo senza averlo chiesto e senza riparo possibile dal dolore”.

Tra le parole del romanzo, si percepisce sotterranea una domanda. Una domanda che ha a che fare con il senso di essere (e di generare) su questa terra, che spesso è una terra crudele, piena di odio e di atrocità. Lei che risposta si è data scrivendo questo libro?
“Per anni mi sono interrogata sul fare o non fare figli. Da Il corpo docile a Le assaggiatrici fino a Mi limitavo ad amare te. Ne Il corpo docile, come in questo mio ultimo romanzo, ci sono bambini danneggiati e segnati per sempre dall’origine. La terra non è ‘spesso’ crudele, la terra è crudele, punto. Esiste la morte, il corpo che si deteriora, che si ammala, esiste la perdita degli altri. È questo a rendere l’esistenza crudele, a prescindere da ogni forma possibile di felicità, che c’è, che conosciamo, che può essere anche dirompente. Mettere al mondo qualcuno significa costringerlo a sapere che la morte esiste e non potrà sfuggirle. Poiché l’istinto di sopravvivenza è fortissimo, e tutti noi abbiamo bisogno di amore, la maggior parte delle persone fa figli, e fa bene. Per me quella responsabilità era troppo difficile da sostenere. Ovviamente ha implicato un buco, dentro di me, non è stata una scelta serena. Ma tra mettere al mondo una nuova vita e provare a salvare le vite che già esistono, forse la genitorialità – se un giorno mi sentirò all’altezza di praticarla – per me sta lì, nel dare sollievo a chi al mondo c’è già. La cura, non la creazione”.

Un’ultima domanda, sull’aver fatto della scrittura la sua vita. A un certo punto nel libro si legge, tra parentesi, questa frase: “Per chi le scrivo queste pagine, io?”. Per chi scrive di solito Rosella Postorino?
“Per tutti coloro che, come me, fin da piccoli si sono aggrappati ai libri come a rami appesi sopra il precipizio, come ad aquiloni testardi e fortissimi nel vento”.

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